Haṃsa Libera Scuola di Hatha Yoga

Amanda Morelli

BODHIDHARMA

Infine giunse il mattino. La quotidianità non sembrò curarsi delle meraviglie della notte e riprese il suo corso. L’abate parve fare lo stesso.
«Saggio abate» disse un giovane monaco di nome Shuik’o, parlando a nome di tutti «questa notte il nostro sonno è stato confuso, la curiosità ci ha impedito di riposare. I visitatori giunti da Occidente non hanno ancora un volto e solo uno di loro porta un nome. Ma questo nome è quello del Patriarca Bodhidharma! Tutto questo rende i nostri gesti goffi e pesanti. Saggio abate, te ne preghiamo, alleggerisci il nostro agire e il nostro pensare, svelaci ciò che le montagne e le nuvole già sanno!»
«Caro Shui-k’o, come ti direbbero le montagne e le nuvole che nomini senza attenzione, coloro che sanno non parlano; e coloro che parlano non sanno. Andate a lavorare e non curatevi della vostra mente.»
Questo non bastò ad allontanare la foschia che confondeva le menti dei monaci, ma, senza discutere, ognuno si avviò verso le proprie attività.

L’abate convocò allora i tre grandi esperti di Scritture del monastero: l’archivio venne aperto, le fonti srotolate, le vite del primo Patriarca ricercate nei paesaggi a due tinte delle Scritture. I resoconti del monaco Chui guidavano gli esperti alla ricerca del vero Bodhidharma. Quale di quei racconti di vita e di viaggio sarebbe stato confermato dagli ideogrammi del passato? Chui, che li aveva accolti e ascoltati tutti, ebbe un’intuizione, ma non parlò, lasciando che la ricerca seguisse il suo corso.
Infine, quando gli esperti furono pronti, l’abate mandò a chiamare i nove Bodhidharma.
A ognuno di essi fu chiesto di raccontare nuovamente la propria storia.
Il primo pronunciò queste parole: «Il mio nome è Bodhidharma. Una volta sono nato in terra di Persia e ho voluto vedere con questi occhi il mondo dell’Illuminato. Giunto in Cina all’età di 150 anni, visitai la vecchia capitale Lo-yang e ammirai l’antico splendore di templi e monasteri».
Il secondo disse: «Il mio nome è Bodhidharma. Fui terzo figlio di un re brahmino del Sud dell’India, ma il mio destino era diffondere il messaggio del Buddha. Viaggiai allora verso Oriente fino a giungere in Cina, dove incontrai forti opposizioni. Solo due uomini mi seguirono e divennero miei discepoli. I loro nomi erano Tao-yü e Hui-k’o».
Il terzo riprese in parte le sue parole: «Il mio nome è Bodhidharma. Fui terzo figlio di un re brahmino del Sud dell’India, ma il mio destino era diffondere il messaggio del Buddha». Poi aggiunse: «Viaggiai allora verso Oriente fino alla regione di Nan-yüeh. Percorsi la Cina da Sud verso Nord, fino al regno di Wei. Solo due uomini vollero divenire miei discepoli e ascoltare per quattro anni i miei insegnamenti. I loro nomi erano Tao-yü e Hui-k’o. Quest’ultimo venne attaccato dai banditi e perse un braccio».
Il quarto ripeté anch’egli parte del racconto già pronunciato: «Il mio nome è Bodhidharma. Fui terzo figlio di un re brahmino del Sud dell’India, ma il mio destino era diffondere il messaggio del Buddha. Viaggiai allora verso Oriente fino alla regione di Nan-yüeh. Percorsi la Cina da Sud verso Nord, fino al regno di Wei. Giunto al monte Sung decisi di fermarmi vicino al monastero di Shao-lin e accolsi il mio primo discepolo cinese, Hui-k’o. Per dimostrarmi la sua seria volontà di seguire il Dharma, Hui-k’o si tagliò un braccio. Sei volte tentarono di avvelenarmi e quando infine morii, mi incamminai verso l’India. Lungo la strada incontrai un monaco di nome Sung Yün».
Poi parlò il quinto: «Il mio nome è Bodhidharma. Fui terzo figlio di un re brahmino del Sud dell’India, ma il mio destino era diffondere il messaggio del Buddha. Viaggiai allora verso Oriente fino alla regione di Nanyüeh. Percorsi la Cina da Sud verso Nord, fino al regno di Wei. Solo due uomini vollero divenire miei discepoli e ascoltare per quattro anni gli insegnamenti del Lankavatara sutra, tradotto da Gunabhadra, il primo Patriarca. I loro nomi erano Tao-yü e Hui-k’o. Quest’ultimo divenne il terzo Patriarca».
Il sesto raccontò: «Il mio nome è Bodhidharma. Giunto in Cina per trasmettere il Dharma sono stato accolto dall’imperatore Wu della dinastia Liang, il quale però non era disposto ad ascoltare il mio insegnamento poiché il suo ego era gonfio di potere. Decisi così di partire. Giunsi nella Cina dei Wei dove incontrai Hui-k’o che, avendomi dato prova della sua volontà tagliandosi un braccio, divenne mio discepolo. A lui conferii la veste e la ciotola ed egli divenne il secondo Patriarca».
Il settimo disse: «Il mio nome è Dharmatrata o Bodhidharma. Fui terzo figlio di un brahmino del Sud dell’India ma il mio destino era diffondere il messaggio del Buddha. Inviai due discepoli in Cina per diffondere l’insegnamento del risveglio subitaneo, ma essi non vennero ascoltati. Decisi allora, con il sostegno e l’aiuto di mio padre, di partire io stesso. Il mio nome giunse in Cina prima di me. Al mio arrivo, il 31 ottobre dell’anno 527, venni accolto dal prefetto imperiale di Kuang-chou, Hsiao Ang. Poi mi recai dall’imperatore Wu della dinastia Liang. Egli si diceva ansioso di ascoltare i miei insegnamenti, ma non comprese le mie parole. Partii allora verso Nord. Trascorsi i nove anni successivi in meditazione ed ebbi tre discepoli: Tsungchih, che ricevette la mia carne; Tao-yü, che ricevette le mie ossa; e Hui-k’o, che ricevette il mio midollo. Nel momento della trasmissione della veste e della ciotola recitai i seguenti versi.

