Haṃsa Libera Scuola di Hatha Yoga

Valeria Magrini

MILAREPA

Magia nera

Sul bianco cavallo “Leone Briglia Sciolta”, con al collo la turchese “Grande Stella Emanazione di Luce”, Milarepa era in viaggio, insieme ad alcuni ragazzi che, come lui, andavano ad apprendere la magia.
Il distacco dalla madre era stato straziante. Il suo cuore aveva avuto come il presentimento che non l’avrebbe più rivista. Più e più volte era stato stato sul punto di voltare il cavallo e tornare indetro ad abbracciarla.
Ora un unico desiderio albergava dentro di lui, trovare un buon maestro, un lama potente, versato nelle arti magiche, per compiere la volontà della madre. Prima di lasciarlo partire, infatti, Bianca Ghirlanda gli aveva ingiunto di non ritornare, se nessun segno certo di magia si fosse manifestato, altrimenti ella si sarebbe uccisa con le sue proprie mani, davanti ai suoi occhi.
Milarepa non poteva neanche lontanamente immaginare una tale eventualità, perciò aveva promesso. Se voleva rivedere la sua amata madre non doveva fallire.
Mila e i suoi compagni cavalcavano di buona lena lungo tortuosi sentieri, attraversando ampie valli, stretti valichi, inerpicandosi a volte su per i fianchi delle montagne, sempre mantenendo gli occhi ben aperti perchè le strade erano infestate dai briganti, ed essi non avevano nessuna intenzione di essere derubati.
Lungo il cammino chiedevano informazioni ai pochi viandanti che incontravano, per non sbagliare strada. Arrivati in un luogo chiamato “Ovile di Thon”, nella provincia centrale, i ragazzi iniziarono a domandare ad un gruppo di monaci se qualcuno conoscesse qualche lama esperto in magia, affaturamento e grandine e furono indirizzati da un mago nero chiamato “Vincitore Irato Maestro Immutabile” da un monaco che un tempo era stato suo discepolo.
I ragazzi si inerpicarono per un sentiero che saliva a spirale, costeggiando, da un lato, la parete rocciosa di una montagna, dall’altro il vuoto, perchè la casa del lama si trovava proprio sotto la cima. La videro svettare dal basso, le bandiere che fremevano al vento tagliente dell’Himalaya.
I giovani si presentarono come aspiranti novizi ad alcuni monaci , discepoli del lama, che li guardarono sorridenti e li accompagnarono di buon grado all’interno della casa, introducendoli dal loro maestro.
Il lama era un uomo imponente, sulla quarantina, dallo sguardo intenso. Indossava la tipica veste dei monaci, ma non era rasato; i suoi lunghi capelli neri scendevano fino alla schiena. Accolse affabilmente gli aspiranti novizi, chiedendo loro chi fossero e da dove venissero.
Dopo aver risposto alle sue domande i compagni di Milarepa offrirono parte dei doni che avevano portato, ma egli si gettò ai suoi piedi offrendogli tutto ciò che aveva portato:
“Maestro, vi offro il mio corpo, la mia parola e la mia mente, oltre a queste doni, se mi aiuterete a fare giustizia del danno incommensurabile che io e la mia famiglia abbiamo a torto subito, e a far manifestare una potente magia contro i nostri nemici!”
Il lama dissse che ci avrebbe pensato, ma era turbato da questo giovane così diverso dagli altri. Non sapeva se credere alle sue parole, e d’altra parte dargli ciò che egli chiedeva avrebbe significato conferire un terribile potere al ragazzo.
La magia era una cosa seria, non doveva andare nelle mani sbagliate. Vincitore Irato ne conosceva tutta la potenza, la carica distruttiva che poteva rivoltarsi anche contro chi l’avesse evocata, se non possedeva gli attributi richiesti. Non era certo così sciocco da svelare le potenti formule magiche al primo arrivato, quando costui non avesse gli attributi necessari.
Così egli iniziò ad istruire i novizi, ma senza insegnare loro mantra troppo potenti.

