Haṃsa Libera Scuola di Hatha Yoga

Amanda Morelli

BODHIDHARMA

4. Il Buddhismo Ch’an: principi e pratica

Se incontri il Buddha uccidi il Buddha;
Se incontri il Patriarca uccidi il Patriarca;
Se incontri l’Arhat, il genitore o il parente uccidi anche loro.
Solo così potrai essere liberato, libero e indipendente.
Lin-tsi

4.1 I quattro principi fondamentali

Il Ch’an, come il Buddhismo, è una via per la liberazione. Il suo messaggio può essere riassunto in quattro punti essenziali:

● una speciale trasmissione al di fuori delle Scritture;
● indipendenza dalle parole e dalla lettera;
● riferimento diretto all’anima dell’uomo;
● visione della propria natura e conseguimento dello stato di Buddha.

Abbiamo già incontrato questi concetti nei capitoli precedenti. Essi riassumono tutto ciò che il Ch’an dichiara di se stesso e forniscono un sostrato comune a un insieme di esperienze eterogenee.

4.1.1 Pars destruens

Il Buddha ci ha insegnato che, nella ricerca del risveglio, l’esperienza personale rappresenta tutto ciò che abbiamo, poiché in realtà nulla di vero può essere realmente comunicato. L’eterogeneità, che di quanto detto è conseguenza logica e pratica, rappresenta la prova più evidente della natura non dottrinale dell’insegnamento dell’Illuminato. Nel suo ritorno non solo al messaggio ma soprattutto all’esperienza del Buddha, il Ch’an fa di tale eterogeneità il suo punto di forza, distinguendosi così da qualunque altra scuola buddhista.
Nel capitolo precedente sono state presentate le visioni del Buddhismo più diffuse in Cina al tempo di Bodhidharma: apertamente colluso con il potere fin dal suo arrivo, esso aveva indossato da tempo le vesti della metafisica, dei culti devozionali, delle pratiche divinatorie. Abbiamo visto inoltre quale attenzione fosse stata dedicata, nel corso di diversi secoli, alla raccolta e alla traduzione dei testi buddhisti. Bodhidharma e i suoi successori fecero tabula rasa di tutto questo, dichiarando di basarsi su una speciale trasmissione al di fuori delle Scritture (e di qualunque mezzo esteriore), e affermando la loro indipendenza dalla lettera e dalle parole (cioè da ogni concettualizzazione, scritta e verbale), come affermano le prime due ‘regole’ del Ch’an. Attraverso una negazione degli approcci dominanti, esse ci dicono innanzi tutto che cosa la nuova tradizione non è. Il terzo e il quarto dei principi elencati rappresentano invece la pars costruens dello schema, costituendo la controparte affermativa dei primi due punti.

4.1.2 Pars costruens

Il ‘riferimento diretto all’anima dell’uomo’ (terzo punto) ci spiega che la ‘trasmissione al di fuori delle Scritture’ opera attraverso un passaggio diretto da mente a mente. Tale passaggio non implica alcunché di trascendente o di esoterico, né tantomeno la trasmissione di qualcosa di concreto. Il maestro si limita infatti a indicare la via, a stimolare l’allievo: egli non può compiere il percorso per lui, può solo indirizzarlo in modo proficuo, proponendogli i metodi più adatti alla sua ‘costituzione spirituale’.

Una metafora della Via della salvezza

Immaginate di trovarvi sul picco di una montagna. Siete arrivati fin lassù guidati da un desiderio, quello di poter vedere il mondo da un’altra prospettiva, la prospettiva del cielo, la prospettiva dell’unità. La vostra vetta è molto alta, forse la più alta al mondo e il vostro sguardo può spaziare a 360° senza incontrare barriere. La vostra nuova prospettiva, certo, è diversa da quella che avevate quando camminavate a valle, eppure non siete ancora soddisfatti, poiché la visione che ne deriva è, per quanto ampia, ancora parziale.
Durante il cammino verso la vetta avete incontrato un uomo: dopo aver scrutato il cielo (la vostra mente), egli vi ha dato dei consigli per il viaggio, insegnandovi forse a interpretare le nuvole e le stelle del firmamento. Poi vi ha indicato il cammino da seguire, ma, nonostante le vostre suppliche, vi ha lasciato soli a percorrerlo. Così, passo dopo passo, siete giunti alla sommità del mondo.

