Haṃsa Libera Scuola di Hatha Yoga

Valeria Magrini

MILAREPA

Marpa

Quella notte Marpa sognò il suo maestro Naropa, il quale gli impartiva l’iniziazione e gli porgeva un Vajra di lapislazzuli a cinque punte sul quale erano evidenti alcune macchie, e un vaso colmo di nettare. Poi gli ordinava di lavare le macchie con il nettare del vaso e di issare il Vajra così purificato su di uno stendardo, per la gioia dei Buddha del passato e di tutti gli esseri, promettendogli che così facendo avrebbe realizzato il suo scopo e quello di tutti gli esseri. Quindi svanì nel cielo. Marpa allora eseguiva gli ordini del suo maestro, e dal Vajra risplendente emanò una luce purissima che si spandeva sul mondo, eliminando le sofferenze di tutte le creature e rendendole felici.
Marpa si svegliò raggiante dalla felicità, come sempre quando sognava il suo maestro. In quel mentre sua moglie Dakmema entrò con il cibo e, sedendosi vicino a lui, gli disse:
“Nobile lama, stanotte ho fatto un sogno ben strano. Ho sognato due fanciulle che portavano uno stupa di cristallo sul cui bordo comparivano alcune macchie. Esse si rivolgevano al Padre Marpa con queste parole:
“Per volontà del santo Naropa, consacra questo stupa e ponilo sulla cima della montagna.” Il Padre allora eseguiva le istruzioni del suo maestro e dallo stupa emanò allora una luce immensa come il sole e la luna, e tanti stupa simili a quello, e custodi della cima della montagna erano le due fanciulle. Dimmi, o lama, qual’è il significato del mio sogno?
Marpa rifletteva in silenzio, stupito che lui e la moglie avessero fatto due sogni così simili, e alzatosi dal letto, senza dare spiegazioni, disse alla moglie:
“Oggi andrò ad arare quel campo laggiù, preparami due orci pieni di birra.”
Dakmema era stupita che un lama importante come suo marito volesse fare un lavoro così umile e poco adatto al suo rango, ma senza dir nulla si affrettò a compiere quanto chiedeva.

Dopo lungo camminare Milarepa giunse in prossimità di un campo dove un monaco assai robusto stava arando. Indossava la veste color rosso scuro dei lama, che lasciava scoperte le braccia possenti. Il viso era largo, gli occhi scuri lampeggiavano. Di tanto in tanto si fermava e beveva da un orcio larghi sorsi di birra, poi con nuova alacrità riprendeva il suo lavoro. Sembrava completamente assorto in ciò che faceva e nel vederlo il cuore del giovane ebbe un fremito di gioia. Come attirato da una calamita egli si fermò.
“Signore” disse, rivolgendosi al religioso, “sapreste indicarmi la dimora del lama Marpa, discepolo diretto del grande Naropa?”
“Chi sei tu?” rispose quello squadrandolo da capo a piedi “perchè lo cerchi?”
“Sono un uomo che si è macchiato di azioni malvage. Lo cerco perchè ha fama di essere un grande lama e io desidero purificarmi attraverso un dharma santo”.
“Ti indicherò la strada, ma tu intanto finisci di arare”. Così dicendo Marpa gli diede un’orcio pieno di chang, posto sul limitare del campo, che il giovane bevve avidamente.
Sentendosi subito ristorato Milarepa si mise ad arare di buona lena.
Dopo poco tempo venne a chiamarlo un bambino per condurlo dal lama. Milarepa però voleva finire di arare il campo, dal momento che esso rappresentava per lui la condizione favorevole per il suo incontro con il maestro, che sarebbe avvenuto di lì a poco. Sentendosi compiaciuto in cuor suo dette al campo proprio questo nome : “Condizione Favorevole”. Finito il lavoro, si incamminò con il fanciullo verso la casa del lama e, quivi giunto, entrò.

Seduto su di un tappeto tra comodi cuscini sedeva Marpa, con ancora qualche traccia di polvere sul volto.
Milarepa non aveva ancora capito che si trattava del suo maestro, e si guardava intorno dubbioso.
“Sono io Marpa, discepolo di Naropa. Prosternati dunque!”