Passarono i mesi; quando giunse il momento di ritornare a casa, per far visita alla rispettive famiglie, Milarepa fu preso dalla disperazione e pensò:
“Come posso presentarmi al cospetto di mia madre senza aver inviato neanche il più piccolo segno di magia? Ella si ucciderà!” E così, invece di andarsene, rimase nei pressi del monastero.
La donna che serviva il lama lo trovò che dormiva all’aperto, avvolto nel suo mantello di lana, e andò a riferirlo al maestro.
Il lama era perplesso. Non aveva mai avuto un discepolo così devoto, pronto a offrire tutto se stesso. Forse costui diceva il vero, dopo tutto; ne parlò con i suoi discepoli più anziani ed essi andarono a chiamare Milarepa.
Egli andò dal lama e gettandosi ai suoi piedi disse:
“Maestro, sono venuto ad imparare la magia per vendicare le terribili offese che i nostri parenti più prossimi ci hanno fatto dopo la morte di mio padre! Mia madre, non avendo altra scelta, ha inviato me, che sono il figlio maggiore, affinchè facessi giustizia. Se ritorno senza che alcun segno di magia si sia manifestato ella si ucciderà davanti ai miei occhi!” E raccontò per intero la triste vicenda della sua famiglia.
Vedendo la disperazione del suo discepolo e commosso dal racconto dei terribili torti subiti, il lama disse:
“Se ciò che dici corrisponde a verità, ti darò la magia per distruggere i tuoi nemici.” E subito inviò ad indagare un suo discepolo, che era assai esperto nelle arti magiche, forte come un elefante e capace di correre più veloce del vento.
Egli andò e ritornò in un lampo, confermando le parole di Milarepa, e allora il lama prese la sua decisione:
“La magia è un grande potere e non si può conferire a cuor leggero. Ma dal momento che le tue parole corrispondono a verità, e che nessuno prima di te mi aveva mai offerto il suo corpo, la sua mente e il suo cuore, ho deciso di accontentarti. Andrai dal lama Oceano di Qualità di Khu Lung, nel paese di Nub Khu Lung, e gli porterai la mia formula di distruzione in cambio della sua. Egli possiede la magia di far cadere la grandine col solo gesto del dito, e ti istruirà, perchè è mio amico. Ora va’, mio figlio Giovane Potente ti accompagnerà. ”
I due giovani partirono, recando doni per il lama e una lettera. Il figlio del lama conosceva la strada ed essi raggiunsero l’eremo dopo alcuni giorni di viaggio.
Oceano di Qualità viveva in un eremitaggio che si trovava in una radura assai isolata e nascosta sul fianco di una montagna. Il paesaggio era completamente spoglio e, poco lontano, si scorgeva un piccolo lago dalle acque scure incastonato tra le rive pietrose. Un aura sinistra spirava tutto intorno, il cielo iniziava ad imbrunire , attraversato dai voli radenti dei pipistrelli.
Mila rabbrividì. Era pronto a tutto, ma quel luogo lo inquietava. Percepiva in maniera quasi tattile la presenza degli spiriti della montagna e dell’acqua, e non gli sembravano affatto presenze rassicuranti. Trasse un respiro profondo e mormorò alcuni “mantra” che Vincitore Irato gli aveva insegnato prima di partire, da usare come protezione contro le entità occulte. Giunsero poco dopo in vista della casa del mago, una costruzione bassa, fatta di pietre, senza finestre e con una piccola porta di legno sul davanti.
Oceano di qualità era un uomo molto anziano, basso di statura e tarchiato. Quando i due giovani arrivarono era seduto all’aperto, quasi li stesse aspettando.
Essi lo salutarono con deferenza, offrendogli i doni e la lettera di Vincitore Irato. Milarepa si presentò e, alla richiesta del lama, gli raccontò ogni particolare della sua triste vicenda, pregandolo con insistenza di dargli la magia.
Oceano di Qualità lo rassicurò:
“Non ti preoccupare, giovane discepolo, il lama “Vincitore Irato Maestro Immutabile” è un mio caro amico, e io ho intenzione di onorarlo conferendoti ciò che chiedi. Avrai la magia, ma devi costruire una cella al sicuro da ogni sguardo umano, per compiere i dovuti sacrifici.”
