Haṃsa Libera Scuola di Hatha Yoga

Amanda Morelli

BODHIDHARMA

3.3 Il Ch’an

3.3.1 Premesse

La storia del Buddhismo Ch’an andrebbe raccontata retrospettivamente. Il movimento che ne ha caratterizzato lo sviluppo non è infatti quello lineare del tempo storico ma quello che si articola per successivi feedback della memoria collettiva.
Ciò che è stato detto sulla storia di Bodhidharma potrebbe infatti essere applicato a tutti i Patriarchi successivi. Soprattutto durante i suoi primi periodi di sviluppo, il Ch’an ha sistematicamente rielaborato a posteriori l’immagine della propria storia, aggiungendo, scartando e ricolorando qua e là gli episodi che via via si aggiungevano, al fine di fornire un racconto coerente con il presente in cui veniva formulato.
Così come le agiografie di Bodhidharma ci dicono, storicamente, molto più dei loro redattori che del loro protagonista, le fonti riguardanti i successori del primo Patriarca vanno utilizzate soprattutto per illuminare la loro contemporaneità.
Senza negare che alcune o forse molte di esse contengono particolari (date, luoghi, relazioni, avvenimenti) reali, bisogna tenere a mente il fine principale per cui esse sono state scritte, ossia legittimare a posteriori la pretesa d’ortodossia di una posizione, scuola o branca specifica. Tale legittimazione è stata conquistata a detrimento delle posizioni rivali che, persa la lotta per il potere, si sono ritrovate declassate allo statuto di branche eterodosse e dimenticate dalla storia.1
Le fonti sono quindi creature ibride: nonostante la loro struttura sia volta a raccontare un passato, la loro anima trova riscontro nel momento in cui sono state create.

Il racconto della storia del Ch’an dovrebbe quindi somigliare a una rete a tre dimensioni, combinante la bidimensionalità del racconto spaziale con la linea del tempo. Questa rete non va però immaginata come omogenea né le sue linee vanno viste come sempre confluenti in un nodo. Alcune di esse, infatti, semplicemente si disperdono.
Per la sua natura prettamente lineare, la scrittura mal si combina con la resa di un’immagine di tale complessità; e il movimento di feedback con il quale potremmo ovviare a questo problema di ‘incompatibilità dimensionale’, richiederebbe un trattamento del tema nettamente più vasto di quanto esiga il ruolo contestualizzante che esso riveste in questa sede. Nonostante le premesse e tenendo conto del fine qui perseguito, la storia del Ch’an verrà dunque presentata nella sua veste tradizionale, quella della linea di trasmissione, a cui si tenterà tuttavia di integrare una visione critica.

3.3.2 Il proto-Ch’an e la rivoluzione di Bodhidharma

Si dice che Bodhidharma sapesse già, molto prima di intraprendere il suo viaggio, in quale stato avrebbe trovato l’insegnamento del Buddha in Cina, e che la sua scelta di partire fu dettata proprio da tale consapevolezza.
Astratta metafisica, dottrina morale, complesso di tecniche di pacificazione della mente, pratica devozionale: questi erano i figli indesiderati che il Buddhismo aveva dato alla luce e cresciuto in terra cinese; queste erano le malerbe che vi impedivano la crescita dell’albero della bodhi, le visioni superficiali ma ben radicate che Bodhidharma era intenzionato a sradicare.

Come abbiamo visto nel primo capitolo, Bodhidharma incontrò fin dal suo arrivo innumerevoli difficoltà e, nonostante la fama di grande saggio lo avesse preceduto, il suo messaggio venne ignorato quando non apertamente osteggiato. Solo dopo diversi anni di peregrinazioni incontrò il suo primo discepolo cinese, Hui-k’o (487- 593), che divenne poi il secondo Patriarca.
È intorno alla figura di Hui-k’o e dei suoi immediati successori che va ricercato l’inizio del Ch’an, anche se è sempre molto difficile rintracciare il momento esatto in cui prende forma una nuova corrente religiosa. La scarsità documentaria che caratterizza le fasi iniziali delle numerose storie che arricchiscono il cammino dell’uomo dipende più dalla mancanza di quella visione di sé che dà nome e identità a un gruppo eterogeneo che dalla lontananza nel tempo.
Il Ch’an ha elaborato una personale visione della propria storia: essa comincia con l’arrivo di Bodhidharma e prosegue, senza soluzione di continuità, lungo la Linea dei Patriarchi. Tuttavia la fluidità identitaria cui si è appena fatto riferimento non può essere negata e viene confermata dalle fonti agiografiche. Per questo motivo è con l’appellativo di ‘proto- Ch’an’ che ci si riferisce alla prima fase della sua storia.