A quelle parole, Milarepa si gettò ai piedi del lama, e pieno di commozione, lo supplicò di dargli la dottrina:
“Santissimo lama, sono un grande peccatore, vi offro il mio corpo, la mia parola, la mia mente, in cambio di cibo, vesti e dharma. Nella vostra infinita benevolenza, vogliate accogliere la mia richiesta!”
Marpa non sembrava per nulla turbato da quelle parole, e gli rispose: “Non è certo colpa mia se hai peccato. Che cosa hai fatto?”
Il giovane raccontò la sua storia per intero, senza omettere nessun dettaglio.
Allora il lama disse :
“Va bene, ma non posso darti tutto. Scegli, o la dottrina o il cibo e le vesti. Se sceglierai la dottrina, l’ottenere o meno l’illuminazione in questa vita dipenderà solo da te, dalla tua volontà e dal tuo ardore”.
“Sono fortemente determinato ad ottenere la dottrina, perciò mi procurerò cibo e vesti in altro modo. Vogliate accettare in dono questi testi che sono tutto quello che ho”. Così dicendo, depose i suoi libri sull’altare.
“Togli quegli sporchi libri, o contaminerai i miei idoli!” gridò irato il lama.
Il giovane, pensando che non volesse accettare libri di magia, senza aversene a male, li raccolse e si recò nei suoi alloggi.

Dal momento che doveva procurarsi cibo e vesti, Milarepa iniziò a mendicare in tutta la valle. Vagava per i villaggi, bussando alle porte e porgendo la sua ciotola. Il suo aspetto mite attirava le simpatie delle persone, che non negavano cibo ad un monaco.
Così nel giro di un anno raccolse una grande quantità di orzo; ne vendette una parte per comprarsi del cibo ed un recipiente di rame a quattordici manici, perfetto, che voleva dare in dono al lama.
Soddisfatto di sé si recò prontamente a casa di Marpa, trascinando un grande sacco pieno d’orzo e il bel recipiente di rame, pensando di fare cosa gradita al maestro.
Arrivato nel bel mezzo della stanza, mentre quello stava recitando mantra insieme ai suoi discepoli, stremato per lo sforzo lasciò cadere di colpo tutto il carico a terra, con gran rumore e facendo tremare le pareti.
Marpa s’infuriò. Il momento della preghiera era sacro e non tollerava di essere interrotto in modo così maldestro. A male parole cacciò il novizio fuori di casa, ordinandogli di portare via il suo orzo.
Milarepa obbedì, pensando che il maestro aveva un carattere irascibile e che doveva stare molto attento a non urtarlo; poi rientrò per offrirgli il recipiente di rame. Il lama in parte rabbonito tenendo il bell’oggetto tra le mani lo rimirava in ogni parte, consapevole della sua perfezione; lo accettò per offrirlo al suo maestro Naropa.
Aveva le lacrime agli occhi, per dover trattare così duramente il suo allievo; avrebbe voluto abbracciarlo, ma sapeva che ancora non era il momento.
Mentre era chino sull’altare per fare l’offerta, Milarepa di nuovo lo pregò di dargli la dottrina.
“Visto che sei un mago, devi farmi un favore, dopodichè ti darò ciò che chiedi. Molti dei discepoli che vengono qui sono assaliti lungo la strada e derubati. Voglio che tu faccia cadere la grandine sulle regioni che ti indicherò. Anche questo è dharma.”
Milarepa era confuso. Era venuto con l’intento di cambiare vita, di redimersi, ed ecco che si trovava di nuovo a far uso della magia!
Tuttavia non voleva contraddire il suo maestro, anzi desiderava compiacerlo in tutto, affinchè lo istruisse.

Così lo accontentò, inviando la magia tra i montanari, i quali iniziarono a litigare tra di loro e, alla fine, si annientarono a vicenda.
Pensando al risultato raggiunto, si recò dal lama per chiedergli la dottrina.
