Haṃsa Libera Scuola di Hatha Yoga

Amanda Morelli

BODHIDHARMA

2. La storia della storia

Scrivo queste cose come a me paiono vere,
poiché i racconti dei greci sono, a mio avviso,
tanto molteplici quanto ridicoli.
Ecateo di Mileto, Genealogie

Dopo una corta giornata di sole la notte aveva spento le luci della vita diurna lasciando che il Grande Macchinista si preparasse ad accendere il suo miglior faro di scena. Le montagne, mandati a letto i numerosi figli, si erano coperte il capo di un sottile velo bianco e ora attendevano l’inizio dello spettacolo. Erano mesi che assistevano ai preparativi, ma nessuna di loro aveva capito di che cosa si trattasse; e ora che sapevano gli attimi attesi avvicinarsi, alle loro discussioni sul probabile e il meno probabile si era sostituito il timido tremolio dell’aspettativa. Quella notte non si sarebbe mossa una foglia.
Le nuvole si aprirono e i bianchi veli sembrarono d’improvviso avere maggiore volume. La luna aveva dato il via alla rappresentazione.
Il palcoscenico stava nel mezzo. Al suo centro un monastero. Le pesanti porte in legno erano chiuse dall’interno. Nessun suono. I monaci dovevano essere nelle loro stanze, dormienti.

Poi la luna venne velata da un filtro opaco e tutto divenne fluido, le ombre come i contorni delle cose. Solo qualche attimo e, quando il velo svanì, un uomo era apparso sul sentiero occidentale. Era vestito di abiti consunti e portava un solo sandalo. Si avvicinava con lentezza, con il passo sereno di chi non conosce lo scorrere del tempo.

Giunto di fronte alla porta del monastero si fermò e senza esitazione batté vigorosamente qualche colpo.
Silenzio.
Il vecchio monaco non si perse d’animo e ripeté il medesimo gesto. Il rumore dei battiti percorse le vallate circostanti, riecheggiando nelle numerose pieghe verdi dei loro abiti.
Nuovamente, silenzio.
Ma il vecchio monaco non si perse d’animo e ripeté il medesimo gesto. Una, due, tre volte, finché non si udì un suono metallico, una specie di danza acuta soffocata nella sordità del legno.
La porta si aprì, lasciando uscire un giovane monaco dall’aria impaurita. Tremava per il freddo, facendo oscillare senza sosta la lanterna che teneva davanti a sé. Dall’interno del monastero provenivano delle voci, come dei richiami o forse dei segnali di allarme. Ma il giovane rimase dov’era, prese coraggio e con voce fioca disse: «Sei tu l’uomo che mi è apparso in sogno per nove notti consecutive? I miei compagni non mi credevano, ma ora sei qui, proprio come avevi preannunciato. Ho visto il tuo viaggio, ma non so da dove provieni. Parla dunque, monaco straniero, e sciogli i miei dubbi».
«Non provengo da nessun luogo, poiché ogni luogo è in me. Una volta sono nato in terra di Persia, e ho voluto percorrere il mondo dell’Illuminato: ho visto innumerevoli templi, ho meditato in mille e uno luoghi sacri, ho osservato la volubilità degli uomini. Sono qui per il sandalo che con false credenze adorate come santo. Lo stesso sandalo che avete rubato, agendo come gazze, nel monastero di Shao-lin. Il mio nome è Bodhidharma. Quel sandalo mi appartiene.»
Il giovane monaco indietreggiò e la lanterna gli cadde dalle mani, rotolando giù per il sentiero. La luna risplendeva con vigore, illuminando da ponente il suo viso incredulo. Indietreggiò ancora, fino ad appoggiarsi alla grossa porta di legno del convento.
«Questo… questo non è possibile, il monaco Bodhidharma è morto secoli fa, anche i bambini lo sanno.»
Senza aggiungere altro, sgattaiolò all’interno, chiudendo il portone dietro di sé.

Il monaco che diceva di chiamarsi Bodhidharma non si mosse di un passo; rivolto verso l’ingresso del monastero attese in completa immobilità. Passò del tempo: si accesero delle luci, venne svegliato qualcuno, si discusse sulle parole dello straniero. Infine la porta venne riaperta.
Ne uscì un monaco dall’aspetto sereno. Anch’egli teneva una lanterna davanti a sé. Osservò per qualche istante il monaco giunto da lontano e poi disse: «Straniero, le tue parole sono fonte di incredulità. Eppure non possono essere negate come false. Il nostro abate conosce bene la storia del monaco Sung Yün, che incontrò Bodhidharma dopo la sua morte ma non venne creduto fino alla scoperta dell’unico sandalo. Entra dunque nel nostro umile monastero dove troverai riparo dai pericoli della notte. Ma sappi che le tue parole dovranno essere confermate da prove ben più solide del tuo unico sandalo».
Bodhidharma non disse nulla, né fece alcun gesto di assenso o di diniego; si limitò a seguire il monaco nel monastero.