La marginalità del movimento

Prima caratteristica di questa fase fu la forte marginalità del movimento. L’importanza della diffusione degli insegnamenti di Bodhidharma è un tema ricorrente nelle agiografie dei primi Patriarchi, così come le difficoltà che essa incontrò.

I testi ci raccontano che, dopo la morte di Bodhidharma, Huik’o cominciò in modo sobrio ma efficace a diffondere l’insegnamento del suo maestro, scontrandosi però con opposizioni e gelosie, a causa delle quali venne imprigionato e giustiziato all’età di 107 anni. Il suo successore Seng-ts’an non conobbe maggiore fortuna e fu costretto a ritirarsi sul monte Wangong per sfuggire alle persecuzioni antibuddhiste degli anni 574-577.
Questi episodi comunicano con efficacia la condizione di precarietà e isolamento che dovettero conoscere non solo i tre Patriarchi, ma tutti i primi apologeti del Buddhismo Ch’an. La loro visione del Buddhismo era troppo differente da quelle affermate ed essi vennero probabilmente additati come eretici e osteggiati in vari modi dalle élite buddhiste del tempo.

Il Trattato sulle due entrate e le quattro pratiche

La visione del Ch’an propria di questo primo ristretto gruppo di monaci e monache può essere esemplificata dal Trattato sulle due entrate e le quattro pratiche2. Tale testo viene tradizionalmente attribuito a Bodhidharma ma, riportando in apertura delle informazioni biografiche sul primo Patriarca e su Hui-k’o, è più probabilmente opera di un discepolo di quest’ultimo, T’an-lin. In ogni caso, si diceva che esso contenesse gli insegnamenti del primo Patriarca e la sua importanza fu, almeno in questo primo periodo, innegabile.

Bisogna ricordare che nel VI secolo la Cina era un Paese profondamente multiculturale. Tra i primi seguaci del Ch’an c’erano confuciani, taoisti, specialisti del Lankavatara sutra, asceti itineranti: in termini di origine socioculturale e di impostazione filosofica di partenza, l’eterogeneità era sorprendente. In tale contesto, l’accettazione del Trattato come sunto del messaggio di Bodhidharma ne fece l’asse centrale intorno a cui si andò costruendo il primo nucleo della futura Scuola Ch’an. In altre parole, esso costituì l’elemento aggregante che diede forma comune alla varietà, definendo i confini del movimento Ch’an.

Il messaggio centrale del Trattato è contenuto nel seguente passaggio:

«L’ingresso attraverso il Principio è la penetrazione dello spirito del Buddhismo attraverso la fede negli insegnamenti della santa dottrina secondo cui tutti gli esseri viventi possiedono la medesima Vera Natura. Questa Vera Natura è oscurata e resa impercettibile dall’illusione dei sensi e dei falsi pensieri. Colui che, abbandonato il falso e preso rifugio nel Vero, siede in pikuan e riconosce l’unità di io e altro dall’io, di sacro e profano e così via, non avrà più bisogno della guida delle sacre Scritture poiché si troverà in accordo col Principio. Sereno e non agente avrà interrotto ogni discriminazione intellettuale: questo è l’ingresso attraverso il Principio.»

Questo passaggio racchiude il senso della figura di Bodhidharma come iniziatore del Ch’an. In termini generali, esso esprime un’idea comune a tutte le correnti del Buddhismo, ossia che l’illuminazione consiste in un ‘salto quantico’ nella percezione della realtà e del nostro rapporto con essa. Riconosciuta l’illusorietà della visione che i sensi e l’intelletto discriminante ci comunicano, compreso il carattere illusorio delle dicotomie che essi ci impongono, l’individuo si trova in accordo con il Principio e riconosce che tutti gli esseri hanno la stessa Vera Natura. Tale ‘passaggio’ è possibile proprio in quanto ognuno di noi possiede ‘naturalmente’ questa Vera Natura: la differenza tra saggio e uomo comune è dunque solo apparente.