Quello si mise a ridere:
“Ah ah, certo che hai proprio delle belle pretese! Pensi proprio di cavartela così, a buon mercato! Sono andato in India a mie spese, incurante di tempo e denaro, presso i maestri più eccelsi, per procurarmi la preziosa formula della bodhi, che consente di liberarsi in una sola vita, per darla a te, mago da quattro soldi, come compenso della tua malvagità! Prima che ciò accada, devi riparare tutti i danni della tua magia e restituire i raccolti ai montanari! Altrimenti non farti più vedere!”
Milarepa era affranto e pianse molte lacrime.
Dakmema –la moglie del maestro – lo aveva preso a benvolere e lo consolava come meglio poteva. Il marito aveva un carattere sanguigno, lo sapeva, ma era anche un illuminato, compassionevole con i suoi discepoli.

Il giorno dopo Marpa si recò da Milarepa e gli disse:
“Scusa se ieri ti ho trattato male, non crucciartene. Ti darò gli insegnamenti in modo graduale. Intanto, visto che sei un giovane forte, aiutami a costruire una torre per mio figlio. Poi avrai tutto ciò che desideri.”
Il giovane mago era un po’ dubbioso:
“E se morissi nel frattempo, cosa ne sarebbe di me?”
“Ti assicuro che non accadrà. Aiutami e poi ti istruirò. La dottrina che ti darò è incommensurabile, ma il resto dipenderà da te, dalla costanza e dall’intensità della tua pratica”.
Allora il cuore del giovane si riempì di gioia, ed egli accettò prontamente la proposta del lama.
Tutti i giorni si recava sul posto stabilito da Marpa per la costruzione della torre e vi rimaneva tutto il giorno. Gran parte del tempo lo passava a cercare le pietre più adatte e a trasportarle vicino alle fondamenta, che piano piano prendevano forma.
Le pietre più piccole le trasportava servendosi di un cesto di liane intrecciate che portava sulla schiena, ponendo poi la robusta cinghia di cotone sulla fronte, alla maniera tibetana.
Le più grosse le trascinava a mani nude, a volte inerpicandosi per un pendio, altre facendole rotolare giù a valle.
Non disponeva di utensili particolari se non un vile scalpello, che utilizzava per smussare le pietre affinchè combaciassero le une con le altre. Milarepa era giovane e forte, non si abbatteva per la fatica, alla quale era avvezzo. Lavorava come un mulo, cercando di non perdere tempo. Una sola cosa rendeva possibile quell’ingrato lavoro: il pensiero che, dopo, il maestro lo avrebbe istruito. Tutto concentrato in questa idea il giovane non lesinava le proprie forze, non si curava della polvere e della terra che si attaccava al suo corpo e alle sue vesti, né delle ferite che i sassi taglienti gli procuravano.
Dal canto suo Marpa aveva escogitato quel piano per un duplice motivo: da un lato voleva far scontare a Milarepa il suo karma negativo, dall’altro pensava con uno stratagemma di costruire la torre in un luogo dove era proibito a causa di un giuramento dei suoi parenti.
Perciò inizialmente ordinò a Milarepa di costruire una torre rotonda; quando il lavoro era circa a metà, gli disse di aver cambiato idea, e di demolirla e rimettere a posto tutte le pietre.
Milarepa a questo contrordine rimase sorpreso, non aspettandosi che il maestro cambiasse idea così all’improvviso, ma non voleva perdersi d’animo e ad una ad una si caricò di nuovo le pietre e le riportò ognuna al proprio posto.
Dopo alcuni giorni ricevette nuovi ordini da Marpa, che in questa occasione si finse ubriaco; Milarepa avrebbe dovuto costruire una torre a mezzaluna e così il giovane ricominciò tutto da capo. Andava in giro per i campi per scegliere le pietre più idonee alla nuova costruzione, quindi passava giorni a trasportarle per farne un cumulo enorme. Gettò le fondamenta ed iniziò la costruzione, ma il lama di nuovo gli ordinò di demolirla.
Dopo alcuni giorni Marpa gli diede le indicazioni per una nuova costruzione su di un altura, adducendo la scusa che, essendo ubriaco, non gli aveva dato le istruzioni corrette.
Milarepa cominciava ad essere stanco, fisicamente e mentalmente, di tutti questi spostamenti e cambiamenti, gli sembrava che di questo passo non avrebbe mai ricevuto la dottrina; sembrava in verità che il lama lo stesse prendendo in giro.