Così Milarepa, ansioso di ottenere il potere magico per soddisfare il desiderio materno, si mise all’opera alacremente, aiutato da “Giovane Potente”.
Costruirono un rifugio sicuro, con tre piani sotto terra ed uno fuori, circondato da un muro di pietra, impossibile a vedersi dall’esterno.
Milarepa si chiuse all’interno e allorchè il lama gli ebbe dato l’incantesimo magico, iniziò il rito. Officiava davanti ad un altare sul quale erano collocate alcune immagini di divinità terrifiche, una tromba ricavata da un femore umano, un teschio che serviva come coppa per le libagioni, il tutto collocato all’interno di un cerchio magico delimitato da candele accese e simboli occulti, a protezione del praticante. Sulla parete di fronte era stato appeso un mandala, sul cui fondo nero spiccavano file di piccoli teschi, disposti in cerchio attorno ad una figura centrale, un demone dal corpo di animale e dalle fauci insanguinate, sul quale doveva concentrarsi l’attenzione del giovane mago mentre salmodiava ininterrottamente le formule magiche. Attraverso la meditazione e la ripetizione continua dei potenti mantra Milarepa evocò per sette giorni le entità e i demoni legati al lama, senza interruzione.
All’interno della cella, dove non penetrava la luce del sole, Mila perse ogni cognizione del tempo; alla luce delle candele il volto delle terribili divinità irate acquistava contorni grotteschi, e dalle bocche contorte in un ghigno sembrava emergere una risata agghiacciante. A volte strane correnti d’aria lambivano il corpo del mago, in altri momenti egli si sentiva toccare. Incurante di tutto ciò, anche se sentiva accapponarsi la pelle, il giovane andava avanti, con determinazione e coraggio.
Al termine del periodo prefissato, Oceano di Qualità si appressò alla cella e disse che il rituale poteva dirsi compiuto.
Ma Milarepa non era soddisfatto; voleva essere sicuro, per tema di fallire, e pregò il lama di lasciarlo continuare per un’altra settimana.
Di nuovo evocò divinità terrifiche, che avrebbero spaventato a morte chiunque altro, ma non Milarepa, nelle cui vene scorreva il sangue del suo avo Gyose; l’unica sua paura era quella fallire e di non accontentare la madre.
Prima che trascorresse la seconda settimana, qualcosa accadde all’interno della cella. Strane e potenti forze iniziarono a manifestarsi, visitando i sogni e le visioni del giovane. All’improvviso egli sentì freddo e vide sprigionarsi dall’incensiere posto dinanzi a lui un fumo sempre più fitto. Non sapeva più dove si trovasse, le pareti della cella erano sparite, insieme ad ogni punto di riferimento. Il fumo saliva in volute sempre più ampie, come una gigantesca spirale ruotante in senso antiorario. Il cuore di Milarepa sembrò arrestarsi un attimo, poi con un sobbalzo riprese a battere furiosamente. Davanti a lui il fumo iniziò ad assemblarsi e a dividersi, finchè non si distinsero tre figure di demoni dagli occhi fiammeggianti, i quali emettevano rumori e grugniti raccapriccianti.
Milarepa pensò di fuggire a gambe levate quando d’un tratto la visione sparì, ed egli si ritrovò nella cella. Fuori albeggiava, anche se all’interno sembrava sempre notte, e il lama, essendo scaduto il quattordicesimo giorno, si stava avvicinando alla piccola apertura segreta per comunicare con l’allievo.
“Stasera avremo la prova che la magia è riuscita” disse.
Milarepa, felice di essere così vicino alla meta, officiò fino a notte, senza cedimenti. Ad un certo punto, apparvero di nuovo le entità terrifiche, e con voce cavernosa e gutturale così parlarono:
“Siamo stati richiamati dai mantra e dalle continue invocazioni! Ecco quello che volevi!” e ammucchiarono nella cella, intorno al mandala, trentacinque teste umane e visceri grondanti di sangue. Era la prova che il rito aveva avuto successo.
Il mattino seguente il lama ritornò, e chiese a Milarepa:
“Trentacinque persone sono morte, ma ne mancano ancora due, lo zio e la zia. Cosa vuoi fare?” Milarepa ci pensò su, poi rispose:
“Lasciamoli in vita, così potremo esprimere loro la nostra soddisfazione e il nostro trionfo sarà completo”.
