Haṃsa Libera Scuola di Hatha Yoga

Amanda Morelli

BODHIDHARMA

Il monaco chiamato Bodhidharma aveva nobili origini. Terzo figlio di un sovrano dell’India meridionale di nome Sugandha, era stato allevato in modo che divenisse un grande guerriero e contribuisse così al consolidamento del regno dei Pallava. Ma il suo cuore guardava in un’altra direzione e così il suo destino. Abbandonate le vesti del guerriero, aveva indossato la nera tunica del monaco e si era affidato agli insegnamenti di Prajnatara, il ventisettesimo Patriarca del Buddhismo. Molti anni passarono. Prajnatara, ormai vecchio, consegnò a Bodhidharma la veste e la ciotola, nominandolo ventottesimo Patriarca e affidandogli inoltre il compito di partire per la Cina al fine di diffondere il vero messaggio del Buddha.

Secondo un monaco incontrato a Kuang-chou, il viaggio di Bodhidharma era stato predetto dal Buddha in persona, il quale tutto poteva vedere: egli sapeva che secoli più tardi il suo insegnamento si sarebbe diffuso in tutte le direzioni, e che in Cina sarebbe stato colto in maniera superficiale, come un semplice oggetto di studi, fino a quando il monaco Bodhidharma avesse diffuso la vera pratica e con essa restaurato il messaggio originario.

Tre anni durò il viaggio di Bodhidharma, compiuto secondo alcuni via terra, attraverso le montagne del Pamir e il bacino del Tarim, secondo altri via mare, attraverso lo stretto di Malacca e il grande mare, fino alla cittadina di Kuang-chou.

La sua fama lo precedette e al suo arrivo a Kuang-chou il Patriarca venne accolto con molti onori dal prefetto locale Hsiao Ang. Ma non essendo la gloria il motivo per cui era giunto da tanto lontano, riprese il suo cammino, dirigendosi verso Nord. Passo dopo passo, procedeva incurante delle avversità. Imparò presto la nostra lingua, una frase al giorno, ma nessuno sembrava disposto ad ascoltare il suo insegnamento.

Qualche tempo dopo venne invitato dall’imperatore Wu della dinastia Liang, fervente buddhista, alla capitale del regno meridionale Nanjing. Incuriosito dai racconti che da ogni parte giungevano al suo orecchio, desiderava anch’egli incontrare il barbaro dagli occhi blu.
Bodhidharma si presentò così al cospetto dell’imperatore il quale, invece di ascoltare ciò che il saggio aveva da dire, lo interrogò sui propri meriti: «In tutta la mia vita ho contribuito nei modi più diversi alla diffusione del Buddhismo nella mia terra: ho fatto costruire templi e trascrivere i sacri testi, ho finanziato monasteri, ho aiutato centinaia di uomini a lasciare la vita mondana per dedicarsi alla Via. Nella storia della Cina nessun imperatore ha fatto quanto me. Quanti meriti credi che io abbia ottenuto con tutte queste opere?»

Ma Bodhidharma sapeva che bene e male sono entrambi illusioni e che, non essendoci una differenza sostanziale tra di loro, ogni atto, buono o cattivo che sia, produce nuovo karma. Per questo invece di lodare l’imperatore si limitò a dire: «Alcun merito. Assolutamente alcun merito!»
Il celeste Wu fu sorpreso da questa risposta e ribatté: «Allora qual è il significato supremo della santa dottrina?» Ancora una volta Bodhidharma stupì l’imperatore: «Le sante verità non sono altro che formule vuote e in esse non vi è nulla di santo».
«Chi è dunque colui che mi sta dinanzi?»
«Non lo so.»
L’imperatore non riusciva a cogliere il significato celato dietro le rudi risposte del maestro Bodhidharma. Il suo ego era troppo grande perché la sua mente potesse anche solo prenderle in considerazione.
Dopo qualche settimana a corte, Bodhidharma decise così di lasciare la capitale. Procedette verso Nord e giunto al fiume Yangtze, che segnava il confine con lo Stato di Wei, lo attraversò a bordo di una canna di bambù.