Ma Marpa lo rassicurò e di nuovo gli ingiunse di iniziare la nuova opera: la torre avrebbe dovuto essere triangolare.
Milarepa riprese lavorare. Trasportava grossi macigni chiedendosi se fosse utile a qualcosa. D’altra parte non poteva far altro che eseguire gli ordini del lama, ma fatica e la frustrazione iniziavano a logorarlo.
Ciononostante era sempre animato dal suo proposito, per cui ignorava sia la fatica fisica sia i propri dubbi e andava avanti a mettere pietre su pietre, cementandole con la malta. Si era procurato un grosso secchio dove impastava con cura la terra, usando un bastone. La torre procedeva ed egli era arrivato circa ad un terzo, quando il lama nuovamente si recò da lui e, fingendo di non ricordarsene, gli chiese chi mai gli avesse ordinato un simile lavoro.
Milarepa era ben deciso a difendere le proprie ragioni:
“Siete stato voi, lama, ad ordinarmelo! Mi avevate detto che si trattava di una torre per vostro figlio! Come potete non rammentarvene! Vi avevo pregato di riflettere a lungo, prima di darmi le dovute disposizioni!”
“Ah sì!” rispose il maestro “ io allora sarei pazzo, oppure completamente privo di memoria! E come pensavi di far entrare le persone in una torre così piccola, con la tua magia? Non è colpa mia se sei stato privato dei beni, questa torre comunque va demolita, se ti sta bene è così se no vattene!”
Milarepa era veramente abbattuto, ma desiderava il dharma più di ogni cosa al mondo. Di nuovo disfece ciò che aveva costruito, rimettendo ogni pietra al suo posto.
Il duro lavoro lo aveva stremato ed in più gli aveva causato una brutta piaga alla schiena. Infatti il cesto carico di pietre che ormai da lunghi mesi, d’estate e d’inverno, trasportava avanti e indietro, a forza di strusciare sempre nei medesimi punti aveva logorato la sua pelle e la sua carne, creando ferite sempre aperte. Anche le mani erano piagate, cosparse di croste e grumi di sangue rappreso. Ma quello che più lo preoccupava era la ferita sulla schiena.
Non voleva mostrarla al lama, per tema che lo rimproverasse, né alla Madre, per non sembrare ingrato. Si rivolse però a lei, la sposa del lama, affinchè perorasse la sua causa presso il maestro.
Dakmema era una donna molto compassionevole, dedita alla dottrina, e si prese a cuore la vicenda di Milarepa.
Non sopportava vedere quel giovane faticare dalla mattina alla sera inutilmente, per poi sentirsi negata l’aspirazione del suo cuore.
Andò così dal marito, pregandolo di conferire il dharma al discepolo.
“Prepara del buon cibo e accompagnalo qui da me” disse il lama.
Mentre consumavano il pasto, Marpa disse:
“Grande Mago”, – così il lama aveva soprannominato Milarepa da quando, dietro suo ordine, aveva inviato la grandine alle terre di montagna,- “non dire cose che io non ho mai detto. Ti darò ciò che desideri.”
Poi gli dette solo gli insegnamenti ordinari, parlandogli delle terribili prove che Naropa, il suo illustre maestro, aveva dovuto sopportare.
“Se desideri l’insegnamento supremo, il grande Guhyamantra che libera nel corso di una sola vita, dovrai seguire le mie istruzioni.”
Nel cuore di Milarepa sorse una devozione inesprimibile, insieme alla forte volontà di realizzare la dottrina.
Alcuni giorni dopo Marpa condusse Milarepa a fare una passeggiata nelle terre che confinavano con quelle dei suoi parenti.
Giunti proprio sulla linea di confine, il lama si rivolse al suo discepolo : “Qui costruirai una bella torre quadrata di nove piani; ti assicuro che non verrà demolita. Quando avrai finito, ti darò l’insegnamento. Potrai praticarlo proprio qui dentro in ritiro ed avrai anche il cibo e le vesti.”
Milarepa non si fidava più delle promesse del maestro. Voleva Dakmema come testimone, affinchè potesse essere sicuro di non essere nuovamente preso in giro.