Vi siete spinti molto lontano, lasciando dietro di voi città e genti di ogni tipo, ma sapete che quella non è ancora la meta del vostro viaggio. Al di là di essa, tuttavia, non vi è più nulla che sappiate interpretare, che sappiate conoscere: oltre la vetta si apre l’infinità del non conosciuto, del non esperito e questo vi fa paura. Tale paura deriva dall’attaccamento che ancora provate per la vostra identità: l’infinito (e la sua seconda faccia, il vuoto) è il nemico più temuto del nostro intelletto egoico, il quale vive di definizioni e quindi di limiti. Eppure dovete scegliere: o tornate indietro o compite quel salto nel vuoto (nell’infinito) da cui potrete finalmente osservare le cose nella loro unità, da cui potrete vedere il mondo senza che esso vi trasformi.

L’uomo che avete incontrato lungo il cammino vi ha indicato la strada ma il salto lo dovete fare voi. Se siete fortunati, egli potrebbe darvi una spinta, ma anche a quel punto starà a voi decidere se spiccare il volo o, ancora appesantiti dalla gabbia dell’ego e dal suo attaccamento a se stesso, rotolare lungo il crinale della montagna.
La paura della morte non è altro che paura dell’infinito. Gettarsi nel vuoto significa rinunciare alla propria esistenza in quanto esseri individualizzati e questo ci spaventa perché non sappiamo ciò che ci aspetta oltre. Tuttavia, quel salto è l’unico modo che abbiamo per trascendere i confini della nostra natura condizionata, fatta di ruoli e di paesaggi mentali preconfezionati, è l’unico modo che abbiamo per vedere il mondo dalla prospettiva del cielo.

Superare la paura della morte dell’ego significa essere veramente liberi, significa agire senza essere agiti, essere nel mondo senza che esso si accorga di noi o, parafrasando una poesia Zen, entrare nella foresta senza agitare l’erba, entrare nell’acqua senza incresparla.

In questo percorso, la cui meta è inconoscibile, il maestro è come la vostra guida di montagna. È una guida esperta, poiché conosce i monti e le vallate della mente alla perfezione, conosce i cambi di stagione e i pericoli del cammino, e sa esattamente che cosa comporta quel salto di cui parlavamo poc’anzi. Egli ha fatto esperienza dell’infinito; anzi, egli vive nell’infinito.

Il ruolo del maestro

Tornando ai quattro principi del Ch’an, risulta chiaro che la trasmissione non comporta un passaggio di conoscenze, quanto l’affermazione di una comune esperienza spirituale. Il maestro indica e poi si ritira, per tornare solo a esperienza conclusa a valutare il percorso dell’allievo. Solo se questi è stato in grado di scoprire la sua Vera Natura potrà indicare la via ad altri uomini.
Il passaggio da mente a mente è quindi una garanzia di autenticità, poiché comporta la previa ‘sottomissione’ della propria maturità spirituale al giudizio di un uomo che vive nell’infinito.

La Vera Natura dell’uomo

Il quarto principio del Ch’an afferma che per sperimentare lo stato dell’illuminazione l’uomo non deve far altro che vedere la propria natura.
La letteratura del Ch’an ci offre infinite immagini che descrivono questa Vera Natura, immagini concrete e quotidiane, e naturalmente nessun concetto, poiché niente di ciò che può essere detto possiede carattere di realtà.

Sedendo quietamente, senza far nulla,
viene la primavera, e l’erba cresce da sé.1

A prima vista i versi di questa poesia possono essere scambiati per l’apologia di una sorta di quietismo esistenziale. Credo che sia soprattutto quel «senza far nulla» a risultare facilmente equivocabile, poiché evoca in noi un che di statico e noioso, un sapore di apatia e mancanza di vitalità. C’è in esso qualcosa di così alieno al nostro modo di vivere che è difficile vedervi la realizzazione della vera libertà.