Giunsi in questa terra
per trasmettere l’insegnamento e salvare i delusi.
Un fiore si apre con cinque petali
e il frutto ne sorge spontaneo.

Venni avvelenato sei volte da Bodhiruci e decisi di morire il 6 gennaio dell’anno 537. Il mio corpo venne bruciato vicino a Lo-yang e tre anni dopo, mentre mi trovavo sulla via del ritorno verso l’India, incontrai Sung Yün sui monti del Pamir. Lasciai nella mia tomba un solo sandalo ed esso testimoniò la verità delle sue parole. Quello stesso sandalo venne conservato a lungo al monastero di Shao-lin, prima che voi lo rubaste nel 727».
L’ottavo monaco pronunciò solo poche parole: «Il mio nome è Bodhidharma. Fui tutti loro a un tempo. Nel XIII secolo le mie reliquie verranno venerate in Giappone dalla scuola che prende il nome di Daruma».
E così pure il nono: «Il mio nome è Bodhidharma. Fui tutti loro a un tempo. Nel XVII secolo scriverò un testo di arti marziali che verrà usato nel passato e nel futuro dai monaci del monastero di Shao-lin, cui insegnai le basi della pratica del Kung Fu durante il mio viaggio in Cina nel VI secolo».

Seguì un rispettoso silenzio.

Inchinandosi davanti agli esperti, l’abate chiese loro di pronunciare il verdetto. Ma questi sembravano non poter decidere.
«Saggio abate» disse Fanxiu, il più anziano «ognuna delle prime sette versioni è confermata da almeno una fonte: il Lo-yang ch’ieh-lan chi scritto da Yang Hsüanchih nel 547 riporta la prima versione; la prefazione al Lungo Rotolo scritta nel 577 da T’an-Lin, discepolo di Hui-k’o, conferma la seconda; il Hsü Kao-seng chuan di Tao-hsüan scritto nel 645 contiene tutti i particolari della terza; il Ch’uan fa-pao chi scritto tra il 710 e il 713 riporta la quarta versione; il Leng-ch’ieh shih-tzu chi di Ching-chüeh scritto qualche anno dopo afferma la veridicità della quinta; il P’u-t’i ta-mo Nan-tsung ting shih-fei lun scritto nel 732 da Tu-ku P’ei conferma la sesta; infine il Pao-lin chuan del 796 riporta tutti i particolari, date comprese, del settimo racconto. Sugli ultimi due non possiamo pronunciarci poiché si riferiscono ai tempi che verranno».

