Haṃsa Libera Scuola di Hatha Yoga

Amanda Morelli

BODHIDHARMA

3. La silenziosa rivoluzione di Bodhidharma

3.1 Le radici del Ch’an

La tradizione del Buddhismo Ch’an/Zen indica Bodhidharma come il primo Patriarca del Ch’an e il ventottesimo Patriarca del Buddhismo, secondo una linea di trasmissione ininterrotta che viene fatta risalire fino al Buddha in persona. La nuova tradizione, frutto, come vedremo, di secoli di trasformazioni, conflitti tra scuole, volontà d’autonomia e tentativi di affermazione, nonché di adeguamenti al contesto cinese (con la sua eredità culturale, religiosa ed etica), stabiliva così un legame diretto con il fondatore del Buddhismo. Tale legame, sancito simbolicamente dalla trasmissione della veste e della ciotola da un Patriarca al successivo, rappresentava una fonte importante di legittimazione e una garanzia di ortodossia, e comunicava metaforicamente il passaggio diretto ‘da individuo a individuo’ o, meglio ancora, ‘da mente a mente’, della Via per l’illuminazione.

Ci troviamo di fronte a uno dei punti centrali della tradizione Ch’an, caratterizzata da una speciale trasmissione indipendente dalle Scritture. La dottrina, in quanto espressione concettuale, produzione della mente, non è altro che un ostacolo ben camuffato: nessuna filosofia, nessuna ideologia e nessuna religione, intesa come impianto dottrinale coerente, può portarci alla liberazione, poiché, per quanto varie possano essere le idee espresse, in esse non vi è alcunché di reale. In quest’ottica le manifestazioni storiche che il Buddhismo ha assunto nel corso dei secoli (le Scritture e i loro infiniti commentari, le diatribe filosofiche, le istituzioni religiose e il culto delle immagini) non solo non hanno alcuna validità, ma rappresentano una deviazione e uno stravolgimento del messaggio dell’Illuminato. Secondo tale prospettiva, infatti, fu lo stesso Buddha con la sua esperienza a indicare la necessità di spogliarsi delle sovrastrutture implicite in ogni complesso concettuale.

Il Ch’an si propone quindi come un ritorno all’essenziale, al cuore pulsante del Buddhismo, un ritorno al messaggio originario del Buddha, scevro da ogni orpello, ogni vanità, ogni concettualizzazione, ogni ritualismo, in breve un ritorno alla concretezza dell’esperienza.

Ma qual è questo nucleo, questo messaggio originario?

3.1.1 La teoria ‘delle due realtà’ e dell’interdipendenza causale

Il primo importante insegnamento del Buddha è che, nonostante i sensi ci suggeriscano il contrario, la realtà è solo vacuità (sunyata): non sostenuta da alcun nucleo essenziale, in essa non è rintracciabile alcunché di eterno, immutabile e autonomo. Anche all’anima (o all’idea del Sé) viene negato il carattere di entità indipendente ed eterna. Il reale quindi non è altro che un divenire relazionale, un complesso di combinazioni mutevoli: in flusso costante, esso è il risultato sempre temporaneo di una rete di interdipendenze causali.

3.1.2 Il karma e la dottrina dell’‘insorgenza per nesso causale’

La negazione di una realtà eterna e immutabile all’anima (o al Sé) come nucleo essenziale dell’individuo psicofisico (namarupa) non impedì al Buddha di sostenere l’idea di una remunerazione karmica.

La teoria del karma non va intesa come una sorta di legge morale basata su uno schema di premi e punizioni, quanto come la risultanza logica della convinzione che ogni azione genera delle conseguenze (concezione che prende il nome di pratityasamutpada, ‘produzione condizionata’), da cui deriva la negazione di una differenza sostanziale tra agente e azione.
Il Sé (anch’esso aggregato in divenire relazionale) sopravvive alla trasformazione degli elementi ‘visibili’ dell’individuo psicofisico (ossia alla morte del corpo) a causa degli impulsi di volontà espressi durante la vita precedente. Quando è la sete di esistenza a muovere le azioni dell’individuo, queste ultime si trasformano da conseguenze in cause, provocando lo spargimento dei semi karmici da cui germoglieranno (necessariamente) le vite e le ‘sofferenze’ future.