La contemplazione del muro

L’ingresso attraverso il Principio non è però un’invenzione di Bodhidharma. Ciò che è innovativo in questo passaggio è unicamente l’uso dell’espressione ‘pi-kuan’ (la contemplazione del muro): kuan significa ‘percepire, contemplare’ e pi vuol dire generalmente ‘muro’. Pi viene a sostituire nel Trattato il termine cheh (svegliarsi, essere illuminato) comunemente associato a kuan.
Al tempo di Bodhidharma, l’affiancamento di un termine apparentemente così fuori contesto come ‘muro’ all’idea della pratica meditativa deve aver suscitato una certa incomprensione; ancora oggi, le interpretazioni sul suo significato sono divergenti. Che si trattasse forse di una pratica in cui il meditante doveva sedersi di fronte a un muro e fissarlo come la tradizione racconta facesse Bodhidharma nella grotta vicino al monastero di Shao-lin? La Scuola Soto giapponese si rifà a quest’immagine del primo Patriarca e i monaci praticano la meditazione con la faccia rivolta al muro. Ma questa interpretazione è chiaramente troppo superficiale per essere corretta.
La portata del termine pi-kuan è sostanziale e non formale: è l’immagine che segue l’idea e non viceversa.

Al di là della portata creativa del termine pi nella sua associazione con kuan, al quale conferisce una sfumatura concreta e immediata, il senso di pi-kuan va inteso in chiave metaforica.
Nell’VIII secolo, uno dei Patriarchi della Scuola T’ien t’ai, Zhanran (711-782), scrisse in una glossa un commento esplicativo, suggerendo che la contemplazione del muro comunicava l’immagine di una stanza i cui quattro muri impediscono l’ingresso degli otto venti. Questa interpretazione è sicuramente la più valida: la stanza rappresenta colui che siede in meditazione e non permette ai venti della falsa percezione (i sensi e l’intelletto) di scuotere la propria coscienza. Nella sua concretezza quest’immagine comunica con estrema semplicità l’idea secondo cui l’uomo possiede in se stesso gli strumenti per giungere alla propria liberazione: egli è completo in sé e non deve far altro che prendere rifugio nella stanza dalle solide mura della sua Vera Natura.
Il termine pi-kuan indica dunque non una speciale tecnica meditativa, ma lo stato della mente che, trasceso essere e non essere, è in tutto simile ‘a un muro dritto’.

Questa interpretazione del termine pi-kuan si accorda perfettamente con ciò che viene descritto nel Trattato come ‘ingresso per mezzo del Principio’ e che, come abbiamo visto, non rappresenta di per sé una novità. La grande rivoluzione di Bodhidharma fu quindi non di portata dottrinale ma comunicativa. Sostituendo il termine astratto ‘cheh’ (svegliarsi) con ‘pi’ (muro), egli introdusse per la prima volta la concretezza dell’esperienza nella comunicazione del messaggio di salvezza del Buddha.

I dialoghi come mimesi della realtà

Come vedremo più dettagliatamente nel capitolo successivo, il Ch’an si caratterizza nei suoi metodi d’insegnamento per una forte attenzione al fatto concreto (talvolta così marcata da rasentare l’incomprensibilità). Il maestro Ch’an non spiega attraverso lunghi discorsi, ma si limita a indicare e, nel parlare, rimane sempre cosciente della relatività che si nasconde dietro le categorie del linguaggio (poiché nominare significa anche interpretare il reale). Egli usa il linguaggio in maniera creativa, associando parole e frasi senza seguire i modelli convenzionali, e privilegia la forma dialogata rispetto al monologo.
Il dialogo riveste in questo senso un’importanza fondamentale poiché non solo comunica la freschezza dell’esperienza diretta ma, nel suo mettere in relazione due o più individui, diviene mimesi della realtà stessa, la quale è infatti intesa come divenire relazionale. I dialoghi che le fonti ci presentano sono innumerevoli ma quelli che raccontano i primi incontri tra maestro e allievo sono particolarmente interessanti. Confrontiamo, per esempio, il dialogo tra Bodhidharma e Hui-k’o (quello che precede l’accettazione di quest’ultimo come allievo del Patriarca) con quelli tra i Patriarchi successivi, innanzi tutto quello tra Hui-k’o e il suo successore Seng-ts’an3. Secondo la tradizione quest’ultimo era, al tempo dell’incontro, un laico di circa quarant’anni, affetto da una malattia simile alla lebbra (nota con il nome di ‘feng-yang’).