Al suo interno vi era un gran fermento: la notizia dell’arrivo di un monaco di nome Bodhidharma era circolata rapidamente e chi non era stato svegliato dalle sorde sequenze di battiti al portone del monastero, era stato richiamato alla veglia dal ciacolare dei monaci. Tutti conoscevano quel nome, i seguaci della scuola fondata da Bodhidharma, come quelli di altre scuole. Il suo sandalo era conservato nel monastero da circa un secolo e le visite alla santa reliquia erano spesso accompagnate dalla lettura dei testi che raccontavano la vita del suo antico possessore. Le letture erano seguite non solo dai visitatori laici i quali, si sa, sono più inclini alle passioni per il meraviglioso, ma anche da moltissimi monaci, che prendevano il racconto come un’occasione di svago ma anche di apprendimento.
Il suono del suo nome creava un’atmosfera di rispetto e profonda reverenza, mentre il racconto delle sue avventure stimolava la pratica e il sacrificio, ricordando ai monaci il fine del loro percorso e l’ideale cui rifarsi. Ognuno di loro si era sognato almeno una volta nei panni di Hui-k’o, ognuno di loro aveva sperato almeno una volta di partire per l’India come Sung Yün per poter incontrare il primo Patriarca sulle montagne d’Occidente. Quei racconti li facevano sognare, rafforzando nel loro animo il messaggio che portavano con sé.

Il monaco che diceva di chiamarsi Bodhidharma venne accompagnato al cospetto dell’abate, cui raccontò nuovamente ciò che il giovane monaco aveva già riferito. Confermò anche il motivo della sua visita: recuperare il sandalo che un tempo gli era appartenuto e che oggi era divenuto oggetto di false credenze e nuove illusioni.
L’abate sembrava, a differenza dei monaci, non curarsi particolarmente dello straniero. Ascoltò la sua storia e poi lo accomiatò con poche parole, facendolo accompagnare in una stanza dove avrebbe potuto riflettere sulla portata delle sue affermazioni, le quali stavano gettando nello scompiglio un intero monastero. Lo straniero sarebbe stato riascoltato l’indomani da un gruppo di esperti che avrebbero valutato le sue parole, testi alla mano.
Con qualche fatica, la calma imposta dall’abate riprese il controllo dei corridoi, delle corti, dei giardini, senza riuscire però ad affermarsi nelle menti dei monaci: nessuno era in grado di prender sonno. Il silenzio che avvolgeva il monastero era simile alla quiete che precede lo scatenarsi del temporale.

La luna aveva fatto in tempo a compiere qualche passo della sua abituale passeggiata notturna, quando una nuova serie di colpi risuonò nel monastero e nelle vallate circostanti. Senza attendere un solo istante i monaci uscirono dalle loro stanze: chi poteva essere ancora? Un viandante? Un monaco itinerante? Uno spirito? All’incredulità e alle fantasticherie si aggiungeva l’ombra della paura…
L’abate tentò dapprima di pronunciare parole sagge: «Non lasciate che i venti delle passioni intorbidiscano le vostre menti. Anche quando il mare è in tempesta, la sua profondità non conosce l’agitarsi dei marosi. Prendete rifugio in quella quiete».
Ma le sue parole non calmarono i monaci. Allora fece ricorso alla sua autorità e lasciò che essa parlasse per lui: «Ritiratevi immediatamente nelle vostre stanze o sarete puniti per il vostro comportamento infantile…»
I monaci vennero fatti rientrare e l’abate chiamò l’uomo che aveva introdotto lo straniero di nome Bodhidharma all’interno del monastero.
«Vai saggio Chui, vai a vedere con i tuoi occhi senza veli di chi si tratta questa volta. Se si tratta di un bandito saprai come difenderti, se si tratta di uno spirito saprai come convincerlo ad andarsene, se si tratta di un uomo ascolta la sua storia e accoglilo con compassione nel nostro monastero. Poi torna da me a riferirmi che cos’hai visto».
Il monaco Chui assentì, accese una lanterna e si diresse verso la porta occidentale. Nuovi battiti risuonarono su di essa.
Chui aprì il pesante portone con decisione e uscì all’aperto. Prima di giungere al tempio era stato a lungo sul monte Sung, nel monastero di Shaolin, dove aveva appreso le arti del combattimento. Nulla poteva spaventarlo, il suo cuore non conosceva la fredda morsa della paura. Ma la sua arte non gli servì: non ci fu bisogno di sferrare un solo colpo.
L’uomo che gli si presentò davanti agli occhi era un semplice monaco. Il suo capo era coperto da un mantello scuro e del suo viso Chui non poté scorgere altro che la folta barba. Soltanto i piedi erano scoperti: la sua pelle era ombrosa e dorata come quella degli indiani ed egli – anch’egli! – portava un unico sandalo.