3.1.3 Le Quattro Nobili Verità

L’insegnamento delle Quattro Nobili Verità, espresso per la prima volta dal Buddha nel celebre discorso di Benares, può essere esemplificato da una metafora medica che, per la sua concretezza, si presta bene a interpretare un insegnamento basato sull’osservazione e l’esperienza.

● La Prima Nobile Verità: una diagnosi della condizione esistenziale.
La condizione degli esseri senzienti è caratterizzata da sofferenza: nessuno può negare che essa permei la nascita e la morte, la malattia e la vecchiaia. Il Buddha ci dice però che anche i momenti sereni, felici, in cui ci sentiamo appagati e completi per aver ottenuto ciò che desideravamo, sono fonte di sofferenza. Anch’essi infatti sono caratterizzati da impermanenza e quindi destinati a mutare, spingendoci a lottare nuovamente per ottenerli e di conseguenza, attraverso le nostre azioni volitive, a creare nuovo karma, nuove rinascite e nuova sofferenza.

● La Seconda Nobile Verità: un’eziologia del dolore.
Il Buddhismo è stato giustamente definito come un umanismo spirituale, poiché l’uomo costituisce il centro del suo messaggio di salvezza. Anche la causa della sofferenza non va quindi ricercata in qualcosa di trascendente, assoluto o inconoscibile. Essa risiede nell’uomo stesso e nella sua cieca e affannosa brama di felicità, la quale è destinata in partenza al fallimento in quanto basata sull’ignoranza (avidya) dell’impermanenza del reale.

● La Terza Nobile Verità: una prognosi positiva.
È possibile porre fine alla sofferenza qui e ora. In questa vita, con questo corpo, l’uomo può liberarsi dalla schiavitù della rinascita.

● La Quarta Nobile Verità: una terapia pratica.
L’emancipazione dalla sofferenza è ottenibile percorrendo una ‘via di mezzo’ che, senza cadere né da un lato né dall’altro, si mantenga ugualmente lontana dai condizionamenti del karma, i quali permeano tutto ciò che ci circonda e persino i nostri stessi processi mentali. Questa via pratica, che prende il nome di ‘Ottuplice Sentiero’, è costituita da tecniche volte a purificare e decondizionare le azioni dell’individuo psicofisico attraverso una progressione circolare di comprensione e meditazione. Ancora una volta, la concretezza del messaggio è palese: la parola d’ordine è ‘esperire’.

3.1.4 Le principali correnti del Buddhismo

Il messaggio di salvezza contenuto nelle Quattro Nobili Verità rappresenta il seme comune da cui sono sorte le due principali correnti del Buddhismo: Theravada e Mahayana.

● Theravada. Storicamente parlando è la più antica tra le scuole buddhiste esistenti. Sua caratteristica precipua è il rifiuto di qualunque innovazione di tipo teorico, rifiuto che, nella visione dei suoi apologeti, ne fa l’erede diretto degli insegnamenti del Buddha. Il Theravada si basa su un nucleo ristretto di testi in lingua pali e pone al centro del proprio messaggio di salvezza la figura dell’arhat, ‘colui che pratica la Via per sé’.