L’abate era scosso. Si sedette.
La sua mente vagava nella casa dell’indecisione, abbagliata dai suoi inquilini. Parole e pensieri lo circondavano, avvicinandosi e allontanandosi, prendendosi per mano e poi lasciandosi, volteggiando in una danza rapida e fremente cui egli non poteva sottrarsi.
Non sapeva che cosa fare, non aveva nulla da dire. Sapeva solo che quel sandalo, unica reliquia del primo Patriarca, rappresentava la ricchezza del suo monastero e che senza di esso la sua sorte sarebbe stata dettata dai favori o sfavori imperiali. Ma ora, vista la mancanza di conferme assolute da parte dei testi, la decisione sul da farsi spettava a lui solo…
Nel frattempo i tre esperti si erano accomiatati. Solo il saggio Chui era rimasto seduto a fianco dell’abate. Davanti a loro, su un tessuto di seta rossa, era poggiato l’ambito sandalo. Di fronte, i nove Bodhidharma attendevano in silenzio.

Poi, per un lungo istante, nessuno parlò, nessuno si mosse, nessuno emise il benché minimo rumore. Sembrava che il tempo si fosse fermato, perché anche dall’esterno non arrivava alcun suono. Non un fruscio, o uno scorrere d’acqua, o il movimento di un animale.
Niente.
Forse la Grande Madre attendeva anch’essa con il fiato sospeso.
E i monaci? Dov’erano? Il sole stava calando ed essi avrebbero dovuto essere già rientrati dal lavoro nei campi e dalla questua. L’aria del monastero avrebbe dovuto essere già satura dei loro nuovi racconti, delle loro risate, dei loro dubbi. Invece i corridoi erano vuoti, le sale ancora chiuse, e dei monaci non v’era traccia.

Chui osservava il silenzio intorno a sé. Adorava quei momenti, quei rari istanti di eternità in cui la ruota della vita si arrestava di colpo, senza alcun segnale. Non rallentava, sottolineava lui parlandone con altri monaci, si fermava e basta. Era come passare in un battito di ciglia dalla circonferenza al centro immobile della ruota, quel punto privo di dimensioni da cui tutti i fenomeni traggono origine. Chui si immaginava di poter risiedere in quel nucleo inconoscibile ed eterno, riuscendo così a cancellare i tratti del proprio volto e le pieghe delle proprie vesti, e con essi i ricordi di sua madre e della sua infanzia, gli insegnamenti e le percosse di suo padre, le sedute di meditazione e le regole del monastero. In quei momenti sapeva senza bisogno di pensare, vedeva senza bisogno di aprire gli occhi.
Poi quell’istante, seppur eterno, semplicemente finì.
Il sole riprese a scendere verso la bocca spalancata delle valli occidentali, le montagne ricominciarono a respirare, e il saggio Chui tornò a sedersi accanto all’abate. Il suo sguardo si posò sul sandalo che gli stava di fronte ed egli si ritrovò improvvisamente in mezzo a una folla di pellegrini che si accalcavano intorno a una piccola teca. Nessuno parlava eppure Chui poteva sentire con chiarezza ciò che quella misera umanità ripeteva nella propria testa: vuote preghiere, richieste di salvezza, suppliche e pensieri egoistici. In quei pensieri vi era tanto rumore ma nessun messaggio.

L’abate si trovava anch’egli in quella sala gremita di pellegrini, ma non si curava delle loro vuote e illusorie richieste. Pensava piuttosto a cosa sarebbe stato del monastero senza quelle visite, a come sarebbe cambiata la loro vita senza quel sandalo. Nessuno dei nove uomini che si erano presentati la notte precedente aveva diritto a esso più degli altri, poiché i testi non avevano potuto indicare nulla di falso e nulla di univocamente vero nei loro racconti. Non esisteva un solo Bodhidharma: non vi era dunque scelta possibile, per cui il sandalo sarebbe dovuto rimanere al monastero.
La decisione finale, con la sua utile giustificazione, era stata presa. Eppure l’abate non si decideva a confermare tali pensieri con le parole o con i fatti.

