Haṃsa Libera Scuola di Hatha Yoga

Amanda Morelli

BODHIDHARMA

1.3 L’interpretazione della leggenda di Bodhidharma

Considerando quanto appena detto, passiamo all’analisi tematica del racconto.

1.3.1 La nascita

Bodhidharma nasce nell’India meridionale, terzo figlio di un re della dinastia Pallava. Nonostante la sua origine e l’educazione ricevuta, decide di abbandonare i costosi abiti del potere (e con essi i ruoli a lui destinati per nascita) per dedicare la vita alla ricerca dell’illuminazione.

Nell’origine regale del primo Patriarca del Buddhismo Ch’an si intravede un parallelismo con la vita del Buddha. L’accostamento è però solo parziale: nel caso di Bodhidharma mancano sia il conflitto con la figura paterna sia la profezia all’origine di tale conflitto. Inoltre, le due figure vengono descritte in maniera radicalmente differente: il Buddha è rappresentato come un uomo compassionevole e condiscendente; di Bodhidharma, al contrario, colpiscono il carattere burbero, lo sguardo austero, i modi rudi.

L’origine sociale di Bodhidharma va quindi interpretata in maniera più generale, ossia come espediente comunicativo (ricordo che per il momento abbiamo accantonato la storicità dei fatti raccontati). Che cosa significa? Facciamo un esempio per chiarire: quando leggiamo lo slogan di una pubblicità, esso risulta tanto più leggibile quanto maggiore è il contrasto tra esso e lo sfondo. La stessa funzione riveste, nel nostro racconto, l’accostamento tra l’origine regale del suo protagonista e la vita monastica da lui intrapresa: essa colpisce maggiormente la nostra attenzione poiché non è un uomo comune a compiere la scelta della rinuncia, ma un uomo che si trova, per nascita, al vertice della scala sociale.

Nel Cattolicesimo, san Francesco presenta una storia simile: l’episodio con cui si dà inizio alla sua avventura religiosa narra che, nella piazza di Santa Maria Maggiore ad Assisi, il giovane si sarebbe spogliato dei suoi abiti per restituirli poi al padre, uscendo, innanzi tutto simbolicamente, dalla sfera sociale rappresentata dalla famiglia e rinunciando alla vita mondana.

1.3.2 La linea di trasmissione

Il Buddhismo Ch’an si caratterizza (almeno fino al sesto Patriarca, come vedremo più avanti) per una trasmissione unilineare dell’insegnamento del Buddha, in completa autonomia dalle Scritture.
Attraverso i sette Buddha del passato, i ventotto Patriarchi indiani, i sei Patriarchi cinesi e i successivi maestri cinesi e giapponesi, tale insegnamento è potuto giungere, tramite un passaggio da mente a mente, fino ai giorni nostri. In questo senso, il Buddhismo Ch’an si erige a unico portatore del messaggio originario del Buddha, ed è per questo che talvolta è stato indicato come ‘l’apoteosi del Buddhismo Mahayana’.

La linea di successione, questa genealogia di Patriarchi, è quindi fondamentale per il Ch’an, costituendo la spina dorsale del suo corpo biografico. Tale caratteristica è stata spesso interpretata come una traslazione sul piano religioso dell’ossessione tipicamente cinese per le linee genealogiche. Tuttavia schemi di trasmissione basati sul modello lignatico sono rintracciabili anche nel Buddhismo indiano, e tale interpretazione non coglie il senso profondo del passaggio da individuo a individuo.

Ciò che importa sottolineare di tale Linea di Patriarchi, di cui Bodhidharma rappresenta una sorta di chiave di volta, non è quindi l’origine, ma la modalità di trasmissione che essa implica. Come molti di voi avranno notato, nel racconto non viene detto nulla sull’insegnamento trasmesso: nessun accenno a ciò che Bodhidharma avrebbe appreso da Prajnatara; nessun particolare sugli anni che Hui-k’o avrebbe passato con Bodhidharma. Questo silenzio viene confermato dall’episodio finale in cui il primo Patriarca chiede ai suoi allievi di dare una prova di quanto compreso: proprio colui che tace viene scelto come successore. Ma se nulla viene effettivamente trasmesso, qual è dunque il compito del maestro e in che cosa consiste la trasmissione da mente a mente su cui si fondano il valore e l’unicità del Ch’an?

