Haṃsa Libera Scuola di Hatha Yoga

Yoga? Si, ma śanaiḥ śanaiḥ. Un elogio della lentezza.

L’Haṭha Yoga è uno “Yoga dello sforzo…trattato nella Haṭhapradīpikā di Svātmārāma e praticato con forme di autotortura, come lo stare su una gamba, mantenere le braccia sollevate, inalare fumo a testa in giù, ecc...” (Monier-Williams 1899:1287).
Nel XIX secolo alcuni influenti indologi spiegarono per la prima volta all’Europa l’Haṭha yoga, basandosi sulla definizione del termine sanscrito haṭha come forza o violenza. Se da un lato le figure dello yogi, del sādhu e del fachiro si confondevano nella limitata e superficiale visione degli studiosi e colonialisti britannici, è anche vero che l’enorme diffusione delle tecniche hahayogiche a opera dell’influente ordine dei Nāth nei secoli precedenti aveva portato a una fusione di tapas (pratiche ascetiche, internalizzazione del sacrificio vedico descritte nei Purana) e Haṭha Yoga nella pratica quotidiana di diversi ordini di rinuncianti, fattore che ha sicuramente influenzato l’interpretazione ottocentesca del termine haṭha e osservabile ancora oggi.
Secondo queste prime definizioni l’Haṭha Yoga sarebbe una forma di Yoga caratterizzato da pratiche ascetiche estreme. Questa visione venne ereditata dagli studiosi del XX secolo, la maggior parte dei quali interpretò la violenza del termine haṭha non tanto in termini di tecniche come gli indologi ottocenteschi, quanto di sforzo esercitato nella pratica o di estrema, faticosa e vigorosa disciplina. Haṭha Yoga diviene lo Yoga dello sforzo, un metodo di yoga fisico che implica fatica, manipolazione violenta del corpo.
Nello stesso periodo in cui in Europa si mettevano le basi di questa interpretazione in Bengala Vivekananda si preparava a diffondere nel mondo intero la sua lettura neovedantina degli Yoga Sūtra di Patañjali e del “vero yoga”. Nel suo Raja Yoga del 1896, a proposito dello Haṭha Yoga scrive: “Non abbiamo niente a che fare con esso, poiché le sue pratiche sono molto difficili, e non possono essere apprese in un giorno, e, in fin dei conti, non portano a una grande crescita spirituale”. Se “una o due lezioni di Haṭha yoga possono essere utili”, il fine primo dell’Haṭha yoga ossia “far vivere gli uomini a lungo” attraverso la coltivazione di una salute perfetta, è un fine inferiore (citato in Singleton, Yoga Body: The Origin of Modern Posture Practice, p. 71). Il successo degli insegnamenti di Vivekananda diffonde il pregiudizio secondo cui l´Haṭha Yoga sarebbe una degenerazione dello yoga di Patañjali, lo yoga classico, puro e filosofico.
La visione dell’Haṭha Yoga come pratica faticosa, dolorosa e inferiore non è tuttavia una novità ottocentesca. Molti testi medievali e moderni che esprimono vie soteriologiche fondate sulla gnosi o l’iniziazione basano la loro retorica sulla denigrazione delle tecniche concorrenti, tra cui l’Haṭha Yoga. Nel Laghuyogavāsiṣṭha ad esempio si dice che l’Haṭha Yoga causa sofferenza; nel Jīvanmuktiviveka che la pratica di mṛduyoga lo “yoga dolce” delle pratiche vedantine tradizionali è superiore poiché dà effetti immediati mentre l’Hatha Yoga è una pratica graduale; nell’Amanskayoga viene definito superfluo, inutile: a nulla portano le faticose pratiche fisiche, tutto ciò che lo yogin deve fare è sedere quiete e immobile, il corpo rilassato e lasciare andare la mente dove vuole, poiché solo in assenza di controllo il suo movimento troverà quiete.
Da una prospettiva emica il quadro cambia radicalmente. Nessuno dei testi che trattano di Haṭha Yoga (o di tecniche corporee che verranno a posteriori definite tali) menziona pratiche ascetiche (tapas) e mai l’Haṭha Yoga viene descritto come una via che richieda la sofferenza o l’autosacrificio del praticante.