La quiete e l’inattività

La nostra religione laica è l’attivismo: efficienza e velocità, ottimizzazione del tempo e massima resa, in ogni campo e a ogni costo, poiché la vita è una ed è breve, e la strada per il successo è come una stazione ferroviaria dove passa un solo treno, un treno a posti limitati che tutti vogliono prendere (poiché la sua meta è la felicità). Saliti su quel treno ci accorgiamo però che il nostro biglietto prevede dei cambi intermedi, ma che non c’è modo di sapere quanti.
Così ci affanniamo senza sosta, la nostra vita diviene una corsa verso traguardi illusori e la nostra relazione con le cose un ‘usa e getta’ colmo di rimpianti e insoddisfazione. ‘Non fermarsi mai’ è il motto dell’uomo moderno. Per questo l’idea di un quieto star seduti senza far nulla appare così priva di valore, stupida, persino inutile. Eppure in quell’inattività si nasconde la chiave di una vita davvero libera.

Oltre l’intellettualismo

Nel Buddhismo e nel Ch’an l’intelletto è considerato una barriera, una fonte di illusioni: è sulla funzione discriminante dell’intelletto che si basano le distinzioni tra io e tu, soggetto e oggetto, bene e male; è attraverso l’intelletto che i messaggi dei sensi vengono interpretati, catalogati e disposti secondo linee mentali che, con il tempo (storico e personale), divengono abitudini di pensiero apparentemente innate e quindi considerate universali e soprattutto vere.
Il Buddha comprese che qualunque interpretazione del reale è fallace, poiché inevitabilmente basata sulle categorie illusorie della mente intellettiva, la quale isola delle frazioni di reale in movimento e, sovrapponendo dei significati, le trasforma in segni statici di qualcosa che le trascende. Da queste interpretazioni del reale dipendono i nostri sogni e la memoria, i ruoli che pesano sulle nostre spalle e gli ideali che proiettiamo sui nostri figli. La nostra vita diviene una storia già scritta, già raccontata e se il destino che condividiamo con i nostri vicini talvolta ci consola, l’angoscia non scompare, riaffiorando di tanto in tanto con la costanza di una boa spinta sott’acqua.

Il superamento del dualismo

Di fronte a questa situazione la risposta del Ch’an è semplice e le parole di Bodhidharma e dei suoi successori sono chiare come l’acqua di un torrente di montagna. Essi ci dicono semplicemente: sii te stesso, liberati di tutte le sovrastrutture che ti rendono schiavo, che muovono la tua vita senza che neanche te ne accorga; liberati dei tuoi ruoli, della tua ambizione, dell’immagine che hai di te stesso; liberati delle regole sociali, della religione e della morale; liberati persino dell’idea di un percorso spirituale. Poiché in tutto ciò non vi è nulla di vero, nulla di naturale. Finché guarderai oltre l’attimo presente in cerca dei frutti delle tue azioni, sarai schiavo del tuo agire. La tua vita, come il reale, è completa in se stessa: non vi è alcun bisogno che tu vi sovrapponga un significato, essa non ha bisogno di alcuna giustificazione che la trascenda.

Quando l’imperatore Wu della dinastia Liang chiese a Bodhidharma chi lui fosse, egli rispose: «Non lo so». Solo tre parole: non portano alcun messaggio, eppure dicono molto di più di quanto potremo mai scrivere sul Ch’an. «Non lo so» significa: non ho alcuna idea astratta di me stesso e per questo sono libero.

La vita va vissuta, nel presente e senza alcuna aspettativa, e in questo non vi è alcunché di quietistico. Il saggio non vive nell’apatia e nella stasi, semplicemente vive senza porsi il problema della scelta: il suo pensiero e la sua azione sono un’unica entità. «Quando avete fame mangiate, quando avete sete bevete, nel camminare, camminate. Sedendo, sedete. Soprattutto non tentennate!»2 (Yun-men). Questo significa vedere nella propria natura. È molto semplice, è assolutamente ovvio.