● Mahayana. In reazione all’impostazione del Theravada, giudicata troppo ‘conservatrice’, intorno al II secolo a.C. comincia a delinearsi una nuova corrente, conosciuta come Mahayana o Grande Veicolo. Essa pone l’accento sulla ‘natura del Buddha’ e sulla potenzialità di tutti gli esseri viventi di raggiungere la buddhità, aggiungendo quindi una connotazione universalista al messaggio originario. Il Mahayana propone un nuovo modello di compassione incarnato dal bodhisattva, colui che, pur avendo ottenuto l’illuminazione, decide di posporre il nirvana e di restare nel ciclo del samsara per guidare gli altri esseri sul sentiero della liberazione. Egli dichiara: «Innumerevoli sono gli esseri e io faccio voto di salvarli tutti». Il Mahayana, inoltre, riconosce come appartenenti al canone un numero molto più vasto di testi, redatti in epoche differenti.

La corrente Theravada si diffonderà in Asia meridionale (Sri-Lanka, Birmania, Cambogia, Thailandia, Laos), mentre il Grande Veicolo conoscerà un’espansione senza precedenti in Asia orientale, in Cina, in Tibet e, successivamente, in Corea, Vietnam e Giappone.

3.2 Il Buddhismo in Cina

3.2.1 Primo periodo (I-IV secolo d.C.): una fase preparatoria

La leggenda fa iniziare l’avventura del Buddhismo cinese nel I secolo d.C. Essa racconta che, una notte, l’imperatore Ming (dinastia Han) vide in sogno un uomo dorato volare di fronte al palazzo imperiale. Qualcuno suggerì che si trattava di un’apparizione del Buddha, e l’imperatore decise di inviare un gruppo di diciotto emissari verso Ovest, lungo la Via della seta. Questi tornarono con un sutra suddiviso in quarantadue sezioni e un’effige del Buddha, ottenuti a seguito di un incontro con due monaci. Lo stesso imperatore Ming avrebbe inoltre patrocinato la fondazione del primo tempio buddhista cinese, chiamato ‘Tempio del cavallo bianco’.

Al di là della leggenda, esistono numerose fonti che attestano la presenza del Buddhismo in Cina a partire dal I secolo d.C., periodo di intensi scambi commerciali con l’Asia centrale. Da Occidente, attraverso la Via della seta, con i mercanti giunsero in Cina anche i monaci (Seri, Parti o Indosciti) ai quali spetta il merito delle prime traduzioni dei testi buddhisti (Theravada in principio e poi anche Mahayana). Sono attestati inoltre numerosi pellegrinaggi in India di monaci cinesi desiderosi di risalire alle fonti originali della dottrina.
L’attenzione al testo e all’accumulo di fonti scritte è cruciale durante tutto questo primo periodo che può essere definito ‘preparatorio’.

Fin dal suo arrivo in Cina, il Buddhismo si scontra con difficoltà di ordine sia culturale sia linguistico. Del resto, lingua e cultura sono figlie della medesima madre collettiva: se la cultura esprime la visione del mondo (del reale e dell’immaginario) condivisa da una comunità, la lingua si occupa di organizzarla e renderla comunicabile sotto forma di gerarchie di campi semantici.
La difficoltà nel rendere termini come ‘nirvana’, ‘bodhi’ (risveglio), ‘karma’ o ‘anatman’ (non sé) in ideogrammi è conseguenza diretta dell’assoluta estraneità di tali concetti alla cultura cinese dell’epoca. Non stupisce quindi che i primi testi tradotti, focalizzati più sulla pratica meditativa che sulle verità fondamentali del Buddhismo, vengano resi attraverso una terminologia presa in prestito dalla spiritualità taoista, con l’ovvia conseguenza di modificare il messaggio originale.

L’incontro di Buddhismo e Taoismo si traduce nel tempo in un’intensa influenza reciproca. Un esempio è fornito dal Sutra sulla conversione dei barbari (Hua hu jing), testo taoista composto probabilmente verso il 300 d.C., che interpreta il Buddha come una reincarnazione di Lao-tzu. Lo studioso Wu Hung suggerisce che durante l’epoca Han l’immagine popolare del Buddha era quella di una divinità straniera che aveva raggiunto l’illuminazione, che sapeva volare, compiere metamorfosi, e che veniva in aiuto ai fedeli. In quanto tale, egli veniva affiancato ai santi taoisti e associato a culti d’immortalità e riti funerari.