«Maestro, il mio corpo soffre di una grave malattia» disse Seng-ts’an «vi prego, assolvetemi dai peccati che hanno causato questa malattia».
«Portami i tuoi peccati e io li assolverò» rispose Hui-k’o.
«Maestro, ho cercato i miei peccati, li ho cercati ovunque, ma non sono riuscito a trovarli».
«Ho assolto i tuoi peccati. Ora puoi prendere dimora nel Buddha, nel Dharma e nel Sangha» concluse Hui-k’o.

Il secondo esempio è il dialogo tra Seng-ts’an, diventato terzo patriarca, e il suo successore Tao-hsin.

«Imploro la vostra compassione maestro. Vi prego, indicatemi la Via della liberazione».
«Chi ti ha incatenato?» rispose il terzo Patriarca.
«Nessuno».
«Allora perché chiedi di essere liberato?»

Questa semplice frase pare abbia messo il giovane Tao-hsin sulla Via della perfetta illuminazione.

I tre dialoghi rispondono chiaramente a un medesimo schema narrativo. In tutti e tre l’illuminazione viene raggiunta attraverso una presa di coscienza della natura fallace della domanda posta: non vi è alcuna mente da pacificare, alcun peccato da assolvere, alcuna catena da spezzare. La ricerca in se stessa non è altro che una domanda mal posta poiché la Vera Natura non è qualcosa di esterno o trascendente ma dimora nell’interiorità dell’uomo.

Nella loro struttura i tre dialoghi sono assolutamente identici e esemplificano con estrema chiarezza la trasmissione del messaggio e delle modalità di comunicazione e insegnamento di Bodhidharma da un Patriarca al successivo.

Un ritorno creativo al messaggio del Buddha

Al di là quindi della fitta nebbia che ci impedisce di vedere con precisione i contorni del Bodhidharma storico, è innegabile che quest’ultimo sia stato l’iniziatore di una lenta ma profonda rivoluzione spirituale.
Dal punto di vista dottrinale, si trattò semplicemente di un ritorno al messaggio originario del Buddha; ma dal punto di vista comunicativo e pedagogico Bodhidharma ‘inventò’ letteralmente un nuovo Buddhismo, che riportava alle origini ma in maniera creativa: fu con Bodhidharma e i suoi successori che i principi tratti dall’esperienza personale del principe Siddhartha Gautama (esperienza diretta, vacuità, interdipendenza causale e così via) divennero per la prima volta veramente concreti. Tutti i livelli dell’esperienza umana ne furono influenzati, compreso il più illusorio tra loro: il linguaggio.

Il Trattato non si riduce naturalmente al passaggio riportato e descrive anche un secondo ingresso, quello «per mezzo della condotta» realizzabile attraverso «i quattro atti nei quali ogni altro atto è compreso»: rispondere correttamente all’odio, obbedire al karma, non correre dietro a nulla, essere in accordo con il Dharma.
Anche qui a livello dottrinale non è rintracciabile nulla di innovativo, nulla che i seguaci di Bodhidharma non potessero trovare in altri testi buddhisti. Ciò che invece è importante sottolineare è il contrasto tra le due vie indicate dal Trattato: astratta e introspettiva la prima, quotidiana e concreta la seconda. Tale formulazione dualistica (che si riassume nell’unità del fine, l’illuminazione) rivestirà un ruolo molto importante negli sviluppi successivi della Scuola Ch’an.

3.3.3 Il primo Ch’an

La prima grande differenza riscontrabile nel periodo generalmente indicato come ‘primo Ch’an’ è di tipo spaziale: in contrasto con il proto-Ch’an, questo periodo è caratterizzato da una forte stabilità e fissità geografica. Pare che il quarto (Taohsin) e quinto Patriarca (Hung-jen) vissero entrambi per diversi decenni nel tempio localizzato sulla montagna della Prugna Gialla (Wang-mei Shan) e che limitarono a questa area il loro insegnamento, rifiutando gli inviti della corte imperiale di stabilirsi nella capitale del regno.
Fu quindi in questa fase che venne introdotto per la prima volta nel Ch’an il modello di vita monastico, interrompendo così lo stile itinerante dei primi Patriarchi.