A questo proposito le fonti hathayogiche sono molto chiare. L’utilizzo di accezioni rimandanti all’idea di sforzo o di forzare sono sempre collegate alla pratica di tecniche miranti a un inversione di direzione: risvegliare e far muovere kuṇḍalinī verso l’alto, forzare apānavāyu a invertire la sua rotta discendente o far risalire bindu (seme) verso la testa. Haṭha si riferisce ad azioni che invertono e trasgrediscono l’ordine naturale ed è il loro effetto ad essere haṭha non il modo in cui vengono praticate. Nelle descrizioni delle tecniche viene usata molto più spesso un’altra parola, yatnena o prayatnena il cui significato a seconda del contesto può essere reso con “diligentemente”, “accuratamente” “vigorosamente”, “energeticamente”. Molto più spesso ricorre però la formula śanaiḥ śanaiḥ, “gradualmente, dolcemente”: gli effetti sono hatha ma la pratica dev’essere accurata e graduale, soprattutto quando si tratta di tecniche respiratorie, mudra e bandha, pena l’invecchiamento e la malattia:
La pratica deve svolgersi gradualmente non tutto in una volta. Il corpo di colui che cerca di fare tutto insieme viene distrutto. Per questo motivo la pratica dev’essere graduale...” HP 1.54-55
[Quando] il respiro viene arrestato con forza, fuoriesce dai follicoli piliferi. Questa [azione] fa a pezzi il corpo e provoca [malattie] come la lebbra” (Brahmānanda nel suo commentario alla Haṭhapradīpikā 2.49)
Così come il leone, l’elefante e la tigre vanno addomesticati gradualmente, allo stesso modo bisogna coltivare il respiro; altrimenti esso uccide lo yogin” (HP 2.15, Vivekamārtaṇḍa 123, Śāṇḍilyopaniṣad 7.6, Yogacūdāmaṇyupaniṣad 118).
śanaiḥ śanaiḥ, piano piano, un passo alla volta: la pratica non deve provocare fatica, la manipolazione del corpo dev´essere progressiva e graduale. Lo sforzo (prayāsa) é anzi un ostacolo (pratibandha) e va evitato (HP 1.15) . L´interpretazione di Haṭha Yoga come “sforzo violento” non ha dunque alcun fondamento, la retorica interna al movimento ricorda al contrario al praticante che tanto più una tecnica é potente tanto maggiore dovrà essere la cura nel praticarla, piuttosto che la forza.
La definizione di Haṭha Yoga come “Yoga dello sforzo violento” si combina bene con la pratica contemporanea, che è sempre più spesso un semplice workout di asana esoticizzato da un paio di namasté, e talvolta condito dal principio “più fa male più fa bene”. Niente di piú lontano dallo spirito dell’Haṭha Yoga. Le fonti confermano l’importanza di una pratica progressiva, śanaiḥ śanaiḥ ….poiché non é di performance che si tratta e perché i rischi sono alti. La recente polemica iniziata sul New York Times sugli effetti negativi dello Yoga (preview del libro di Glenn Black, The Science of Yoga: Risks and Rewards) ci ha sbattuto in faccia, dati medici alla mano, la concretezza di questi rischi (per un. Il problema peró non sono le pratiche in sé ma il modo in cui pratichiamo. Il vero problema è che abbiamo la tendenza a voler ottimizzare il tempo, ed é forse per questo che sembra sfuggirci di mano. Per ottimizzare il tempo bisogna metterci sforzo e fatica e sudore, fare fare fare, cosí da ottenere effetti visibili e misurabili in fretta altrimenti la motivazione muore…
L’Haṭha Yoga manipola il corpo e il respiro, muove le energie, inverte l’ordine di naturale decadenza. In questo senso puó essere definito una forzatura. Ma se cerchiamo salute, equilibrio, pace del cuore e della mente (e magari qualche siddhi) dobbiamo praticare śanaiḥ, gradualmente, e regalarci il lusso di perdere un pó di tempo… solo così esso magicamente rallenterà, sul tappetino e anche fuori.

9. Settembre 2013