Il Ch’an parte dal presupposto, comune a tutte le scuole buddhiste, che tutto è sunyata, ‘vacuità’. Dato questo presupposto, l’ovvia conseguenza è che non vi sia alcun messaggio da trasmettere e che l’immediato risveglio non possa essere comunicato né dai sutra né da qualsivoglia discorso. L’illuminazione è un’esperienza e, in quanto tale, non può essere insegnata, né oralmente né in altro modo. Il compito del maestro è dunque unicamente quello di stimolare l’allievo, fornendogli l’acciarino necessario a illuminare dentro di sé la sua Vera Natura, la sua natura di Buddha. In tal modo va interpretato il carattere silenzioso della trasmissione da mente a mente, poiché il suo fine non è l’insegnamento di una qualsivoglia verità intellettuale, ma il semplice indicare la via che porta all’intuizione della propria buddhità: essa non va appresa poiché è già presente in ognuno di noi.
La linea di trasmissione non implica dunque il passaggio di qualcosa di concreto, ma il riconoscimento di una comune maturità spirituale, la quale, al di là della fondamentale presenza del maestro, può essere raggiunta solo in prima persona. In questo senso, il passaggio della veste e della ciotola non rappresenta altro che una conferma simbolica di tale maturità spirituale, mentre il loro possessore acquisisce con esse unicamente la legittimazione a giudicare la maturità spirituale altrui, in luogo del maestro precedente e secondo i ‘non parametri’ da lui appresi.

1.3.3 L’incontro con l’imperatore Wu e con Shen-kuang

L’imperatore da un lato e Shen-kuang dall’altro sono i due modelli delle cattive interpretazioni del Buddhismo.

L’imperatore Wu rappresenta la via delle buone opere, la cui illusorietà risiede nel carattere volitivo delle azioni tramite cui si cerca di migliorare il proprio karma. Ma, nella visione del Ch’an, l’illuminazione non è un graduale percorso di rinascite di grado sempre crescente, la ricerca di un futuro migliore da conquistarsi attraverso una scelta del bene sul male. Tale prospettiva è propria di una visione ancora dualistica del reale, poiché presuppone un soggetto indipendente che agisce e opera scelte tra elementi dicotomici.

Wu rappresenta l’individuo identificato con il proprio ego, e la sua sordità alle parole di Bodhidharma esemplifica la paura del nulla che lo caratterizza. Le risposte del Patriarca suonano così assurde al suo orecchio proprio perché affermano ciò che egli si sforza di non sentire: la vacuità e l’assoluta relatività del reale, di cui nulla si può dire se non: «Non lo so». Ciò che Bodhidharma tenta di spiegare all’imperatore è semplicemente che non c’è nulla da cercare o guadagnare, da imparare o migliorare. Inseguire l’illuminazione è come «cavalcare un bue alla ricerca del bue» (Ma-tsu).

Se l’imperatore esemplifica l’illusione della via delle opere, Shen-kuang rappresenta l’illusione dell’intelletto.

Il racconto presenta il futuro Hui-k’o alle prese con la lettura dei sutra, che compie con tanta bravura da provocare piogge di fiori e altre meraviglie. Ma Bodhidharma non si lascia impressionare ed esprime con chiarezza la sua posizione, riaffermando ciò che aveva detto all’imperatore sulle sacre Scritture, ossia che le sante verità non sono altro che formule vuote e che in esse non vi è nulla di santo. Le Scritture sono mezzi illusori, poiché non vi è alcun messaggio da trasmettere.

