Haṃsa Libera Scuola di Hatha Yoga

Maurizio Morelli

LA TERAPIA DELLA MEDITAZIONE

 

Terza meditazione
La trasparenza dell’Ego 

La terza meditazione ci porta a confrontarci con la natura dell’Ego. Scopo ed effetto è quello di risolvere elementi di contrasto, inibizione e riduzione, ristabilire la corretta pulsazione, di alleggerirlo e renderlo per così dire trasparente e perciò maggiormente sensibile alla luce della coscienza. Per prima cosa dobbiamo interrogarci sulle caratteristiche fondamentali dell’Ego, cercare di capirne meglio la natura. In senso macrocosmico è un potere della mente universale che si manifesta attraverso la creazione di forme di vita delimitate da forma e durata. La volontà che esprime è quella di continuare a esistere come entità definita. C’è una contraddizione di fondo, tra forma e durata (due limiti) e desiderio di continuità, che solo il completo sviluppo della coscienza può risolvere.

Le modalità di comportamento che questa volontà determina, nelle diverse forme di vita, sono conseguenti a numerosi fattori tra cui l’adattamento all’ambiente, la memoria genetica, la trasmissione culturale e l’orientamento cosciente o istintivo dell’identificazione, cioè quello che si ritiene sia il “continuare ad esistere”. L’orientamento dell’identificazione è particolarmente interessante e merita un approfondimento.

 

Se osserviamo il comportamento delle api o delle formiche comprendiamo che, per questi graziosi animaletti, il senso di soggettività è quasi totalmente trasferito al gruppo di appartenenza. La volontà di esistere della singola ape si identifica con l’esistenza dello sciame. Per contro la vita del gatto selvatico sembra incentrata esclusivamente sulla propria individualità, è un animale solitario che si occupa solo dei propri bisogni. Ma se ci sono dei piccoli, dei nuovi nati, allora la madre è disposta a mettere a repentaglio la vita. In questa situazione il desiderio di durare è trasferito e proiettato sulla prole.

Questi due semplici esempi ci fanno capire come quella volontà di continuare ad esistere che forma il nucleo dell’Ego possa manifestarsi in modi completamente diversi, ma sempre coerenti con l’elemento di identificazione. Negli animali i comportamenti sono regolati soprattutto dall’istinto della specie in relazione all’ambiente, con variazioni minime da un soggetto all’altro. Negli esseri umani sono molto più complesse, variate e sfumate.

Lo stimolo fondamentale è sempre quello, l’indirizzo e il significato che gli diamo molto diverso. Questo da luogo a variazioni veramente significative e fa la differenza. Se l’identificazione è orientata esclusivamente sul corpo avremo comportamenti molto simili a quelli di una scimmia o di un lupo, semplice conservazione della vita del singolo, della prole, del gruppo di appartenenza, con tutte le variazioni, degenerazioni ed eccessi che la mente umana sa escogitare. Nelle situazioni di grave pericolo, di guerra, di disastro, questo istinto primordiale cerca sempre di prendere il sopravvento. Se ci fermiamo a questo abbiamo sicuramente l’impressione che l’Ego sia proprio una brutta faccenda, qualcosa di cui liberarsi. Egoista è un termine usato in senso dispregiativo, e sta anche per vigliacco, prepotente, prevaricatore, opportunista.

All’estremo opposto troviamo l’orientamento spirituale completo e totale. L’impulso di base è lo stesso, ciò che ci spinge verso la luce e il divino è sempre l’impulso dell’Ego a continuare ad esistere. La differenza sta nell’avere superato tutti i livelli di identificazione, con il corpo, l’energia, la mente, il potere, la conoscenza. Siamo ancora egoisti, ma nel modo migliore. Solo a questo punto l’Ego può dissolversi. Tra questi due estremi, l’uomo bestia e l’uomo divinizzato, ciò che muta è l’oggetto dell’identificazione e ovviamente la capacità di comportarsi conseguentemente.

Si racconta che il Buddha, dopo aver raggiunto l’illuminazione, si sia fermato davanti ai cancelli del paradiso rifiutando di entrare sino a quando tutte le creature dell’universo  non gli fossero transitate davanti. Solo in quel momento egli raggiunse la più profonda integrazione con la coscienza divina, la vera compassione o amore universale, e la completa dissoluzione dell’Ego. C’è un grande insegnamento in questa parabola, ci spiega come anche i desideri più elevati e spirituali siano egoici, di fatto un limite. Ma dobbiamo conservarli, non possiamo abbandonarli prima di avere raggiunto le porte del paradiso.

Possiamo riprendere l’immagine dell’ascesa della montagna sacra, più si sale più diviene necessario alleggerirsi, ma non prima del tempo. Solo un folle può illudersi di scalare l’Everest nudo e senza un minimo di attrezzatura, e solo un folle cercherebbe di farlo portandosi dietro tutta la roba di casa. Portare quello che veramente è indispensabile e niente di più, questa è la regola.

Per evitare confusioni dobbiamo fare una breve ricapitolazione.