A questo cambiamento si aggiunse l’aumento considerevole del numero di studenti accolti, la maggior parte dei quali risiedeva presso il monastero per un periodo di tempo limitato, in accordo con il modello di totale libertà decisionale già descritto.
Tao-hsin e Hung-jen furono principalmente maestri di meditazione e i loro discepoli, provenienti da milieux religiosi differenti, giungevano da tutta la Cina per praticare nella comunità di Huang-mei Shan, famosa in tutto l’impero fin dalla seconda metà del VII secolo.

Per quanto riguarda il contenuto dottrinale degli insegnamenti dei due maestri, dobbiamo rifarci ai testi redatti da alcuni dei loro studenti nel momento in cui si trasferirono dalla provincia alla capitale. È infatti improbabile, visto il carattere relazionale e immediato dell’insegnamento proprio del Ch’an, che Tao-hsin e Hung-jen li abbiano personalmente messi per iscritto. Tali testi forniscono un interessante esempio del metodo di elaborazione storica della tradizione Ch’an. I membri del movimento pubblicarono infatti prima gli insegnamenti di Hung-jen, poi quelli di Tao-hsin e in seguito (qui siamo già alla metà dell’VIII secolo) quelli di Seng-ts’an.

Il Trattato sugli elementi essenziali per coltivare la mente

Gli insegnamenti del quinto Patriarca sono contenuti nel Trattato sugli elementi essenziali per coltivare la mente (Hsiu-hsin yao-lun). Anche in questo caso bisogna tener conto del fatto che, quando ci rivolgiamo al testo in cerca di informazioni, non troveremo il ‘vero’ Hung-jen, ma il modo in cui lui e i suoi insegnamenti vennero ricordati diversi decenni dopo la sua morte.

Il cuore del Trattato è rappresentato dalla celebre metafora del sole e delle nuvole. Lo scritto spiega che la natura di Buddha, presente in tutti gli esseri senzienti, è come il sole: brillante, perfetta e completa. Tuttavia, nonostante essa sia vasta e senza limiti, la sua luce può essere oscurata dalle nuvole dei cinque skandha e del pensiero discriminante, proprio come la luce di una lampada che sia stata messa dentro un’anfora. La presenza delle nuvole non impedisce però che il sole brilli dietro di esse. Il fatto che la sua luce non possa passare, che non sia visibile, non significa che non esista. Colui che mantenga una distinta e solida coscienza della propria mente, vedrà naturalmente il sole del nirvana rendersi manifesto.

La relazione tra la metafora del sole e delle nuvole e quanto abbiamo letto nel Trattato di Bodhidharma sulla Vera Natura è palese. Per entrambi la Natura di Buddha risiede fin dal principio nell’interiorità stessa dell’uomo; essa è oscurata dalle illusioni dei sensi e dell’intelletto, le quali però non ne alterano le qualità di perfezione e completezza ma hanno il solo potere di nasconderne la luce. Per questo l’illuminazione non necessita di un’aggressiva lotta contro le nubi dell’ignoranza, ma di un semplice cambiamento di prospettiva.
In altre parole, si tratta di passare in un battito di ciglia dalle nuvole al sole, senza rimanere ancorati alla logica comune secondo cui per arrivare da un punto a un altro è necessario percorrere la linea che li separa. In quest’ottica la ricerca stessa dell’illuminazione è un errore: per questo Hung-jen ci consiglia di lasciare semplicemente che accada.

3.3.4 Il sesto Patriarca

Abbiamo visto che con il quarto e soprattutto con il quinto Patriarca, il Ch’an assume una visibilità nuova. La leggenda vuole che all’arrivo del futuro sesto Patriarca Hui-neng (638-713) al monastero della Prugna Gialla, Hung-jen fosse circondato, a seconda delle versioni, da ben cinquecento, settecento o mille monaci. Il numero preciso non è importante: la differenza con i pochissimi studenti dei primi Patriarchi è in ogni caso sorprendente.
A fianco di questa crescente diffusione del Ch’an, segno di una sua piena accettazione, la leggenda ci racconta però ancora di lotte e tradimenti, segreti e gelosie, fughe e tempi difficili. La vittima è sempre un Patriarca della linea ortodossa, ma gli antagonisti sono, questa volta, non i maestri di scuole rivali ma gli stessi monaci del monastero in cui egli viene scelto, in segreto, come successore. I protagonisti della prima ‘pubblicizzata’ divisione del Ch’an furono entrambi allievi del quinto Patriarca: il primo, l’abbiamo visto, è Hui-neng; il secondo si chiamava Shen-hsiu (606-706).