Se il rapporto con il Taoismo si esprime, almeno in un primo momento, non solo in accettazione ma in un processo di sincretizzazione e influenza reciproca, l’incontro con il Confucianesimo richiede al Buddhismo l’avvio di un processo di livellamento ed elaborazione finalizzato a giustificare e rendere intelligibili concetti apertamente opposti ai valori dominanti.

Bisogna ricordare che la società cinese tradizionale non è centrata sull’individuo ma sulla famiglia, che ne costituisce il nucleo elementare. L’armonia della famiglia, fondamento della pace sociale e della preservazione della cultura cinese, si basa sulla pietà filiale. Tale virtù si esprime in una condotta rispettosa e amorevole verso i propri genitori, nell’adempiere i propri compiti al meglio per il bene della famiglia e del suo nome, nell’assicurare un discendente maschio al lignaggio familiare e nel compiere sacrifici per gli antenati. In quest’ottica, le implicazioni della vita monastica (celibato e recisione dei legami con la società e la famiglia) risultavano difficilmente comprensibili e accettabili.

Così i primi promulgatori del Buddhismo in Cina, dopo avere inutilmente tentato di mettere in discussione l’etica dominante, finirono con l’adeguarvisi: misero in evidenza i sutra del canone buddhista che celebrano la pietà filiale; crearono un corpus di Scritture apocrife che enfatizzasse la pietà filiale e attribuisse al Buddha nuovi insegnamenti; sostennero che il concetto di pietà filiale proposto dal Buddhismo fosse superiore a quello del Confucianesimo, riconoscendo il suo fine nella salvezza di tutte le creature (qualcuna delle quali poteva essere un antenato nato in una forma non umana), a differenza della pietà confuciana che si limita a una sola famiglia. La scelta di intraprendere la vita monastica trovava così una giustificazione nella salvezza che, attraverso di essa, veniva assicurata ai propri genitori e ai propri avi.

In tal modo il Buddhismo gettava le basi per l’affermazione nei secoli seguenti, favorito dalla sua capacità di rispondere alle norme, ai costumi e alle condizioni sociopolitiche locali pur rimanendo fedele ai suoi principi di base. Non bisogna dimenticare che fu proprio la corrente Mahayana, con il suo accento sulla compassione incarnata dalla figura del bodhisattva, ad affermarsi in Cina.

A differenza di quanto avvenuto in altri Paesi asiatici, in cui l’arrivo del Buddhismo ha provocato un rinnovamento totale della cultura, in Cina esso ha adattato se stesso al nuovo contesto, senza opporvisi come alternativa assolutamente altra, ma conquistando progressivamente le nicchie rese disponibili dalla crisi o dall’incapacità temporanea delle religioni preesistenti di rispondere a necessità spirituali nuove.
La prima di queste occasioni è rappresentata dalla caduta della dinastia Han, all’inizio del III secolo. Lotte di corte, disordini interni e pressione sulle frontiere occidentali e settentrionali, portano alla divisione del Paese in tre regni rivali. Tali eventi rappresentano l’inizio di una lunga fase d’instabilità e frammentazione politica, aggravata dalle invasioni degli Unni che, nel secondo decennio del IV secolo, impongono la fuga verso Sud della dinastia Jin e la divisione dell’impero in regni settentrionali e regni meridionali.

Ma l’impero cinese non crolla da solo: assieme a esso cade anche la visione del mondo di stampo confuciano imposta sotto gli Han, dinastia che aveva costruito uno Stato imperiale basato su una forte autorità centrale (l’imperatore), assistita da un complesso sistema burocratico. L’ideologia che sosteneva il sistema era quella confuciana, in particolare il principio di li, o ‘condotta appropriata’, secondo il quale ordine, stabilità e armonia nell’impero dipendono dal corretto svolgimento della propria funzione da parte di ogni membro della società.