Il significato delle negazioni di Bodhidharma va ricercato ancora una volta nel carattere illusorio del reale. Ma attenzione, affermare che tutto è vacuità non significa dire che nulla esiste, così come negare valore all’azione positiva non significa promuovere l’apatia e la stasi. Al contrario vuol dire, molto semplicemente, prendere il reale per ciò che è, senza trasformarlo in un contenitore di significati che lo trascendono.

Questo è ciò che fa l’intelletto: interpreta il reale, lo classifica, lo ordina secondo schemi convenzionali, per poi chiamare una qualunque entità trascendente (la religione, la scienza e così via) ad affermare l’assoluta veridicità delle sue asserzioni.

Anche le spiegazioni e gli insegnamenti dei sutra sono produzioni intellettuali e quindi, come qualunque interpretazione del reale, astrazioni mentali; cercare in esse la verità è come provare ad assaporare un gelato pensando: «Gelato! Gelato!».

1.3.4 Shen-kuang diviene Hui-k’o: il sacrificio e l’illuminazione

Dopo aver mostrato a Shen-kuang l’inutilità delle sue superbe letture, Bodhidharma si ritira in una grotta nei pressi del monastero di Shao-lin, incurante delle suppliche del suo futuro allievo. Il suo semplice attendere non è infatti una prova sufficiente della sua volontà di intraprendere la Via. Solo quando Shen-kuang dimostra di essere veramente disposto al sacrificio, tagliandosi il braccio sinistro, il burbero Bodhidharma rompe il suo lungo silenzio per prestargli attenzione. Tale episodio indica con chiarezza la difficoltà insita nella scelta di seguire il Dharma e la necessità da parte dell’allievo di abbandonare ogni forma di ‘autoconservazione’.

La storia del Ch’an è ricca di episodi di questo tipo, in cui il maestro testa in maniera più o meno violenta la capacità di autosacrificio1 dei propri allievi o addirittura provoca in essi l’illuminazione attraverso il dolore e la violenza. L’episodio di Shen-kuang che si taglia il braccio è dunque il prototipo dei metodi anticonvenzionali del Ch’an e della sua totale incuranza per qualsivoglia norma etica o morale. Qualunque metodo è considerato legittimo se conduce all’illuminazione, poiché niente può essere definito come bene o male in maniera assoluta. In altre parole, la morale è anch’essa una convenzione del vivere sociale e in quanto tale va abbandonata.

Il racconto prosegue con un dialogo tra maestro e allievo: Shen-kuang chiede a Bodhidharma di pacificare la sua mente e questi gli risponde: «Portami la tua mente».

La semplice richiesta conduce Shen-kuang all’illuminazione. Ma in che modo?

Notiamo che nel nostro racconto non viene fatta menzione della parola ‘illuminazione’. Bodhidharma e Shen-kuang parlano solo di ‘pacificazione della mente’, la quale si realizza nell’istante in cui si intuisce che la mente da pacificare non si trova da nessuna parte. La semplicità di questo dialogo rasenta il paradosso e, ancora una volta, ci pone di fronte alla domanda: tutto qui?

In realtà, esso racchiude, proprio nella sua semplicità, tutto il senso della ricerca spirituale del Ch’an, ossia: ‘niente di speciale’. Shen-kuang si rende conto che la sua è una richiesta che non ha alcun senso, che non vi è alcuna mente da pacificare o purificare, poiché la sua mente individuale semplicemente non esiste.

Al tempo di Bodhidharma e dei suoi primi successori la concezione comune della pratica buddhista era quella di una progressiva purificazione della mente da qualunque pensiero, sentimento e persino sensazione, da ottenersi per gradi attraverso la meditazione (dhyana, da cui il cinese Ch’an). La pacificazione della mente di Hui-k’o si compie invece in un solo istante, subitamente, senza il bisogno di alcuna pratica meditativa.