Fatte ai demoni le dovute offerte, Milarepa uscì dal ritiro.

Nel frattempo al suo paese era successo un evento terribile, una tragedia che mostrava di avere l’impronta di una potente magia nera.
Quel giorno a casa dello zio era grande festa, in occasione delle nozze del suo figlio maggiore.
La casa era addobbata con festoni colorati e lanterne , tappeti lussuosi erano sparsi ovunque, le pareti erano arricchite di tanka preziose.
Diversi servitori si affancendavano all’interno, alcuni erano intenti a preparare le vivande e ad allestire la tavola, altri offrivano dell’ottimo chang agli ospiti che stavano arrivando.
Tra i domestici era presente una antica serva di Bianca Ghirlanda, la quale aveva lavorato presso la sua famiglia prima della morte del padrone. Ella era uscita per attigere l’acqua al pozzo dietro casa. Passando davanti alla scuderia vide, al posto dei cavalli, scorpioni , ragni, serpenti ed altre entità connesse con la magia nera. Uno scorpione gigantesco attirò la sua attenzione spaventandola a morte, mentre con le zampe mostruose cercava di distruggere le mura portanti della casa.
La serva fuggì in preda al terrore, correndo via lontano.
Nella scuderie, gli stalloni tutti insieme montarono le giumente in calore, scalpitando con gli zoccoli poderosi e sferrando calci ai pilastri della casa.
Molti degli invitati, tra quelli che avevano contribuito con il loro comportamento a perpetrare il danno alla famiglia di Milarepa, prendendosela con la povera vedova e i due figli, erano già arrivati, ed erano per l’appunto trentacinque persone.
Proprio in quell’istante, lo zio e la zia uscirono per dare disposizioni sul banchetto.
Un rumore assordante, unito al crollo della casa ed alle urla di spavento degli invitati, fu udito tutto intorno.
La tragedia era giunta inaspettata e improvvisa e nessuno era in grado di valutarne i danni. Sembrava che le mura fossero state risucchiate dal basso verso una voragine di terrore e distruzione. Il tetto era crollato, le pesanti travi si erano schiantate al suolo abbattendosi sui malcapitati, colpiti anche dalle grosse pietre delle mura portanti, senza possibilità di scampo.
La casa era ridotta a un ammasso di macerie fumanti, tra le quali si distinguevano i corpi senza vita dei convitati, i volti ancora contratti in un’espressione di sgomento.
All’esterno si levò un coro di pianti disperati e di grida di dolore.
Iniziarono le ricerche, purtroppo coloro che per disgrazia si trovavano all’interno erano tutti morti, tra cui i figli degli zii paterni.
La notizia giunse fino a Bianca Ghirlanda. Fu Peta, la sorella di Milarepa, a portargliela.
La vedova fu l’unica a non piangere, anzi, non poteva frenare il riso e la felicità di sentirsi finalmente vendicata e si recò di corsa sul luogo della tragedia, per esprimere tutta la sua soddisfazione.
Munitasi di un bastone su cui aveva appuntato una sorta di stendardo, lo andava agitando tutto intorno, incurante dei lamenti di quanti avevano perduto i loro cari, tra cui gli zii, i cui figli erano periti nel crollo della casa.
In una sorta di frenesia, gridava a gran voce:
“Siano ringraziati gli dei, i lama e i tre Gioielli! Finalmente giustizia è fatta! Forse che non ho un figlio maschio! Mi sono vestita di stracci, ho mangiato cibo avariato per far studiare lui, per fargli apprendere la magia! Non era questo che volevate? – rivolgendosi allo zio ed alla zia – ah, che felicità! Possa io vivere a lungo, per gioire di questa spettacolare vittoria!”
Le persone riunite, udendo tali discorsi, si indignarono. Alcuni la comprendevano ma altri, in preda all’ira ed al dolore, avevano intenzione di ucciderla.
Dopo aver confabulato tra di loro, decisero che non valeva far morire la madre, se il figlio era vivo. Dopo tutto, il responsabile dell’accaduto era lui, e doveva pagare con la vita. Avrebbero ucciso prima il figlio, poi la madre.