Il lama acconsentì e mandò a chiamare la moglie.
La Madre disse:
“Farò da testimone, ma dubito che possa servire a qualcosa. Non c’è scopo alcuno nella costruzione della torre, né nella sua demolizione. Oltretutto questo terreno non ci appartiene, per cui non ne verrà nulla di buono. Inoltre, il lama fa’ sempre di testa sua.”
Il lama le disse di fare ciò che le veniva richiesto, senza preoccuparsi per cose che non la riguardavano.
Milarepa si rimise al lavoro, la torre questa volta doveva essere quadrata.
Il desiderio di ottenere la dottrina era rimasto inalterato, ma il giovane si sentiva stanco. I suoi passi erano malfermi, le gambe non sembravano più tanto stabili. Il volto era perennemente contratto in una smorfia, a causa del dolore che provava. Ogni volta che doveva caricarsi una pietra, o deporla, fitte lancinanti lo trapassavano, come se qualcosa si squarciasse dentro di lui. Le pietre aguzze gli tagliavano di continuo le carni, lacerandole. Oltretutto, nel suo cuore, non era convinto delle parole del lama. Si chiedeva quale fosse il senso di tutto ciò.
Perchè doveva costruire e distruggere continuamente l’opera sua, senza una speranza fondata di ricevere gli insegnamenti? Quanto tempo era, ormai, che andava avanti questa storia? Milarepa aveva perso il conto del tempo. Le stagioni si erano alternate più e più volte, forse erano trascorsi degli anni. Perchè continuava ad andare avanti, quando sapeva che era tutto inutile? Eppure il maestro riusciva sempre a convincerlo, e sempre con quella futile promessa della dottrina.
Tuttavia, qualcosa nel profondo gli diceva di andare avanti, di non perdere completamente la fiducia, anche nei momenti più disperati.
Così, assorbito nei propri pensieri, lavorava alacremente.
Alcuni discepoli del maestro vedendolo faticare così duramente, ebbero compassione di lui e lo aiutarono a far rotolare una grossa pietra che doveva servire come fondamenta.
Il lavoro procedeva e la torre era arrivata al secondo piano, quando Marpa venne a controllare di persona e si mise ad esaminare ogni particolare minuziosamente.
“Questa da dove arriva?” lo apostrofò il lama indicando il grosso masso.
Milarepa sbiancò :
“L’hanno portata qui i vostri discepoli, per gioco” rispose.
“Ah sì! Riportala subito al suo posto! Non si costruisce la propria opera con le pietre altrui!” ribadì Marpa.
“Avevate promesso che questa volta non l’avrei demolita” disse il giovane.
“Grande Mago, avvalerti dell’aiuto dei miei discepoli, che sono praticanti molto più avanzati di te, è veramente un atto di presunzione, per cui togli subito di mezzo quella pietra e poi rimettiti al lavoro.”
Naturalmente per togliere la pietra, il giovane monaco dovette demolire la torre da cima a fondo. Ormai il suo corpo, come anche il suo volto, era tutto un ammasso di terra e fango, con incrostature di sangue dove aveva le ferite. Riportare al suo posto il masso, che era di dimensioni eccezionali, si rivelò un’impresa a dir poco ardua, per una persona sola.
Milarepa se la caricò con grida di dolore e la trascinò per un lungo tratto inerpicandosi per il pendio. Quandò la lasciò andare si accasciò a terra, privo di sensi.

Intanto i cugini paterni del lama s’incontrarono per parlare tra di loro, essendosi accorti della costruzione della torre e dello strano comportamento di Marpa: prima faceva costruire una torre a quel suo discepolo forte come un toro, poi gliela faceva demolire, poi gliela faceva costruire di nuovo: che razza di storia era? Avrebbero dovuto stare in guardia, e osservare con cura ogni movimento.
Milarepa, dal canto suo, si era in parte ripreso e stava di nuovo lavorando senza sosta e, arrivato ormai al settimo piano, si sentiva vicino alla sua meta. Il suo corpo era dolorante e, oltre alla piaga sulla schiena, ne aveva una pure sul fianco.