Ci sono due livelli di identificazione, una è la percezione di sé stessi come Ego, la seconda è dell’Ego con uno o più oggetti, in base a modalità soggettive ma sempre seguendo l’impulso a continuare ad esistere. È di questa seconda identificazione che ci stiamo ora occupando.

Rispetto alla prima identificazione va chiarito che l’Ego è parte di noi, ma noi non siamo parte dell’ego, allo stesso modo in cui la testa è parte del corpo ma il corpo non è parte della testa. Rispetto alla seconda dobbiamo ricordare che l’Ego ha in sé un desiderio, una spinta primordiale, continuare ad esistere, applicato a ciò con cui si identifica. Per questo motivo può essere il nostro peggiore nemico o il migliore tra gli amici.

Nella normalità della nostra vita i due livelli di identificazione si sovrappongono così da sembrare uno solo. Ma sono due e ben distinti. Se siamo in grado di spostare l’identificazione dall’Ego al Sé, dall’esistere all’essere, non abbiamo bisogno di fare altro. Ma se questo è abbastanza facile da capire intellettualmente, molto più difficile è realizzarlo in pratica. L’Ego, con tutti i suoi contenuti, è in posizione anteriore e copre completamente la visione, proprio come una mano davanti agli occhi ci impedisce di vedere tutto ciò che sta oltre.

Il primo passo per riuscire ad andare oltre questa barriera, per schiudere le dita e lasciare filtrare un po’ di luce, è alleggerirsi dei contenuti egoici conflittuali e inibenti. Sono questi che creano la maggiore oscurità, ci paralizzano e assorbono grandi quantità della nostra energia, indeboliscono il campo vitale, ci fanno ammalare e sono freni allo sviluppo della coscienza. Finché la maggior parte dell’energia è bloccata da questi contenuti non possiamo spostare  l’identificazione a livelli superiori, anche se siamo convinti della necessità e dell’opportunità di farlo.

 

I disturbi cui fare riferimento in relazione alla conflittualità dell’Ego sono principalmente associati al rapporto di necessità con l’esterno. Dobbiamo assorbire energia e trasformarla, rendendola adatta alle nostre necessità. Energia che assorbiamo in forma di cibo, respiro, stimoli intellettuali e anche regole comportamentali. Di questo ci nutriamo e quando qualcosa non scorre i primi a risentirne sono gli organi digestivi, in particolare stomaco e fegato, e quelli collegati alla percezione sensoriale, al vedere, al sentire e comprendere (prendere in sé). Oppure alla respirazione che può farsi incerta, a scatti o frequentemente interrotta a causa di irrigidimento diaframmatico, con espirazione ridotta e/o forzata. Anche disturbi cardiaci e, su un piano psicologico, volontà di dominio, controllo parossistico sugli eventi, incapacità di essere affettivi, stato di costante tensione. Per estensione la difficoltà nei rapporti con l’esterno viene trasferita a parti di sé stessi non accettate, a tutto ciò che è inconscio, istintuale, emozionale o comunque non controllabile.

Individuare gli elementi conflittuali è relativamente facile, sono le cose a cui pensiamo più spesso e che determinano in noi le sensazioni, le reazioni emotive e i sentimenti più accesi e violenti. Sono i nostri demoni personali. Un individuo tranquillo e pacifico pensa poco, e quando lo fa i suoi pensieri sono essenziali e mirati. Il pensiero è uno strumento che si usa quando e per quanto serve.

Quando sono presenti contenuti conflittuali la mente, e per reazione il corpo, entrano in un circuito negativo perché il problema non è risolvibile se non attraverso un’amputazione. Entrambe le parti in lotta sono parte di me, non posso vincere senza essere al tempo stesso sconfitto. È un labirinto senza uscite e l’unica soluzione sembra proiettare all’esterno, sugli altri, una delle due parti. Il risultato è un estendersi del conflitto, proprio come quando un governo traballante dichiara guerra  alla nazione vicina per tacitare i dissensi interni.

Se sono pieno di rabbia ho due soluzioni, o tengo tutto chiuso e accumulo frustrazione, oppure proietto sull’esterno e mi sfogo. La seconda soluzione è apparentemente la più sana, ma in realtà sposta semplicemente il problema e spesso lo dilata perché a tempo debito il conflitto mi verrà riproposto dall’esterno. È inevitabile, chi semina vento raccoglie tempesta.

La terza soluzione, l’unica che sia veramente tale, è non essere arrabbiati, acquistare trasparenza, alleggerirsi. Dobbiamo capire che coltivare conflittualità è stupido e masochista. Le ragioni che siamo abituati a darci sono illogiche e distruttive. Quando diciamo, quello mi ha fatto arrabbiare, e ci sembra di avere una buona giustificazione, semplicemente non ci rendiamo, o non volgiamo renderci conto, che la rabbia era già in noi, aspettava solo l’occasione per potersi manifestare.  Pensiamo di avere inflitto un danno senza capire che non possiamo essere arrabbiati con qualcuno senza esserlo anche con noi stessi.  

