Haṃsa Libera Scuola di Hatha Yoga

Amanda Morelli

BODHIDHARMA

Ditemi: dov’è Bodhidharma proprio adesso?
Siete inciampati su di lui senza nemmeno accorgervene.
La raccolta della roccia blu

1. Un uomo giunse da Occidente

Quando ero bambino, mio nonno mi ripeteva sempre che chi si vanta da sé, raccontando le proprie imprese, non ha alcun valore. Credo che avesse ragione e non è infatti per lodare me stesso che voglio raccontarvi oggi la mia storia. Essa servirà solo da sfondo. E se avrete la pazienza di ascoltarmi, vedrete presto la mia piccola figura sfocarsi; proprio come succede al dito che indica la luna.

Era una mattina calda e ventosa quando, nell’anno 518, partii dalla capitale del nostro grande impero alla volta dell’Occidente. Con me si incamminavano due graditi compagni: il desiderio di conoscere, che mi ha fatto da guida e mi ha dato la forza di proseguire nei momenti di debolezza, e la benedizione imperiale, ancella utile e fedele. Il mio compito, conferito dall’imperatore in persona, era tra i più alti e meritevoli! Mi sentivo pieno di gratitudine e quando varcai le porte della città in sella al mio forte destriero una gioia immensa pervase il mio cuore.
Potete immaginarlo? Io, Sung Yün, avevo il compito di recarmi nella terra dell’Illuminato alla ricerca delle fonti originarie del suo insegnamento, affinché il suo messaggio potesse giungere in Cina nella sua completezza e freschezza originaria, a beneficio del popolo tutto.

Vidi terre della cui meraviglia nemmeno i sogni sanno raccontare e incontrai uomini la cui diversità nell’aspetto era sorprendente solo quanto l’uguaglianza delle nostre nature. Potei vedere con i miei occhi che il messaggio del Buddha, incurante di fiumi larghi quanto il mare e di monti alti quanto il cielo, non conosce frontiere e giunge ovunque come una sacra brezza, cacciando al suo arrivo le nuvole ignoranti.

Trovato ciò che cercavo, avevo intrapreso la via del ritorno. L’imperatore aspettava con ansia il mio arrivo e questo lo sapevo bene. Quei manoscritti che tenevo stretti a me come reliquie, senza separarmene mai, neanche nel sonno, rappresentavano infatti per lui non solo una fonte di conoscenza ma anche di meriti spirituali. Questo pensiero, sorto da chissà dove, cominciò a girare nella mia testa come un aquilone sfuggito al suo proprietario: che l’imperatore avesse forse intuito l’avvicinarsi imminente della morte e per questo tentasse di redimere il suo cattivo karma con opere pie? Ero dunque io uno strumento della sua salvezza personale? E qual era allora il senso del mio viaggio? Queste domande furono per me come la goccia d’acqua sulla testa del prigioniero. Travestite da semplice curiosità, lavoravano lente ma inesorabili, decise a farsi un varco nella corazza delle mie abitudini mentali.

Il mio viaggio intanto continuava. Dopo città e piane coltivate, stavo affrontando ormai da diverse settimane la lunga e perigliosa traversata dell’altopiano del Pamir quando, in un bel giorno di sole, incontrai uno strano monaco. Camminava con un solo sandalo e aveva occhi così profondi che, appena il suo sguardo si posò su di me, mi sentii come trafitto da un dardo invisibile. Pensai: «Non si incontra qualcuno tutti i giorni», e rallentai il passo.

Quando, durante un viaggio così lungo e incerto, la propria strada incrocia quella di un altro pellegrino è sempre una grande gioia: ci si scambia parole di conforto e notizie sul cammino che ci aspetta. Così scesi da cavallo e, riconoscendo in lui le sembianze di un indiano, congiunsi con rispetto le mani davanti al petto, come avevo visto fare nella terra del Risvegliato. Egli ricambiò il saluto rivolgendosi a me nella lingua del nostro celeste imperatore e allora, preso coraggio, gli chiesi incuriosito da dove venisse e dove fosse diretto.

«Il mio nome è Bodhidharma. Per anni ho perseguito lo scopo che mi era stato destinato e ora che esso è compiuto torno, le mani vuote e il cuore pieno, alla terra dei miei padri. La veste e la ciotola conoscono oggi un nuovo proprietario. Così dev’essere.»

bodhidharma

Parlava solennemente. Le sue parole, lo sentivo, nascondevano qualcosa di grande, un misterioso scenario, una storia millenaria di cui percepivo il  germinare. E quegli occhi! Avevano qualcosa di speciale. Lo sguardo, sì, di quello mi ero accorto subito, ma non solo. Erano occhi che non conoscevano né il dubbio né l’esitazione, occhi che vedevano tutto senza soffermarsi su niente, occhi immobili, occhi sempre aperti.
Non seppi ribattere. E il monaco, di cui ora conoscevo il nome, si accomiatò con un cenno della testa. Lo guardai andarsene finché non scomparve all’orizzonte, confondendosi con i raggi del sole che scendeva a ponente. Turbato da quell’incontro e convinto dal calar della notte, decisi di accamparmi in una grotta lì vicino. Il sonno mi avrebbe ristorato.