«Chi sei tu che giungi silenzioso in questa chiara notte? Avremmo potuto scambiarti per la volpe che cerca di entrare nel pollaio e lasciarti fuori per paura. Ma il nostro abate è saggio e compassionevole e ti ha concesso il beneficio del dubbio. Vedo con i miei occhi che non sei un bandito, né uno spirito. Il motivo che ti porta qui dev’essere dunque nobile. Parla ora, in modo che possa accoglierti e ristorarti chiamandoti per nome.»
«Non provengo da nessun luogo, poiché ogni luogo è in me. Una volta sono nato in India meridionale, terzo figlio di un grande re brahmino. Ho viaggiato fino in Cina per diffondere il Dharma, il messaggio dell’Illuminato, ma ho incontrato grandi difficoltà. Solo due discepoli hanno seguito i miei insegnamenti per diversi anni prima della mia morte fisica. Sono qui per il sandalo che con false credenze adorate come santo. Lo stesso sandalo che avete rubato, agendo come gazze, nel monastero di Shao-lin. Il mio nome è Bodhidharma. Quel sandalo mi appartiene.»

Chui cercò di non far trasparire lo stupore che in un solo istante era giunto dal centro del suo petto fino alla punta delle dita – la lanterna compì un irriverente giro di valzer – e su fino alla gola. Le sue parole avrebbero mostrato i colori della meraviglia, avrebbero portato con sé l’aroma del dubbio. Così tacque. Tacque per qualche lungo istante, fissando la sua mente sulla fiamma della lanterna.
Scomparve prima il tempo, poi lo spazio con il cielo e la terra, la luna e le montagne, scomparve il monaco che gli stava dinanzi, scomparvero la mano e la lanterna, scomparve l’occhio che guardava e la fiamma che si lasciava guardare. Soggetto, verbo e oggetto non furono più nient’altro che la loro relazione.
Ricondotta la mente alla Via di Mezzo lasciò che essa si esprimesse attraverso il suono convenzionale: «Quando l’oggetto viene meno, anche il soggetto sparisce. L’oggetto sparisce quando il soggetto viene meno. Nella non dualità tutto è lo stesso. Vero e falso, giusto e sbagliato: nell’unità del vuoto i due sono uno. Perciò, onorevole monaco, non giudicherò le tue parole. Esse sono fonte di incredulità, eppure non possono essere negate come false. Entra dunque nel nostro umile monastero dove troverai riparo dai pericoli della notte. Domani verrai ascoltato e le tue parole verranno giudicate. I testi tramandatici dalla tradizione, non gli uomini, saranno i tuoi giudici».

L’uomo che diceva di chiamarsi Bodhidharma non disse nulla, limitandosi a seguire il saggio Chui all’interno del monastero. Venne condotto in una stanza isolata, gli venne dato del riso e una stuoia su cui riposare. Non una sola parola venne pronunciata.
Infine Chui si accomiatò, chiudendo la porta dietro di sé. Giunto nella corte antistante i locali dell’abate si fermò ad ammirare il susino al suo centro.

Fra i suoi rami, il vento che sospira.
Fra i suoi rami, i bagliori della luna che passeggia.
Per tutta la notte così tranquilla.
Perché? E per chi?

Chiusi gli occhi, bevve a grandi sorsate il vuoto meraviglioso di quella notte, di quella luna, di quel susino. Poi compì il suo dovere.

L’abate non dormiva; lo attendeva seduto nell’angolo posteriore della stanza. Con un cenno della testa lo invitò a entrare.
«Dimmi, saggio Chui, se la mia intuizione è ancora quella della farfalla che si posa sul fiore appena sbocciato. Dal cammino occidentale un altro Patriarca è giunto al nostro monastero, non è così?»
«Saggio abate, il suo aspetto è quello di un monaco straniero, eppure le sue parole non mi erano nuove. Dice di chiamarsi Bodhidharma e come colui che dice di chiamarsi Bodhidharma rivendica anch’egli il sandalo che un tempo fu suo. L’ho condotto nelle stanze meridionali, dove ora riposa. L’ho ristorato con del riso e gli ho annunciato che domani i grandi testi ascolteranno e giudicheranno le sue parole.»
«Bene Chui. Ora vai. Riposa a fianco della porta occidentale. I sogni di quel giovane monaco devono ancora colorarsi d’inverno e se la mia intuizione è veritiera dovremo essere pronti a ricevere altri ospiti.»

Così fu.

Con il silenzio delle stagioni che si succedono, arrivarono quella notte altri sette monaci. Ognuno raccontava la sua storia, una storia sempre nuova e sempre più ricca di nomi e luoghi. Il loro aspetto era differente, ma nei loro occhi albergava un bagliore sempre uguale, un guizzo di santità che colorava di bianco il loro sguardo severo. E le loro storie, così diverse, si concludevano tutte alla medesima maniera.
«Sono qui per il sandalo che con false credenze adorate come santo. Lo stesso sandalo che avete rubato, agendo come gazze, nel monastero di Shao-lin. Il mio nome è Bodhidharma. Quel sandalo mi appartiene.»
Chui attese e accolse quelle visite con profonda reverenza, limitandosi ad ascoltare, ad accompagnare, a offrire. La luna illuminava il suo agire senza scopo alcuno. Le sue vesti davano forma al vento.