Il periodo di prolungata crisi politica che separa la caduta della dinastia Han dall’ascesa della dinastia Sui (che riunificherà la Cina nel 589) rappresenta quindi non solo un momento sanguinoso della storia cinese, ma anche un periodo di crisi dei sistemi di pensiero dominanti. Il Buddhismo, con la sua visione assolutamente nuova e con il suo messaggio universalista, trae giovamento da tale crisi: sebbene con modalità e per ragioni diverse, esso si impone sia a Sud, dove prende una coloritura più intellettuale e di stampo esegetico, diffondendosi prevalentemente presso le classi letterate e a corte, sia a Nord, dove si concentra sulla pratica devozionale e meditativa e diviene religione di Stato.

Le dinastie straniere che si succedono nei regni settentrionali incoraggiano fortemente la diffusione del Buddhismo: anch’esso di origine straniera, fornisce un fondamento spirituale e una legittimazione politica indipendente dai valori cinesi tradizionali. I monaci, che al Sud mantengono un’autonomia dal potere imperiale fortemente criticata dagli ambienti confuciani, si mettono qui al servizio dei sovrani, divenendo consiglieri apprezzati per le loro capacità taumaturgiche e divinatorie.
Nonostante la frammentazione politica dell’impero porti allo sviluppo separato di un Buddhismo settentrionale e di uno meridionale, i contatti tra Nord e Sud vengono mantenuti grazie ad alcuni importanti monaci che, attraverso imponenti opere di traduzione, conquistano una reputazione tale da avere la possibilità di muoversi liberamente tra regni rivali. Tra questi vale la pena citare Tao-sheng (360 circa-434) il quale, dopo numerosi studi e viaggi tra regni meridionali e settentrionali, si concentra sul Sutra del nirvana, divenendo in Cina il promotore della scuola che da esso prende nome. Al di là delle particolarità dottrinali di tale scuola, Tao-sheng fu il primo ad affermare che l’illuminazione si ottiene in maniera subitanea, preannunciando il dibattito tra gradualisti e subitisti che caratterizzerà per secoli il Buddhismo Ch’an/Zen.

3.2.2 Secondo periodo (V-VI secolo): l’indianizzazione del Buddhismo cinese

La prima fase di diffusione del Buddhismo in Cina si è dunque contraddistinta per l’attenzione rivolta alla comprensibilità dei testi tradotti, comprensibilità ottenuta attraverso la trasposizione del messaggio originario in termini presi a prestito dalla spiritualità taoista (e più raramente dal Confucianesimo). Tale metodologia, conosciuta con il nome di ‘geyi’, consisteva nel ‘far coincidere il senso’ o ‘appaiare le nozioni’ buddhiste con nozioni cinesi preesistenti. Così ‘bodhi’ veniva reso con ‘tao’ e ‘nirvana’ diveniva ‘wu-wei’ (non agire). Questo periodo di implantazione del Buddhismo, durante il quale esso si inserisce in un dibattito filosofico formulato in termini completamente cinesi, termina all’inizio del V secolo con l’arrivo del celebre traduttore di origini indiane Kumarajiva.

Nato a Kucha, una delle principali tappe sulla Via della seta, dall’unione tra la figlia del re locale e un monaco buddhista indiano, riceve fin dalla prima infanzia una formazione vasta e approfondita. Alla padronanza dei testi buddhisti di tradizione Mahayana come Theravada, associa lo studio dell’Hinduismo, di opere di astronomia e scienza, e la conoscenza di numerose lingue, tra cui il cinese e il sanscrito.
Giunto in Cina nel 402 d.C. intraprende, con l’aiuto di un migliaio di monaci, una colossale opera di traduzione: tra trentacinque e settantaquattro sutra in soli dodici anni. La sua opera rivoluziona i modelli esistenti, dando inizio a una nuova fase in cui le specificità del Buddhismo indiano trovano per la prima volta un vero riconoscimento in Cina. Senza più tentare di trasporre i concetti in termini familiari, vengono ripresi e ritradotti direttamente dal sanscrito un gran numero di testi di tradizione mahayana, e altri ancora fanno il loro ingresso in Cina, assieme ad alcune scuole buddhiste propriamente indiane, come la Scuola Madhyamika e la Yogacara, che, in terra cinese, prenderà il nome di Faxiang.