I cugini di Marpa fiutarono l’inganno e si prepararono ad attaccare per demolire essi stessi la torre, ma, giunti nelle sue vicinanze, videro una grande quantità di guerrieri armati, dentro e fuori di esse.
“Da dove saltano fuori costoro?” si chiedevano pieni di spavento. In realtà li aveva fatti apparire Marpa con la sua magia bianca.
Osservando quel prodigio che esulava dalla comprensione ordinaria i parenti credettero nel lama, la loro rabbia si tramutò in devozione e da nemici divennero suoi benefattori.

In quel periodo Methontshonpa dello Tsang Rong venne da Marpa per chiedergli la grande iniziazione del Guhyasamaja.
La Madre allora si recò da Milarepa per riferirglielo :
“Figlio mio, “disse”, devi approfittare di questa occasione. Ti aiuterò io”.
Ella preparò alcuni doni che Milarepa avrebbe dovuto offrire al maestro : del ghi, una pezza di lana ed anche un recipiente di rame. Poi gli disse di prendere posto insieme agli altri per ricevere l’iniziazione.
Intanto Milarepa pensava :
“Questa volta me la darà. Ho costruito una torre di nove piani da solo, senza l’aiuto di nessuno.” E andò a prostrarsi davanti a lui.
Ma Marpa non era per nulla intenzionato a concedergliela. Per quanto ciò lo facesse soffrire in cuor suo, per quanto doloroso potesse essere per il suo discepolo, sapeva che non era ancora il momento.
Così, appena lo vide gli domandò :
“Grande Mago, qual’è la tua offerta per l’iniziazione?”
Il giovane rispose :
“La mia offerta è la torre, o lama. Vi prego con tutto il cuore di mantenere la vostra promessa e concedermi l’iniziazione.”
Marpa si mise a ridere:
“Sei patetico! Pensi che basti costruire una torretta da nulla per pretendere di ricevere le formule che io, con grande fatica ho riportato dall’India!” Detto ciò afferrò il giovane per i capelli, lo schiaffeggiò e lo trascinò fuori.
Milarepa era talmente afflitto che desiderava solo morire. Dopo tutta la fatica che aveva fatto, solo con il miraggio di ricevere l’iniziazione, vedersela di nuovo rifiutare lo sprofondava nella disperazione e nel dolore. Se non poteva praticare il dharma, allora cosa importava vivere?
La Madre andò a consolarlo e lo trovò in lacrime. Lo abbracciò, cercando con il suo tocco di lenire un po’ il dolore del suo corpo e del suo spirito, e con voce dolce gli disse :
“Figlio caro, non so proprio perchè Marpa ti tratti così. E’ sempre stato compassionevole con tutti e non si è mai rifiutato di impartire gli insegnamenti. Anche se il suo comportamento è incomprensibile, cerca di non avere pensieri negativi”.
Il giorno seguente Marpa si recò da Milarepa con una nuova proposta : “Lascia perdere la torre per ora e invece costruisci una sala di adunanza con dodici pilastri ed una cappella. Poi ti istruirò”.
Milarepa era distrutto ma si rimise al lavoro. Ogni volta ritrovava un po’ di speranza nel suo cuore, e questo dava nuovo vigore al suo corpo piagato. La Madre gli portava cibi deliziosi e nutrienti e birra molto forte, per rincuorarlo e farlo sentire amato.

Mentre Milarepa lavorava alacremente alla sala di adunanza, un altro monaco, Tsurton uang di Dol, venne a richiedere la preziosa iniziazione del Mantra Segreto.
La Madre corse immediatamente dal suo protetto :
“Questa è la volta buona!” disse, andando di corsa a preparare i doni.
Milarepa si presentò il giorno stabilito recando in dono del burro, una stoffa di lana ed un recipiente di rame.
Marpa subito lo apostrofò :
“Grande Mago, vedo che hai già preso posto per l’iniziazione, dimmi dunque, quali sono i tuoi doni”.
Il giovane mostrò le offerte. Ancora una volta Marpa s’infuriò :
“Questi doni mi sono già stati offerti in precedenza! Devi portare dei doni tuoi, altrimenti vattene!”:
Dopo queste dure parole lo andò a tirar fuori dalla fila e lo prese a calci, buttandolo fuori casa.