Il mattino seguente ripresi il mio cammino verso la capitale. Giorno dopo giorno, una valle dopo l’altra, procedevo con passo calmo ma sicuro. Passavano le stagioni e con esse innumerevoli esistenze facevano capolino da quadri sempre diversi, attimo dopo attimo. Il mio sguardo ritagliava una cornice a ciascun battito di ciglia, aggiungendo ogni giorno migliaia di nuovi dipinti alla mia galleria mentale. Sentivo con tanta forza l’impermanenza di tutto ciò che ci circonda – la stessa che caratterizza d’altronde la nostra esistenza – ma non riuscivo ad accettarla, non riuscivo a farmene una ragione. Lottavo contro me stesso, contro la Verità che ognuno di noi porta dentro di sé, per mantenere vive nella memoria quelle ombre di eternità conquistate con la vista; e più mi rendevo conto dell’inutilità di quella lotta, più essa mi pareva vitale. Ma i pensieri e i ricordi, come anche le parole, conoscono la nascita e la morte, la sofferenza e la malattia. E le mie ombre mutavano contro la mia stessa volontà. Tra le immagini che cercavo di conservare con maggior ardore, vi erano quelle del monaco incontrato sulle montagne del Pamir, Bodhidharma. Il suo sguardo, le sue parole, tutto di lui comunicava saggezza e forza, vera forza. Poiché l’uomo veramente forte è colui che ha vinto se stesso.

Arrivai infine alla meta. Alla capitale scoprii che durante la mia lunga assenza la famiglia imperiale e il popolo tutto avevano pianto la perdita della propria celeste guida. Nonostante questo, il mio arrivo venne accolto con grandi onori e presto venni chiamato a ricevimento dal nuovo imperatore, il quale volle ispezionare di persona i manoscritti giunti da tanto lontano. Egli mi domandò anche delle terre che avevo visitato ed ebbi così l’occasione di ripercorrere, questa volta a voce alta, la mia galleria di immagini. Parlai a lungo, finché il celeste sovrano, distratto dall’arrivo di un messaggero, decise di accomiatarmi. Il monaco che mi aveva accompagnato al palazzo imperiale mi condusse fuori dalla sala e, attraverso un labirinto di atri, corridoi e giardini, giungemmo all’ufficio delle traduzioni: qui mani esperte avrebbero trascritto in raffinati ideogrammi gli insegnamenti del Buddha, affinché il suo messaggio potesse diffondersi in Cina come aveva fatto nella sua terra natale.
Il monaco mi invitò a sedermi e mi chiese se avessi voglia di continuare il mio racconto. Ripresi con gioia, ripartendo dalle pendici dei monti dove mi trovavo al momento della solenne interruzione imperiale.
Raccontai delle alte vette e dei cieli senza fine, delle lunghe notti e del sole senza nubi, del freddo e della fame, del silenzio e della pace… giungendo finalmente a quell’immagine che, più di tutte, avevo cercato di preservare dai dispetti del tempo. Descrissi l’uomo, ne pronunciai le parole e, infine, rivelai il suo nome: Bodhidharma.

Con mia infinita sorpresa, il monaco mi interruppe, accusandomi di mentire: ciò che dicevo non poteva essere vero, per il semplice motivo che il monaco Bodhidharma, celebre già in tutto l’impero per i suoi insegnamenti, era morto anni prima, per avvelenamento. Mi difesi, chiesi spiegazioni, ma il monaco non diede credito alle mie parole. Il giorno seguente riferì della nostra discussione a un altro monaco e così, di bocca in bocca, di funzionario in funzionario, essa giunse alle orecchie imperiali. A quel punto solo l’apertura del sacro stupa di Bodhidharma, nel tempio di Dinglin, avrebbe sciolto ogni dubbio, confermando o più probabilmente confutando una volta per tutte il mio racconto.
Trascorsi con ansia i giorni che mi separavano da quell’evento rivelatore: avevo forse sognato? Si era trattato di una visione, di uno scherzo della mia mente? No, quell’uomo io l’avevo incontrato veramente, in carne e ossa. Se no come spiegare la vivacità dei particolari? E il nome. E la descrizione. Tutto combaciava, tutto lasciava supporre che si trattasse proprio di lui. Eppure quelle voci, che mi accusavano di essere solo un piccolo monaco bugiardo, non mi lasciavano indifferente.
Cominciavo a dubitare di me stesso…
Poi il momento della verità arrivò e lo stupa venne aperto: nient’altro che un unico sandalo trovarono i monaci dalle lingue di serpente. Del corpo di Bodhidharma non v’era traccia.

Dissero molte cose e altrettante ne vennero scritte. Ma io non mi domandavo il perché o il come di quell’evento straordinario. Semplicemente perché non aveva alcuna importanza. Decisi invece di rimettermi in viaggio, questa volta sulle orme del grande maestro che era giunto da Occidente: il nostro incontro non poteva essere stato casuale. Percorsi prima le regioni settentrionali, poi quelle meridionali, giungendo infine al porto di Kuang-chou dove, secondo alcuni, era iniziato il suo peregrinare in terra cinese.
Molte sono le storie che ho sentito durante tanto viaggiare. Alcune combaciano, altre si contraddicono, ma nessuna di esse può rendere la natura del monaco Bodhidharma: per questo ve le racconterò tutte, per come le ho sentite. Senza prediligere le parole dei grandi maestri, affiancherò a esse racconti di più umili origini, integrando tra loro notizie verosimili e racconti fantastici.

D’altronde, se tutto è vacuità, che cosa distingue il vero dal falso?