Shen-hsiu: il Patriarca mancato

Shen-hsiu proveniva dall’élite governativa della dinastia T’ang e, prima di diventare un monaco buddhista e affidarsi agli insegnamenti di Hung-jen, era stato un colto confuciano. Il suo nome entrò nella storia del Ch’an innanzi tutto grazie alla sua presenza a corte, dove era stato invitato, nel 701, dall’imperatrice Wu (dinastia T’ang) in persona. Il suo arrivo a Loyang, una delle due capitali del regno e importante centro buddhista fin dal II secolo, è descritto dalle fonti in termini di rara magnificenza. Si racconta inoltre che l’imperatrice diede prova di grande reverenza, sedendosi in ginocchio di fronte al maestro con il viso rivolto verso Nord, nella posizione normalmente riservata ai sudditi.
Shen-hsiu divenne maestro imperiale e la sua attività nelle due capitali del regno determinò in gran parte l’incredibile espansione del Ch’an nella Cina dei T’ang. Furono inoltre i suoi studenti a scrivere i trattati attribuiti a Hung-jen e Tao-hsin, oltre a gran parte dei documenti su cui si basa la ricostruzione della Linea dei Patriarchi.

La Scuola settentrionale e la Scuola meridionale

Poco dopo la morte del maestro imperiale Shen-hsiu due dei suoi studenti furono pubblicamente attaccati da un monaco di nome Shen-hui, il quale li accusò di promuovere insegnamenti fallaci e fare false dichiarazioni riguardo il loro lignaggio di provenienza. Nelle sue requisitorie, egli introdusse per la prima volta le definizioni di ‘Scuola settentrionale’ e ‘Scuola meridionale’, indicando con la prima la tradizione iniziata dal dotto Shen-hsiu e con la seconda la linea ortodossa di Hui-neng, il sesto Patriarca.

La differenza tra le due scuole viene generalmente descritta in termini dicotomici: alla scuola del risveglio graduale del Nord si contrappone l’insegnamento dell’illuminazione brusca o istantanea del Sud. Tale opposizione tra istantaneità e gradualità va fatta risalire, secondo lo studioso D.T. Suzuki, al Lankavatara sutra, nelle cui pagine vengono distinti due tipi di esseri: per gli uni l’illuminazione è un processo di purificazione graduale, anche nel corso di più esistenze; per gli altri invece essa avviene istantaneamente4.
Tale opposizione risulta qui di particolare interesse. Abbiamo avuto modo di notare a più riprese come l’immagine dei maestri di cui si compone la Linea dei Patriarchi sia stata costruita nel tempo dai loro successori e come quindi la storia del Ch’an vada anch’essa costruita secondo progressivi feedback.
Anche per quanto riguarda il sesto Patriarca siamo di fronte a uno scenario simile: l’immagine del dotto Shen-hsiu e l’opposizione introdotta da Shen-hui tra Scuola meridionale e Scuola settentrionale costituiscono i termini iniziali necessari per delineare un ritratto critico del sesto Patriarca Hui-neng.

La biografia del Patriarca Hui-neng

La tradizione ci dice che Hui-neng proveniva da una famiglia di umili origini. Suo padre era morto quando egli era ancora molto giovane e così aveva dovuto, fin da bambino, aiutare la madre lavorando come venditore di legna. Fu durante una giornata del tutto simile alle altre, in cui aveva consegnato legna da ardere in una casa, che egli sperimentò, del tutto spontaneamente, l’illuminazione: sentì per caso un uomo recitare dei versi buddhisti e questi lo colpirono a tal punto che decise di abbandonare la vita laica per studiare il testo da cui erano stati estratti, il Vajracchedika sutra (Sutra del diamante), sotto la guida di un maestro. Raccolto del denaro per il sostentamento della madre si mise in cammino verso il monte della Prugna Gialla.