L’antica serva di Bianca Ghirlanda, la quale era fuggita dopo aver visto i segni della magia a casa dello zio, era corsa da lei per avvertirla che la popolazione voleva uccidere madre e figlio, spinta dallo sdegno e dall’ira.
Era rimasta affezionata alla sua antica padrona, aveva assistito con dolore alla rovina sua e dei figli e non voleva che accadesse loro nulla di male.
Per questo le consigliò di fuggire, oppure di chiudersi in casa e di fare molta attenzione.
Bianca Ghirlanda era furiosa, ma poiché era dotata di ingegno, si mise a pensare. Gliela avrebbe fatta vedere lei, a quei miserabili! La sua sete di vendetta non era placata. Troppo aveva sofferto e ora che ne aveva l’opportunità non vi voleva rinunciare. Volevano ucciderla! Peggio per loro, se l’erano proprio cercata.
Mentre era intenta nei suoi pensieri, vide passare un eremita e lo invitò ad entrare in casa. Il monaco, di ritorno da un pellegrinaggio, era diretto a casa, nella Provincia Centrale.
Bianca Ghirlanda gli offrì una piacevole ospitalità e intanto meditava su come far arrivare un po’ di soldi al figlio insieme ad una lettera, per esortarlo a completare la sua vendetta. Solo allora lei sarebbe stata soddisfatta e avrebbe potuto vivere in pace.
Venduto il suo campo, ne cucì il ricavato nel mantello dell’eremita, con la scusa di rammendarglielo. Poi gli affidò una lettera per il figlio, un buon compenso, e lo congedò.
Inoltre scrisse di suo pugno una lettera, facendo finta che fosse di Milarepa, e che l’avesse avuta tramite l’eremita, nella quale il mago si informava della salute sua e della sorella, minacciando di scagliare i suoi sortilegi su chiunque avesse osato far loro del male. La lettera, fatta circolare opportunamente nel villaggio, ottenne l’effetto desiderato, e nessuno osò più importunare né lei né Peta.
L’eremita si rimise in viaggio alla volta di Nub-Khulung, dove sapeva di trovare Milarepa. Lo trovò nella dimora del lama e gli consegnò la lettera, che il giovane, desideroso di notizie della madre e della sorella, si affrettò a leggere.
Bianca Ghirlanda lo informava degli ultimi avvenimenti; la magia si era manifestata, i parenti erano morti nel crollo della casa, tranne lo zio e la zia, i quali però, avendo perduto tutti i loro figli, nonchè il bestiame e le ricchezze, erano in preda ad una terribile disperazione. La popolazione del villaggio però era infuriata e voleva uccidere prima lui e poi lei, sua madre, perciò entrambi dovevano vegliare con cura sulle proprie vite. Bianca Ghirlanda proseguiva esortando il figlio a far cadere la grandine sul villaggio per completare l’opera di distruzione contro i loro nemici, dopo di che lei si sarebbe sentita completamente appagata. Inoltre con un giro di parole assai enigmatico, lo informava che gli aveva inviato del denaro nascosto nel mantello dell’eremita.
Milarepa in pena per sua madre e sua sorella, non comprendeva il senso delle ultime parole della lettera e, con il cuore in tumulto, la mostrò al lama. Questi chiamò la moglie, una donna assai saggia che risolse l’enigma della lettera, scovando il senso nascosto nelle parole di Bianca Ghirlanda:”…caro figlio, se hai bisogno di vettovaglie rivolgi il tuo sguardo verso il paese che guarda a Nord dove, sotto una nuvola scura, risplende la costellazione delle Pleiadi. Sotto di esse si trovano sette dimore di tuoi cugini. Prendile e fanne buon uso”.
Ella si fece dare il mantello dall’eremita e, con la scusa di rammendarglielo, ne estrasse il denaro. Poi rivolgendosi ai due uomini spiegò:
“E’ semplice: il paese che guarda a Nord è il mantello dell’eremita dove non brilla mai il sole, la nuvola scura è la pezza di stoffa scura che la madre di Milarepa vi ha cucito sopra. La costellazione delle Pleiadi si riferisce ai punti cuciti con il filo bianco e le sette dimore sono le sette once d’oro”.