La vera illuminazione non significa annientare gradualmente la propria mente, ma capire che essa non è distinta da ciò che la circonda. Non vi è nulla da cercare, niente di speciale da raggiungere, questo è il messaggio di Bodhidharma e del Ch’an. L’illuminazione è semplicemente lo stato della mente che non pensa a se stessa, e che quindi ha superato la forma di attaccamento più dura da abbandonare: l’attaccamento all’idea di sé.

L’illuminazione è quindi un semplice ‘lasciar andare’ e l’uomo illuminato è colui che vive la propria vita in modo spontaneo, naturale, senza alcuno scopo o sforzo. Altrimenti detto, colui che vive nel presente senza guardarsi vivere.

1.3.5 L’avvelenamento di Bodhidharma e l’incontro con Sung Yün

La storia vuole che il primo Patriarca del Ch’an sia stato oggetto di forte opposizione da parte delle scuole rivali, opposizione che diventa più evidente e violenta nel momento in cui Bodhidharma comincia a diffondere il suo messaggio.

Nella prima parte del racconto l’accento è posto sulla solitudine che caratterizza la sua condizione: egli è incompreso o inascoltato e, nonostante il tanto peregrinare, non trova nessuno disposto ad aprirsi ai suoi insegnamenti; finché non si imbatte in Hui-k’o, che diviene il suo primo allievo. A lui si aggiungono con il tempo altri tre discepoli, oltre ai monaci del monastero di Shao-lin, cui egli accetterà di insegnare le basi del combattimento. Siamo chiaramente ben lontani dalle folle presenti ai discorsi del Buddha o dalle migliaia di allievi dei maestri Ch’an nel periodo della sua massima espansione, ma nonostante questo la differenza con la condizione precedente è sentita con forza.

Alla solitudine che lo aveva accompagnato durante la prima parte del racconto si sostituisce quindi una vita più comunitaria ma, contemporaneamente, appaiono segni concreti dell’ostilità che il suo messaggio rivoluzionario genera nelle schiere di maestri e letterati delle scuole rivali. La morte di Bodhidharma arriva al sesto tentativo di avvelenamento.

Se questi episodi dimostrano l’isolamento che deriva dall’unicità del suo statuto di detentore della verità, il quale genera reverenza da un lato ma anche paura e quindi aggressività dall’altro, essi divengono pure prove del suo controllo sulla vita e sulla morte. Egli non subisce le azioni altrui, ma ne fa strumenti del proprio volere. Anche l’incontro con Sung Yün e ciò che ne segue2 dimostrano la sua assoluta padronanza del proprio destino, contribuendo allo stesso tempo a creare un’aura di mistero e meraviglia intorno alla sua figura.

Come abbiamo visto la storia di Bodhidharma ci dice molto non solo sul suo protagonista ma anche sul Buddhismo Ch’an nel suo complesso. Si tratta infatti di una storia elaborata da una memoria collettiva nel corso di diversi secoli e, in quanto tale, essa porta con sé un nucleo di significati e contenuti che trascendono il proprio contenitore. Raccontarla significa comunicare il messaggio di un preciso, ma fluido, complesso socioculturale che si è andato costruendo parallelamente ai racconti della propria storia (così come la nostra identità si costruisce parallelamente alle storie che ci raccontano).

Tuttavia, nel suo puntare alla Vera Natura dell’uomo, la storia di Bodhidharma rivela anche qualcosa che va al di là dei condizionamenti del codice convenzionale con cui viene espressa, un messaggio di portata molto più vasta, applicabile da ognuno di noi nella banalità, troppo spesso bistrattata, della nostra esistenza quotidiana.

Note
1. Anche l’episodio in cui Bodhidharma si taglia le palpebre rientra in questa dimensione di autosacrificio: esso ci illustra come il punto d’arrivo del percorso spirituale non possa mai essere dato per scontato, neanche quando viene raggiunto.
2. L’episodio dell’unico sandalo lasciato da Bodhidharma deriva probabilmente dall’immaginario taoista: nelle agiografie sono numerosi gli esempi di esseri immortali che lasciano, come Bodhidharma, un sandalo, una spada o altro nella propria tomba.