Nel frattempo l’imperatore Wu cominciava a comprendere di aver perso una grossa occasione: il saggio taumaturgo Pao-chih gli aveva infatti rivelato che il maestro che aveva avuto l’onore di ascoltare non era altri che il bodhisattva Avalokiteshvara, colui che trasmette il Sigillo della Mente dell’Illuminato. Ma ormai era troppo tardi e a nulla sarebbe servito mandare qualcuno alla sua ricerca. Bodhidharma era già lontano e in nessun caso sarebbe stato disposto a tornare indietro.
A lungo il Patriarca percorse le terre cinesi: ne visitò i numerosi monasteri, incontrò innumerevoli monaci, ma nessuno di loro fu in grado di comprendere il suo messaggio.
L’unico che lo seguì fu il maestro Shen-kuang, grande conoscitore dei sutra. Pare che le sue letture fossero così straordinarie che dal cielo piovevano fiori dai mille colori mentre la terra si apriva facendo sorgere loti dorati. Ma Bodhidharma non si lasciava impressionare da nulla e interrogando Shen-kuang sull’utilità di quelle letture, finì per svelargliene l’assoluta futilità: per quanto meravigliose fossero le sue parole, da sole non potevano in alcun modo condurre all’arresto della ruota karmica. Le sue letture erano inutili.
Shen-kuang, curate le ferite dell’orgoglio, si rese conto che il maestro aveva ragione e cominciò a seguirlo, implorando i suoi insegnamenti. Ma Bodhidharma non rispondeva alle sue domande, limitandosi a tacere.

Giunto alle cinque montagne sacre non lontane dalla capitale Lo-yang, Bodhidharma decise di ritirarsi in una grotta sul monte Sung, dove rimase nove anni seduto in meditazione. La fissità del suo sguardo e la potenza della sua concentrazione non conoscevano né la stanchezza né il dolore e quando, durante il mio viaggio, potei visitare la grotta in cui tanto a lungo aveva soggiornato il maestro, vidi con questi occhi i segni che la sua pratica aveva lasciato: la sua ombra impressa nella parete di fronte alla quale meditava; e il solco scavato su di essa dal suo sguardo penetrante.
Vidi anche, per la prima volta, la pianta del tè di cui tanti monaci mi avevano decantato le virtù e la cui origine si deve anch’essa a Bodhidharma. Pare che un giorno il grande Patriarca si fosse addormentato durante la meditazione; avendo deciso al suo risveglio che una cosa simile non sarebbe più dovuta accadere, si tagliò entrambe le palpebre e le gettò a terra. Da esse nacque la prima pianta del tè, che ha la miracolosa proprietà di tener svegli i monaci durante la meditazione.
Nel frattempo Shen-kuang rimaneva inginocchiato davanti l’apertura della grotta, in attesa di un cenno del maestro. La sua volontà di porre fine al ciclo delle rinascite era forte: nulla lo avrebbe distolto dal voto fatto.

Un inverno nevicò più del solito e Shen-kuang era immerso fino alla vita nella neve, quando il maestro gli rivolse la parola, chiedendogli che cosa facesse.
«Cerco la Via, o grande maestro. Ti prego, sii compassionevole, indicami il metodo per sconfiggere il dio Yama.»
«Tu mi chiedi di indicarti la Via» rispose Bodhidharma «ma io ti domando: di che colore è la neve di cui sembri non curarti?»
«La neve è bianca, maestro.»
«Bene» disse Bodhidharma «quando la neve diventerà rossa, ti trasmetterò la Via».
Chiunque si sarebbe arreso di fronte a una tale richiesta, che sembrava non avere soluzione, ma non Shen-kuang. Impugnata la spada che portava con sé si tagliò il braccio sinistro, tingendo la neve con il suo stesso sangue.
Poi disse: «Maestro, la mia mente non trova pace. Per favore, pacifica la mia mente».
Shen-kuang aveva dato prova di grande dedizione e il Patriarca rispose: «Portami la tua mente e io la pacificherò».
«Maestro, ho cercato la mia mente, l’ho cercata ovunque, ma non sono riuscito a trovarla.»
«Ho pacificato la tua mente» concluse il Patriarca.

