Haṃsa Libera Scuola di Hatha Yoga

Amanda Morelli

BODHIDHARMA

1.1 Bodhidharma e le origini del Ch’an

Così avrebbe potuto suonare il racconto della storia di Bodhidharma, il primo Patriarca del Buddhismo Ch’an.
La tradizione vuole che, all’inizio del VI secolo, egli sia partito dall’India per diffondere in Cina il messaggio originario del Buddha, che fino ad allora era stato colto in maniera superficiale. Il suo compito era quello di dare il via a una silenziosa guerra spirituale che minasse le basi degli approcci dominanti: intellettualismo e speculazioni filosofiche da un lato, ritualismi e pratiche devozionali dall’altro, tutto ciò veniva negato da Bodhidharma come superfluo, inutile, illusorio. Il suo arrivo è associato quindi a una profonda rivoluzione del pensiero e della pratica buddhista, destinata a metter radici e a svilupparsi non solo in Cina, ma anche in gran parte dell’Estremo Oriente, Giappone in testa, dove il Ch’an prenderà il nome di Zen, termine con il quale è più comunemente conosciuto in Occidente.

Bodhidharma è quindi a un tempo erede e messaggero di una tradizione religiosa secolare, il Buddhismo, e fondatore di una nuova via per la salvezza, il Ch’an.

È interessante notare come la leggenda non faccia alcun riferimento a eventuali allievi cui Bodhidharma avrebbe insegnato la Via prima della sua partenza per la Cina. Del resto, il passaggio della veste e della ciotola, simboli della trasmissione del Dharma da maestro a discepolo, non ammette alternative alla linearità: solo un individuo viene scelto dal maestro come depositario del messaggio del Buddha. Conseguenza della scelta di Bodhidharma di nominare Hui-k’o suo successore è quindi il ‘trasferimento’ della linea di successione dall’India alla Cina.

Come vedremo in maniera più approfondita nel capitolo ‘La silenziosa rivoluzione di Bodhidharma’, durante i primi secoli della sua storia il Buddhismo cinese è stato caratterizzato da una sorta di complesso di inferiorità nei confronti della sua madre indiana, alla quale tentava di somigliare il più possibile attraverso una grande attenzione all’appropriatezza dell’esegesi e della traduzione. Il Ch’an (così come altre scuole nate nel medesimo periodo) nasce invece come scuola buddhista propriamente cinese e afferma la propria indipendenza e unicità non solo attraverso la negazione del valore delle Scritture, ma soprattutto presentandosi come la vera depositaria della mente del Buddha. La trasmissione da individuo a individuo lungo la linea di successione rappresenta dunque la sua garanzia di autenticità.

1.2 L’influsso socioculturale sull’autobiografia religiosa e individuale

Come rivela l’esempio della Linea dei Patriarchi, il modo in cui la tradizione trasmette la propria storia non è mai neutro, né tanto meno casuale. Nomi, luoghi, eventi, ogni aspetto dell’‘autobiografia’ di una tradizione religiosa è portatore di significato e viene organizzato in modo da fornire un’immagine coerente del passato che illumini, giustifichi e spieghi il presente. Tale significato non deriva dagli eventi in sé, dagli episodi di cui la narrazione si compone, poiché essi non sono più nient’altro che contenitori: la ‘decisione’ di cosa inserirvi è una scelta sempre culturale e quindi convenzionale.

Pensiamo a noi stessi, al processo tramite cui, a partire dalla nostra infanzia, la nostra identità è stata forgiata, e al modo in cui percepiamo e mostriamo agli altri la nostra individualità. Fin dalla nascita, il bambino viene inserito in un complesso socioculturale preciso, caratterizzato da un insieme più o meno coerente di convenzioni cognitive, linguistiche, comportamentali ed etiche che ne fondano l’esistenza in quanto comunità.
Per la maggioranza dei membri di questa collettività, ossia per tutti coloro che non ne abitano i confini, tali convenzioni costituiscono la sola e indiscussa base della propria identità ed è su di esse che si fonda la costruzione dell’individuo in quanto membro della società.
Secondo queste norme condivise, al bambino viene insegnato come chiamare le cose che vede e le emozioni che prova, come distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, come comportarsi, come pensare, come e che cosa sentire. Inoltre, è grazie a queste norme che egli può relazionarsi e comunicare con gli altri membri della comunità cui appartiene.