Il sociologo francese Pierre Bourdieu ha espresso con rara efficacia che cosa comporta guardare il mondo in modo ‘culturale’: egli affermò che ordinare il reale significa dividerlo in entità opposte. La cultura disegna dei limiti e dà così origine alla differenza, dimenticando poi l’assoluta arbitrarietà con la quale ha compiuto la sua scelta. Per questo Bourdieu disse che «la visione del mondo è una divisione del mondo».3
Ma com’è possibile non avere una visione della realtà che ci circonda, com’è possibile non applicare delle categorie interpretative al reale? Proprio in questo sta la difficoltà del percorso di liberazione che ci propone il Ch’an, poiché ci pare impossibile poter vivere senza operare delle scelte, le quali non possono che basarsi su delle convinzioni che abbiamo imparato a far nostre durante tutto il corso della vita. La più radicata di esse è che la nostra vita possa essere migliorata, se no che senso avrebbe vivere? Il nostro attaccamento all’idea di progresso si manifesta in un numero così elevato di categorie mentali da sembrare naturale (si pensi per esempio alla nostra concezione del tempo come lineare). Eppure non lo è: anch’essa è il frutto di un’interpretazione culturale della realtà.

Il Ch’an suggerisce di lasciar andare queste visioni del mondo, le quali stanno alla realtà come il dipinto di un paesaggio sta al paesaggio stesso. Bisogna rimuovere le barriere e i limiti che ci imponiamo attraverso queste visioni: in esse non troveremo mai una vita felice, poiché l’immagine che ci danno è pura illusione. Il motivo per cui vi siamo così legati è che la complessità del reale ci fa paura (ancora una volta si tratta di paura dell’infinito). Poiché l’idea è più comprensibile e stabile della realtà cui si riferisce, sovrapponiamo un mondo di idee, di sistemi di idee, alla realtà, e prendiamo rifugio nella sua sicurezza.

Il maestro Zen Dogen disse così:

I fiori muoiono quando ci rattrista perderli;
le male erbe spuntano quando ci rattrista vederle crescere.4

Attraverso quest’immagine di grande concretezza e banale quotidianità, egli riassumeva in poche righe il cuore di ciò che abbiamo detto finora: è il nostro sguardo intellettivo che crea il giusto e l’ingiusto, il bene e il male, e interpreta secondo queste categorie ciò che ci circonda. Per questo i fiori muoiono quando ci rattrista perderli.

L’alternativa alla visione, e quindi alla divisione del mondo, è un mondo preso semplicemente per quello che è: un’infinità di relazioni relative e incessantemente mutevoli.
È di una vita senza significato che ci parlano i maestri del Ch’an. Non vi sono alcuna meta, alcun fine da perseguire, nulla da migliorare; la nostra vita è perfetta per quello che è e noi, nella nostra Vera Natura, siamo già dei Buddha.

Reintegrazione nell’unità

Il Ch’an non è quindi un percorso spirituale di automiglioramento, nonostante la metafora della Via per l’illuminazione possa indurci a pensarlo in questi termini. Ogni idea di progresso o di miglioramento (e quindi in senso lato di percorso) si riferisce infatti a un’immagine astratta e quindi fissa di noi stessi.
L’uomo che intraprende la Via può essere invece immaginato come una sfera, le cui potenzialità d’espansione sono limitate da un groviglio di vesti e ornamenti di diversa foggia e dimensione che si sono accumulati al suo esterno. Solo nel momento in cui egli si sarà liberato di tutto quel peso inutile (della sua cravatta d’avvocato, della fede che porta al dito, della sua tessera di partito, della soddisfazione per la sua posizione sociale, delle foto del passato e di un’infinità di altre cose), il nucleo che da esse era tenuto legato potrà espandersi senza limiti. Solo allora, reintegrato nell’unità, sperimenterà la vera felicità, la felicità di dio: egli sarà come una sfera «il cui centro è ovunque e la circonferenza da nessuna parte»5 (Ermete Trismegisto).

Note
1. Si veda nota 10 p. 97.
2. Citato in A.W. Watts La via dello Zen, Feltrinelli, Milano, 1971, p. 151.
3. P. Bourdieu Le sens pratique, ed. de Minut, Parigi, 1980, p. 348.
4. Citato in A.W. Watts La via dello Zen, cit., p. 136.
5. Liber XXIV Philosophorum (Il libro dei 24 filosofi).