Da allora e per molti anni Shen-kuang fu allievo di Bodhidharma, che gli diede un nuovo nome: Hui-k’o.

Nel frattempo i monaci del vicino monastero di Shaolin, che anni prima avevano negato ospitalità a Bodhidharma, cominciarono a rendergli visita, implorando i suoi insegnamenti.  Erano così deboli e in cattive condizioni fisiche che il Patriarca, ricordando le privazioni che il principe Siddhartha aveva inutilmente affrontato nella sua ricerca della Via, provò compassione per loro e decise di aiutarli. A tal fine insegnò loro degli antichi esercizi e delle tecniche di respirazione appresi in India. Rinforzati nel fisico, i monaci poterono così praticare efficacemente la meditazione.

Dopo Hui-k’o, Bodhidharma accolse altri tre discepoli. A tutti insegnò la Via nel medesimo modo. Ma ognuno di noi è differente: le nostre capacità di comprensione lo sono e così i nostri karma. Per questo quando Bodhidharma decise che era arrivato il momento di trasmettere la veste e la ciotola, simboli del Sigillo della Mente del Buddha, chiamò i suoi discepoli e disse: «È giunto per me il momento di tornare in India. Può ciascuno di voi dirmi qualcosa che dimostri la sua comprensione del mio insegnamento?»
Per primo prese la parola il discepolo Tao Fu: «Per come lo vedo io, non è vincolato da parole e frasi, né è separato da parole e frasi. Tale è la funzione del Tao».
«Hai raggiunto la mia pelle» disse Bodhidharma.
La monaca Tsung-chih parlò per seconda: «Secondo la mia comprensione, è come la rapida visione del reame di Akshobhya Buddha. Visto una volta, non è necessario vederlo di nuovo».
Bodhidharma rispose: «Hai raggiunto la mia carne».
Prese quindi la parola il discepolo Tao Yü: «I quattro elementi sono vuoti e i cinque skandha non hanno effettiva esistenza. Neanche un singolo dharma può essere colto come reale».
Bodhidharma rispose: «Hai raggiunto le mie ossa».
Infine, venne il turno di Hui-k’o il quale, dopo essersi inchinato silenziosamente di fronte al maestro uscì dalla stanza senza pronunciare una sola parola.
Bodhidharma annunciò: «Tu hai raggiunto il mio midollo».
Il Patriarca aveva fatto la sua scelta: Hui-k’o ricevette la veste e la ciotola e con essi una copia del Lankavatara sutra. Pare che tale volume, al di là del suo contenuto dottrinale, avesse delle virtù magiche. La cosa non mi stupisce ed è confermata dal fatto che, finché era in suo possesso, Bodhidharma era sopravvissuto a ben cinque tentativi di avvelenamento. Il sesto, che determinò la morte del maestro, avvenne poco dopo la consegna del sutra al successore Hui-k’o.

Potrà parervi strano che un grande maestro come Bodhidharma sia morto in questo modo, avvelenato da una mano invidiosa. Tuttavia io credo che egli fosse pronto a quell’evento, avendo deciso egli stesso l’ora della sua morte. Colui che ha sconfitto il dio Yama non ha paura di cambiar forma, decide liberamente come e se entrare o uscire dalla sfera dell’esistente.
Era morto, e io l’ho incontrato in cammino verso l’India.
Avevano sepolto il suo corpo, e un solo sandalo è stato ritrovato.

Poiché egli ha trasceso essere e non essere,
il suo nome è ripetuto infinite volte dall’eco della valle.