Durante il V e il VI secolo, parallelamente a questa ‘rivoluzione testuale’, si affermano le differenze tra Buddhismo settentrionale e meridionale sorte nel periodo precedente.
A Nord il Buddhismo rimane religione di Stato sotto tutte le dinastie straniere che si succedono, a esclusione di un brevissimo periodo in cui il Taoismo vi si sostituisce1. I monaci sono funzionari di Stato e il Buddhismo, confinato fino al periodo precedente a cerchie ristrette, conosce una forte diffusione popolare.
È la visione mahayanista, nella sua accezione più devozionale, a imporsi, conquistando un pubblico prevalentemente laico, alla ricerca non tanto del nirvana quanto di una vita futura migliore. Si diffonde così il culto di bodhisattva e santi buddhisti, modelli a un tempo di compassione, carità e pietà filiale.

Le dinastie cinesi meridionali continuano anch’esse sul cammino intrapreso nel periodo precedente: il Buddhismo rimane legato all’élite sociale e intellettuale, ed è valorizzato a corte. Tra il V e il VI secolo, il numero dei templi raddoppia e quello dei monaci triplica grazie anche al sostegno imperiale, che raggiunge il suo apogeo sotto l’imperatore Wu della dinastia Liang, di cui abbiamo descritto il celebre incontro con Bodhidharma.

Il sostegno attivo della maggior parte dei regimi, settentrionali e meridionali, giova notevolmente alla diffusione del Buddhismo e al suo rafforzamento in quanto istituzione. Donazioni e mecenatismo fanno fiorire l’arte buddhista cinese e portano alla nascita e allo sviluppo di importanti centri monastici, che assumono con il tempo anche funzioni secolari, trasformandosi in istituzioni ricche e ben organizzate.
Non stupisce quindi che il Buddhismo sia divenuto presto oggetto di aspre e aperte critiche, non solo da parte degli intellettuali confuciani ma anche di diversi movimenti e sette taoiste, in opposizione alla volontà di sincretismo del periodo precedente. Le reazioni ostili, che si ripresenteranno in forme più o meno violente anche nei secoli seguenti, sono dettate da motivazioni teologiche, xenofobe (in quanto il Buddhismo è ancora percepito come religione straniera), economiche e anticlericali.

3.2.3 Le dinastie Sui e T’ang: il periodo della maturità

Con la riunificazione del Paese sotto la dinastia Sui e soprattutto durante i tre secoli della forte e influente dinastia T’ang, il Buddhismo cinese conosce la sua fase di maggior splendore. Diffuso ormai in tutte le classi sociali, mantiene, a parte qualche rara eccezione, il sostegno del potere imperiale, la cui volontà centralizzatrice si traduce però nell’accrescimento del controllo statale sull’istituzione monacale: le ordinazioni, la costruzione di templi e addirittura l’inclusione di nuovi testi nel canone buddhista divengono soggette alle decisioni del potere imperiale, che in cambio concede al clero benefici economici e finanzia opere grandiose.