Prima di entrare nello specifico di questa modalità di meditazione cerchiamo di focalizzarci su quelle caratteristiche che ci permettono di individuare questi nuclei o grumi conflittuali:

  1.  Assorbono i nostri pensieri con frequenza e ripetitività.
  2. Sembrano non avere soluzioni che non siano distruttive o sgradevoli, cioè interrompono la polarità nel nostro rapporto con noi stessi, gli altri e il mondo.
  3. Suscitano sensazioni, sentimenti, emozioni di cui faremmo volentieri a meno, anche reazioni fisiche quali sudorazioni, palpitazioni, tensione muscolare e rigidità, vampate, freddo, senso di oppressione al petto e crampi allo stomaco, gambe molli, mal di testa e altro.
  4. Quasi sempre hanno relazione con ciò che, negli altri, ci da più fastidio.
  5. Ci danno sensazione di oscurità. Questa indicazione è evanescente e difficile da percepire, ma molto importante perché simboleggia perfettamente ciò che in realtà avviene: ci allontaniamo dalla luce. 

 

Risoluzione della conflittualità

Prima di iniziare questa meditazione dovete avere deciso con quale elemento conflittuale volete confrontarvi. Può essere il rancore, l’ostilità, il senso di inferiorità, il perfezionismo, la dipendenza psicologica, l’irascibilità, quello che voi sentite come limite e ostacolo principale. Un elemento per volta.

 Dopo avere assunto la postura di meditazione e realizzato una corretta stabilità indirizziamo l’attenzione e la coscienza al respiro, per uno, due minuti. Poi lasciamo andare e focalizziamoci sull’oggetto della meditazione. Per seguire l’esempio precedente stabiliamo che il demone con cui vogliamo confrontarci sia la rabbia. Dobbiamo farci alcune domande.

 

Sono nato arrabbiato?

Qual è stata la prima volta in cui ricordo di essermi veramente arrabbiato?

Chi era la prima persona che ricordo di avere visto arrabbiata?

Che effetto mi fa quando una persona più forte o importante di me si arrabbia?

Cosa cerco di comunicare quando mi arrabbio? Penso di spaventare gli altri? Chi è che mi ha insegnato a spaventare gli altri con la rabbia? Chi mi ha spaventato per primo con la sua rabbia?

Animate le domande con la visualizzazione, cercate di vedere il vostro volto deformato dall’ira, e quelli di chi vi circonda o qualsiasi immagine si presenti. Sentite quanto sia sgradevole l’atmosfera quando la padrona di casa si chiama rabbia. Lasciate uscire le domande, le immagini e le sensazioni senza censura. Non preoccupatevi delle risposte, verranno da sole, cercate solo di precisare le domande, di sentirle e viverle, che siano chiare e nette. Dopo qualche minuto lasciate tutto, rimanete svegli e immobili e abbandonatevi alla meditazione.

Trascorso un periodo sufficiente, diverso da un individuo all’altro, riuscirete a percepire come quell’atteggiamento conflittuale con cui vi state confrontando sia solo una inutile gabbia in cui vi costringete, come una larva che non sa uscire dal bozzolo e trasformarsi in farfalla. Lasciatelo semplicemente andare e volate via. Ora siete un poco più liberi, trasparenti e leggeri.

 

Risolvere la conflittualità nell’azione

Considerando la forte componente proiettiva dei soggetti conflittuali, modificare le dinamiche dell’agire è indispensabile. La conflittualità va trasformata in servizio, l’azione egoistica in altruistica.

In questo caso non ci si può limitare ad aspettare che accada, bisogna scegliere e agire di conseguenza. Ristabilire modalità di azione finalizzate al benessere comune anziché alla supremazia aiuta a comprendere e fare esperienza diretta dei vantaggi dell’integrazione in alternativa all’opposizione. Libera dall’ossessione della supremazia e restituisce il piacere e la soddisfazione di sentirsi umani, parte di un tutto e non antagonisti. Questo va considerato come una indispensabile purificazione, una meditazione nell’azione.

Dare al nostro agire un indirizzo altruistico ci rende sicuramente migliori ma non necessariamente risolve il problema della conflittualità, che può essere semplicemente trasferita a un campo più vasto. È difficile e apparentemente impossibile essere a favore di qualcosa senza essere contro altre cose, e questa comunque è conflittualità. È necessario un altro piccolo scatto.

L’unica soluzione sta nell’offrire le proprie azioni a Dio, comunque voi lo intendiate.

Ci viene riproposto il tema fondamentale dell’orientamento spirituale, che è il vero centro di ogni possibile evoluzione e la chiave per accedere alla meditazione. Offrire ogni azione a Dio è un sacrificio, rende sacro il fare, anche il più comune e elementare dei gesti. Il centro dell’azione si sposta in una regione al di là della dualità, e quindi di ogni possibile conflittualità. Al tempo stesso la qualità dell’azione si perfeziona al massimo delle nostre possibilità, perché non si portano al tempio fiori appassiti o frutta marcia. Se l’offerta è sincera vorremo solo il meglio e ci impegneremo senza riserve, non ci sarà attesa di ricompensa ne saremo vincolati dall’idea del successo.

Siamo sulla strada giusta per trasformarci in guerrieri della luce.