“Certo che voi donne siete davvero scaltre e piene di ingegno!” commentò Oceano di Qualità, stupito di tanta sottigliezza e astuzia.
Milarepa era sorpreso di ricevere tutto quel denaro e ancor più di ricevere un’ulteriore richiesta di distruzione da parte della madre.
“Non è ancora soddisfatta – disse rivolto al lama – ora vuole anche la grandine!”
“Certo che tua madre è proprio astiosa!- commentò il lama – se vuoi la grandine ritorna dal lama “Vincitore Irato che Insegna il Male”; egli conosce la formula e te la darà”.
I due giovani si rimisero in viaggio, con una lettera e dei doni per il lama.
Ritornati dunque a Kyorpo, Milarepa di nuovo si gettò ai piedi di Vincitore Irato, offrendogli parte del denaro inviatogli dalla madre, i doni del lama Oceano di Qualità e la lettera. Il maestro gli chiese se la magia che aveva praticato sotto la guida del suo amico aveva avuto successo.
“Completamente” – rispose Milarepa – la casa degli zii paterni è crollata e trentacinque persone sono morte sotto le macerie, tra cui i loro figli. Ma mia madre chiede anche la grandine, per placare il suo cuore tormentato. Vi prego, grande lama, datemi la formula!”.
“Così sia” rispose il maestro. Allora Milarepa si mise ad officiare nella sua antica cella, seguendo le istruzioni del lama.
Il settimo giorno il cielo tuonò, un fulmine attraversò l’aria.
“Sono pronto” pensò Milarepa e si recò dal suo maestro.
“Ora puoi dirigere la grandine con il dito – disse il lama – ma se vuoi ottenere un risultato definitivo, aspetta che le messi siano mature”.
Aspettarono finchè le spighe non si dispiegarono al vento. Allora il lama inviò Milarepa al suo paese natìo, dandogli come compagno l’antico corriere, capace di viaggiare veloce come il lampo.
Travestiti da monaci erranti, i due giovani partirono.
Arrivarono il giorno prima del raccolto, che quell’anno doveva essere particolarmente abbondante. Le annate così si contavano sulla punta delle dita!
I campi splendevano al sole, le spighe erano grosse e biondeggiavano accarezzate del vento, che in quel periodo somigliava più ad una brezza. Il cielo era di un azzurro intenso, le maestose vette himalayane si stagliavano all’orizzonte, le bianche cime innevate.
Nulla faceva presagire una tempesta, il clima era buono in quella parte dell’anno; nelle valli gli alberi crescevano rigogliosi, sui rami si cominciavano ad intravedere i piccoli frutti tre le foglie di un verde tenero, i corsi d’acqua gorgogliavano allegramente gettandosi con fieri balzi verso la vallata.
I due maghi si stabilirono così su di un’altura e Milarepa, insensibile alla bellezza del paesaggio, alla dolcezza del cielo e allo splendore delle montagne, iniziò a pronunciare le formule magiche. Aveva portato con sé un sacco di juta, che stava riempiendo con delle pietre raccolte nei dintorni. Chiuse poi il sacco con una corda, facendo un nodo stretto, e iniziò ad agitare il sacco sentendo le pietre rotolare le une contro le altre. Era assai speranzoso di scatenare subito un bel temporale, ma vide arrivare solo una nuvoletta.
Allora si mise con maggior determinazione ad officiare e, temendo di fallire, cominciò ad invocare tutte le divinità celesti, enumerando tutti i torti subiti, e piangendo a dirotto. Con forza e determinazione continuò ad agitare il sacco, finchè il rumore dei sassi che cozzavano gli uni contro gli altri non fu seguito dallo scoppio di un tuono fragoroso, cui ne seguì un
altro ancora più assordante.
All’improvviso il cielo divenne scuro, come se stesse scendendo la notte, e un vento gelido cominciò a soffiare da nord, fischiando e spazzando la vallata con raffiche sempre più potenti.
La temperatura si abbassò e il sole sparì, come inghiottito da una strana nebbia che avvolse il paesaggio, rendendo l’atmosfera surreale.