Il saggio Chui percepiva la risoluzione dell’abate, così come sentiva il suo dubbio nel darle voce, e mentre ascoltava i pensieri di potere e gloria che dietro a essa si celavano, comprese che la molteplicità con cui il primo Patriarca si era presentato ai loro occhi non era altro che un upaya, un ‘espediente’, con il quale egli stava mettendo alla prova i suoi presunti messaggeri.
Ricordò allora il secondo principio del Ch’an: indipendenza dalle Scritture e dalla lettera. Ricordò inoltre le parole di cui il primo Patriarca aveva fatto dono all’imperatore Wu senza che questi ne sapesse cogliere la preziosità: nelle Scritture non vi è nulla di sacro, e la verità non va ricercata in esse. Poco più di due secoli erano passati dalla morte del grande maestro e i suoi insegnamenti erano già stati dimenticati.
Egli aveva combattuto contro le falsità della metafisica e gli occhiali colorati della devozione, riportando il Buddhismo al suo messaggio originario, quello del Buddha; dopo la sua morte, anzi, la sua partenza, i suoi successori avevano lottato per affermare la sua visione e le pratiche da lui apprese, finché con il tempo il Ch’an aveva conquistato il cuore del popolo cinese. Ma nello stesso tempo, più la sua popolarità aumentava più esso si scordava delle sue origini: così, mentre esaltava il suo fondatore, dimenticava progressivamente il significato del suo celebre «Non lo so». E così Bodhidharma era diventato un santo, e il suo sandalo una santa reliquia. Nuovo spazio era stato lasciato al cieco abbandono delle menti, ed egli era divenuto una di quelle entità trascendenti ma compassionevoli, cui si affidano passivamente gli uomini senza coraggio.
Mentre Chui così rifletteva, gli occhi fissi sul sandalo, l’abate continuava a girare nella propria mente e il cielo si infiammava di rosse pennellate. Ancora qualche tempo e sarebbe venuta la notte, con le sue stelle e la sua regina.

Poi, d’un tratto, Chui alzò lo sguardo, il suo viso si colorò di fuoco.
E finalmente vide. Vide quell’unità che la sua mente già aveva colto, vide i nove Bodhidharma divenire uno solo, vide i loro volti fondersi, le loro vesti sfarsi. Dalla sintesi sorse un nuovo Bodhidharma, diverso da tutti gli altri e più simile a un dipinto a inchiostro che a un uomo in carne e ossa: l’immagine era rarefatta, vuota, eppure l’essenziale era stato tracciato con linee forti e decise. Solo gli occhi erano gli stessi e in essi Chui poté riconoscere le parole di Sung Yün che la tradizione aveva reso immortali: «Erano occhi che non conoscevano né il dubbio né l’esitazione, occhi che vedevano tutto senza soffermarsi su niente, occhi immobili, occhi sempre aperti».

Di tutto ciò l’abate non aveva avuto percezione; per lui nulla era cambiato: i nove Bodhidharma erano ancora seduti di fronte a lui, il suo caro Chui stava al suo fianco e tutti aspettavano il suo verdetto. Quell’immagine gli si presentava allo sguardo con una staticità assolutamente innaturale, ma egli non poteva percepirla poiché era la sua stessa mente ad averla creata e ora essa si era imposta come reale: il quadro aveva sostituito il paesaggio, e l’abate vagava bendato nelle sue vallate a due dimensioni. Infine, preso coraggio, finalmente convinto della sua scelta, pronunciò parole che nessuno dei presenti udì, e vide uscire dalla stanza i nove uomini che dicevano di essere il primo Patriarca. Il suo sandalo era salvo e così le casse del monastero.

Ma questo non è ciò che accadde, anche se solo il saggio Chui se ne rese conto. Bodhidharma si alzò, prese il suo sandalo e, senza dire una parola, uscì dalla stanza.
Il primo Patriarca aveva riaffermato i suoi insegnamenti, il suo messaggio di libertà, semplicità e salvezza, ma solo un uomo aveva saputo guardare oltre l’apparenza, solo un uomo aveva spezzato i legami con le visioni convenzionali, riconoscendo l’artificiosità e l’affettazione che, protette da un esercito di belle parole, regnavano ancora nel cuore degli uomini.
Quell’uomo sorrise.
Si alzò e lasciò la stanza.
Percorse i corridoi e i giardini, affiancò il grande susino e attraversò il refettorio.
Infine uscì dal portone occidentale e, senza voltarsi, si incamminò tra infinite tonalità di verde.

Poi la notte spense silenziosamente le luci.