In altre parole, ogni aspetto della nostra vita è guidato, in maniera più o meno evidente o conscia, dalle norme della società (o delle società) in cui siamo cresciuti e in cui viviamo. Come potrebbe essere altrimenti? Esse ci influenzano sia se ci adeguiamo sia se ci ribelliamo: anche la rivoluzione della norma, in quanto sua negazione, si costruisce partendo da essa e ne assume inevitabilmente il ruolo in caso di successo.
Pensiamo alle conseguenze del nostro sistema scolastico: l’apprendimento è basato sulla lettura piuttosto che sull’ascolto, sulla dimostrazione razionale e sull’accumulo di informazioni piuttosto che sull’intuizione e sullo sviluppo delle capacità personali, sulla competizione piuttosto che sulla condivisione. Tutto ciò ha inevitabilmente delle conseguenze profonde sulla costituzione della nostra personalità, la quale, nonostante ci ostiniamo a vederci come unità uniche è irripetibili, tanto individuale non è.
Insomma, l’habitat socioculturale influenza non solo la nostra percezione del mondo ma anche la percezione di noi stessi e della nostra vita, i nostri sogni e le nostre speranze, nonché la visione del nostro passato. L’immagine che abbiamo di noi stessi è frutto dell’educazione (in senso lato) che abbiamo ricevuto e delle strutture del pensiero, dei valori e degli ideali che essa ci ha trasmesso.

1.2.1 L’essenza e l’immagine

Nella maggior parte dei casi, l’immagine che abbiamo di noi stessi non è altro che una somma dei nostri ruoli e l’Io viene descritto in termini fattuali più che essenziali. Pensiamo alle prime parole scambiate con una persona appena conosciuta. Prescindendo dal motivo che ci spinge a parlarle, la conversazione inizierà quasi inevitabilmente con la domanda: «Che cosa fai nella vita?»; per poi proseguire con un elenco delle cose fatte e dei progetti per l’avvenire: ciò che facciamo e la nostra storia ci descrivono molto meglio di ciò che siamo. Fin da piccoli ci insegnano a identificarci con questo Io convenzionale (il quale viene descritto innanzi tutto dai parenti prossimi, che ci influenzano in maniera spesso indelebile con le loro proiezioni) sezionando durante tutto il corso della nostra vita alcuni eventi come significativi. Saranno proprio tali eventi a costituire la nostra storia, storia sulla quale poggiano le fondamenta di questo illusorio rifugio chiamato ‘ego’.

Memoria individuale e memoria collettiva agiscono dunque in modo simile: entrambe estrapolano dal flusso del divenire una serie di eventi, agendo secondo una dinamica di selezione. Tale cernita non è affatto neutra e comporta la messa in atto di una trasformazione dell’evento stesso (sia esso reale o fittizio) che da dato sensibile diviene medium di un significato e di un messaggio che lo trascendono. Tale contenuto significante non dipende né deriva ‘naturalmente’ dall’evento in sé, ma è sempre il frutto di un’attribuzione fatta sulla base di modelli culturali.

L’astrazione che caratterizza le modalità di funzionamento della memoria implica un notevole vantaggio comunicativo: grazie al processo di significazione cui si è appena fatto riferimento, le serie di immagini che costituiscono le storie personali (e collettive) divengono portatrici di un complesso di concetti e valori che le trascende. In questo modo il contenitore (l’immagine) può essere usato in veste del contenuto (i concetti), semplificando il processo di trasmissione. La condivisione, da parte degli interlocutori, dei modelli culturali su cui si basa l’assegnazione di significati rappresenta naturalmente una condizione imprescindibile (così come la comunicazione verbale si realizza solo quando i dialoganti sono d’accordo sul chiamare il cane ‘cane’, l’albero ‘albero’ e così via).

1.2.2 Autobiografia religiosa: tre premesse

Quanto detto rappresenta una premessa importante per ciò su cui ci soffermeremo nelle pagine che seguono, per tre motivi:

● Il riconoscimento della natura convenzionale della comunicazione ci mette in guardia sulle problematiche implicite nel processo di traduzione di una cultura nella lingua e nelle categorie di pensiero di un’altra.

● Le modalità di azione della memoria, individuale e collettiva, ci ricordano di leggere tra le righe dei nostri racconti, consci del processo di astrazione cui sono stati sottoposti gli eventi che ne costituiscono la struttura. È opportuno ricordare che a questo livello dell’analisi il dato sensibile non rappresenta altro che lo sfondo e che quindi l’assenza di particolari o di coerenza cronologica è del tutto insignificante. Allo stesso modo in cui, parlando con qualcuno della nostra infanzia, gli racconteremo per esempio che da bambini passavamo intere estati tra il sole e le pinete della costa toscana, senza specificare che età avevamo, in che giorno arrivavamo e così via.

● Il processo di astrazione, che trasforma una serie di eventi selezionati in complessi simbolici comunicanti l’identità di un individuo o di un gruppo religioso (o sociale, politico eccetera), porta con sé l’inevitabile ambiguità che caratterizza il simbolo, il cui significato è immediatamente chiaro per coloro che si trovano entro la cerchia di rappresentazioni convenzionali di cui esso fa parte, ma non per chi è a questa cerchia estraneo. Tale ambiguità genera l’eterna indecisione tra guardare il vaso che ci sta di fronte e guardare l’acqua che qualcuno vi ha messo dentro.

L’interpretazione dei racconti che una scuola o tradizione religiosa scrive su di sé deve tenere presenti tali premesse, le quali non sono una garanzia di correttezza interpretativa ma ci mantengono aperti al tanto bistrattato dubbio.