Milarepa era ora veramente disperato. Non ce la faceva più, avrebbe voluto sparire per mettere fine al suo dolore. Pensava che il suo karma negativo era tale da impedirgli di ricevere l’iniziazione in questa vita, al che non aveva più senso vivere. O forse nel petto del lama non albergava uno spirito compassionevole? In ogni caso, a che pro andare avanti? Tanto valeva metter subito fine alla propria vita.
Immerso in questi cupi pensieri, non si accorse dell’arrivo della Madre. Ella soffriva per lui e non perdeva occasione per dimostrargli il proprio affetto. Anche ora gli stava portando il cibo delle offerte, voleva consolarlo e proteggerlo, aiutarlo a sopportare il suo grande sconforto.
Provava per lui una grande tenerezza ed una compassione sincera. Non comprendeva il comportamento del marito e, in cuor suo, lo riteneva crudele. Per questo più lui lo trattava duramente, più lei cercava di essere dolce, di coccolarlo come poteva.
Il giorno seguente di nuovo Marpa andò dal suo discepolo.
“Su, alzati, devi completare la costruzione della torretta e della sala di adunanza. Poi stai pur certo che ti darò l’iniziazione”, disse.
Milarepa si rimise al lavoro e la costruzione faceva rapidi progressi. Dall’alba al tramonto trasportava i grossi massi, i cui contorni spigolosi straziavano sempre di più le sue carni. Andava e veniva senza sosta, incurante di tutto, pur di vedere la costruzione crescere giorno dopo giorno, un piano dopo l’altro. Nel corpo del giovane venne un’altra piaga purulenta, e in tutto erano tre, piene di pus e colanti sangue.
Il giovane corse dalla Madre per mostrarle la sua schiena ridotta ad un’unica, grande piaga. La pregò nuovamente di intercedere presso il lama, affinchè mantenesse le sue promesse e gli desse l’iniziazione.
Ella, commossa e rattristata per le condizioni del giovane, si recò subito da Marpa, dicendogli :
“Prezioso lama, le condizioni del Grande Mago sono deplorevoli. La sua schiena è tutta una piaga purulenta da cui colano sangue e pus; sapevo che questo accade talvolta alle bestie, ma non immaginavo potesse succedere anche agli esseri umani. Provo vergogna e dolore dinanzi alla sua sofferenza, cui assisto piena di impotenza. Ti prego, abbi pietà di lui e dagli il dharma”.
Con grande passione la Madre, colma di sdegno, perorò la causa di Milarepa.
Marpa rispose :
“Deve completare la sua opera. Dov’è la torre di dieci piani che mi aveva promesso? Gli darò l’iniziazione quando avrà finito, non prima. Intanto vallo a chiamare”.
La Madre volò dal suo protetto per condurlo dal lama.
Milarepa non pensava alle piaghe, pensava solo all’iniziazione, se l’avrebbe mai ricevuta.
Il Maestro volle esaminare le piaghe. Poi disse :
“Dinanzi alle sofferenze del grande Naropa, che dovette sopportare prove ben peggiori della tua, questa è proprio un’inezia. Per non parlare di quello che io stesso patii, incurante di tutto, quando mi affidai totalmente al mio maestro. Per cui smetti di fare la vittima e torna al lavoro”.
Prese le vesti lacere del giovane e vi praticò dei fori per far asciugare le piaghe e alleviare il dolore.
Milarepa riprese la sua opera, pensando che di certo il lama non poteva sbagliare.
Ma le piaghe non curate peggiorarono, ed egli si ammalò.
La Madre si precipitò dal marito, sperando di impetrarne la clemenza. Egli rifiutò categoricamente di impartirgli il dharma finchè non avesse portato a termine le due costruzioni. Se non poteva lavorare che riposasse pure sino alla guarigione, ma niente di più.
La Madre allora si recò al capezzale del suo protetto, per curarlo e consolarlo come meglio poteva. Gli cucinava pietanze succulente e lo riforniva di bevande in modo che potesse riprendersi . Così nonostante tutto, il giovane durante quei pochi giorni di convalescenza ebbe modo di riprendersi un poco, sia fisicamente sia psicologicamente.