A quel punto nel cielo si addensarono nuvole così nere e minacciose, da formare un unica grande massa scura e, all’improvviso, una terribile grandinata si abbattè sui raccolti, sulle case, con una violenza distruttiva senza eguali.
Non si erano mai visti chicchi di grandine tanto grossi, come sassi che spezzarono e falciarono le sottili e tenere spighe prima del tempo, nel giro di pochi minuti.
I poveri viandanti colpiti dalla tempesta cercavano rifugi di fortuna, terrorizzati dallo scatenarsi inaspettato della tempesta, mentre al villaggio gli abitanti si precipitarono nelle case, i cui tetti però non ressero alla furia degli elementi.
Una pioggia violenta seguì la grandinata andando ad ingrossare i numerosi torrenti presenti nella zona, gonfiando a dismisura i flutti sempre più scuri che trascinavano terra e provocavano frane.
La montagna echeggiava del rombo dell’enorme massa d’acqua che scorreva a valle in fiumi minacciosi ed impetuosi, travolgendo ogni cosa al suo passaggio.

Al villaggio la gente era in delirio. Quale potenza oscura si era scatenata sui loro raccolti? Cosa avrebbero mangiato nel lungo inverno gelato?
La sciagura si era di nuovo abbattuta su di loro e qualcuno cominciò a fare il nome di Milarepa.
“E’ quel mago malvagio che ha distrutto il nostro raccolto! – dicevano i giovani del villaggio – andiamo a cercarlo, per strappargli il cuore dal petto!”
La popolazione si riunì, sconvolta dal terribile evento e furiosa per il sortilegio che ne era la causa. I più giovani formarono un bel gruppo, discutendo tra loro sul da farsi e mettendosi in cammino verso i campi.
Mentre parlavano in questo modo, discendendo lungo la montagna, videro del fumo uscire da una grotta.
Milarepa e il suo compagno infatti, per sfuggire alla furia della tempesta, si erano rifugiati in una grotta ed avevano acceso un fuoco per riscaldarsi un poco. I giovani, sicuri di aver trovato il nascondiglio del mago, si allontanarono, per informare la popolazione e ritornare poi tutti insieme per ucciderlo.
Il compagno di Milarepa, che era un lama assai accorto ed esperto, gli disse:
“Tu vai avanti. Io mi fingerò te e li metterò in fuga con la magia. Ci rincontreremo tra quattro giorni, a Dingri”.
Il giovane mago avrebbe voluto rivedere sua madre, Bianca Ghirlanda, ma le circostanze non lo consentivano. Si dette alla fuga, chiedendosi se l’animo materno si fosse finalmente placato. Egli aveva fatto tutto il possibile, non si era sottratto in nulla. Aveva fatto tutto ciò per amore della madre, per vedere di nuovo il sorriso sul suo volto disfatto. Ma l’avrebbe rivisto, quel sorriso? Assorto nei suoi pensieri, fuggiva veloce.
Il suo compagno, intanto, fronteggiava la popolazione inferocita che cercava di accerchiarlo. Ma il mago non si lasciava certo intimorire. Disponeva di più di un incantesimo, di più di un potere e, in virtù della magia, aveva assunto le sembianze di Milarepa.
A un certo punto decise di spaventarli e giratosi di scatto, li apostrofò con violenza:
“Cosa pensate di fare, di avere la meglio su di me, che sono un mago e dispongo di poteri arcani? Se vi arrischiate ancora contro di me, o se osate minacciare mia madre e mia sorella, vi invierò tali malefici da distruggervi tutti fino alla nona generazione!”
I villici si arrestarono, in preda al terrore. Nessuno si decideva a fare il primo passo e, in breve, si dispersero.
Il monaco fuggì e dopo quattro giorni si riunì al suo compagno Milarepa.
Insieme fecero ritorno al monastero di Kyorpo.
Il lama li accolse con parole di lode:
“La vostra magia è stata straordinaria! Le divinità terrifiche e gli spiriti del luogo sono venuti a portarmi la notizia! Io li ho ringraziati a dovere.” così dicendo egli gioiva per il successo dei suoi discepoli.