In questa fase, al favore istituzionale e alla prosperità economica si aggiungono una rinnovata vitalità religiosa e una fioritura dottrinale senza precedenti. Il periodo della cosiddetta ‘indianizzazione’ del Buddhismo cinese, durante il quale la correttezza dell’esegesi e la fedeltà alle scuole indiane erano state preponderanti, si chiude, lasciando spazio a una nuova sinizzazione; diversa dalla prima in quanto poggiante su basi solide, essa segna la nascita di scuole e interpretazioni propriamente cinesi che, per la prima volta dopo secoli di traduzioni, tornano a concentrarsi sul fine ultimo del messaggio del Buddha: la salvezza.
Bisogna ricordare che il Buddhismo, a differenza del Cristianesimo, non ha mai portato alla creazione di una dottrina dogmatica, né di una Chiesa unificata e centralizzata. Con il suo fine eminentemente pratico, esso ha dato vita invece a un insieme di comunità indipendenti, ciascuna delle quali ha interpretato e interpreta la Verità secondo un punto di vista proprio. La diversità che caratterizza il reale nel suo complesso, così come gli individui che ne fanno parte, si riflette infatti in differenti capacità di comprensione, alle quali risponde una molteplicità di approcci e metodi. La nozione di ‘upaya’ si riferisce proprio al concetto, nato con il Grande Veicolo, secondo cui ognuno deve seguire i metodi e le tecniche che più si confanno alla sua natura, enfatizzando così la superiorità del fine (la salvezza) sul mezzo. Il messaggio si adegua al pubblico cui è rivolto, ed è in questo senso che vengono interpretati i diversi insegnamenti del Buddha e le contraddizioni, a questo punto solo apparenti, riscontrabili nelle Scritture: nessuna scuola detiene lo scettro dell’ortodossia e ogni percorso, se conduce al fine ultimo, ha la sua dignità e la sua ragion d’essere.

Anche in Cina, dove la complessità dell’impianto testuale buddhista venne aggravata dall’arrivo, senza alcuna coerenza temporale, di una massa di testi redatti in epoche differenti e spesso contrastanti tra loro, si diffonde la nozione di upaya. Le numerose scuole che nascono in questo periodo fanno riferimento a questo concetto (fangbian) e, organizzando ciascuna una propria gerarchia scritturale (panjiao), interpretano gli insegnamenti delle altre scuole come rivelazioni parziali adatte ad altri gradi di comprensione. A questo proposito è utile soffermarsi sul termine cinese zong, reso comunemente in italiano con ‘scuola’. La portata semantica di tale termine è molto più vasta del corrispettivo italiano, poiché indica, a seconda del contesto, una specifica dottrina, una tradizione esegetica, l’insegnamento di un testo canonico e, infine, un gruppo religioso dai medesimi ideali, principi religiosi e orientazioni dottrinali o esegetiche.
Questi gruppi, queste ‘scuole’, non costituiscono istituzioni separate, ma sono ugualmente inclusi nello stesso ordine monastico e condividono la medesima liturgia (a differenza di quanto avvenuto in Giappone, dove le scuole di derivazione cinese si sono sviluppate in maniera indipendente l’una dall’altra).
Alla ‘fluidità formale’ si associa la libertà di scelta dei monaci che possono passare da un monastero o un orientamento all’altro, sperimentando così pratiche differenti in funzione della propria ‘costituzione spirituale’.

A parte la già citata Scuola Faxiang e la corrente del Buddhismo tantrico, entrambe di derivazione indiana, le scuole che nascono in questo periodo hanno ciascuna una tradizione interamente cinese, non rifacendosi direttamente ad alcuna controparte indiana. Tra di esse possiamo ricordare le Scuole T’ien t’ai e Huayan, correnti speculative privilegianti l’esegesi, la Scuola della terra pura, filone devozionale basato sul culto del Buddha Amithaba2, e naturalmente la Scuola Ch’an, spesso indicata come l’apogeo del Buddhismo cinese.

Note
1. Durante questo breve periodo viene promulgato un editto imperiale che ordina di distruggere sutra, stupa e pitture buddhiste e di uccidere tutti i monaci (446 d.C).
2. Il culto del Buddha Amithaba è originario dell’India ma si sviluppa maggiormente in Cina. Per questa ragione lo includiamo tra le correnti propriamente cinesi.