Giunto a destinazione, venne assunto come pestatore di riso, compito che assolse per otto mesi. Pare che Hung-jen comprese fin dal primo incontro che il giovane e misero contadino che gli stava dinanzi era destinato a divenire il suo successore, ma che temette le gelosie degli altri monaci, i quali erano per la maggior parte grandi dotti. Per questo lo mise a lavorare in cucina, in attesa di tempi più propizi.

Otto mesi dopo il quinto Patriarca annunciò che era giunto il momento per lui di scegliere il suo successore spirituale. La scelta si sarebbe basata su una poesia: chi avesse saputo esprimere meglio in versi il contenuto del suo insegnamento avrebbe ricevuto la ciotola e la veste. Tra tutti i monaci Shenhsiu era il più colto e a tutti sembrava che la scelta fosse una mera formalità. Quando egli affisse la sua poesia nei corridoi presso le stanze del Patriarca, quest’ultimo fece bruciare di fronte a essa dell’incenso e dichiarò che chi fosse riuscito a metterne in pratica il messaggio avrebbe realizzato la sua Vera Natura.

Il corpo è l’albero della bodhi,
la mente è come uno specchio lucente.
Abbi cura di tenerlo sempre pulito,
e non lasciare che la polvere vi si accumuli.

Tuttavia quando Shen-hsiu si recò nelle stanze del quinto Patriarca per rivelare di essere l’autore della poesia, Hung-jen si limitò a dichiarare che la sua comprensione non era ancora perfetta e a consigliargli di scrivere un’altra poesia, cosa che Shen-hsiu non fu in grado di fare.

Nel frattempo Hui-neng stava assolvendo, come al solito, le sue mansioni quotidiane quando sentì un monaco recitare i versi del dotto Shen-hsiu. Immediatamente realizzò che colui che li aveva composti non aveva compreso il vero significato del Buddhismo e chiese al monaco di spiegargli per quale fine fossero stati scritti. La mattina seguente dei nuovi versi apparvero a fianco di quelli di Shen-hsiu. Secondo la tradizione Hui-neng era un analfabeta e non fu quindi lui a scrivere direttamente i versi, ma si fece aiutare da un monaco, il quale li trascrisse sotto dettatura.

La più antica versione del Sutra del trono del sesto Patriarca, risalente con qualche approssimazione all’anno 780(un secolo quindi dopo i fatti da esso descritti) riporta due versioni dei versi di Hui-neng, entrambe sostituite successivamente dalla seguente.

Non vi è alcun albero della bodhi,
e lo specchio lucente non conosce alcun luogo.
In realtà, fin dal principio, nessuna cosa esiste.
Dove dovrebbe dunque posarsi la polvere?

Il quinto Patriarca sembrò non prestare attenzione ai nuovi versi, ma nel corso della notte convocò segretamente Huineng nelle sue stanze. Qui gli conferì la veste e la ciotola, simboli dell’autorità patriarcale, nominandolo così suo successore; poi gli disse che d’ora in avanti essi non avrebbero più dovuto essere trasmessi, poiché ormai il Ch’an era una tradizione pienamente riconosciuta, e aggiunse anche che sarebbe stato più prudente per lui lasciare quella notte stessa il monastero e tenersi in disparte finché l’orgoglio dei monaci non si fosse calmato.

Quella notte, Hui-neng abbandonò la comunità. Qualche giorno dopo la notizia di quanto era successo si diffuse tra i monaci e alcuni di loro lasciarono il monastero all’inseguimento di Hui-neng. Guidati da un certo Ming raggiunsero il sesto Patriarca nel momento in cui attraversava un passo montano. La leggenda racconta che Hui-neng posò la veste della trasmissione su una roccia, dicendo a Ming che essa non doveva essere portata via con la forza e che avrebbe potuto prenderla con il suo assenso. Ma la veste era divenuta più pesante di una montagna e Ming non riuscì a smuoverla di un solo millimetro. Evidentemente scosso, chiese allora a Hui-neng di disperdere la sua ignoranza.
Riprendendo lo stile sintetico dei suoi predecessori, il sesto Patriarca rispose che tutto ciò che Ming doveva fare era ‘riconoscere il volto originario’ che rappresentava la sua Vera Natura ancor prima che nascesse. Così Ming capì che la verità non va cercata in manifestazioni esteriori poiché la ricerca, qualunque sia il suo oggetto, produce nuovo karma. Inoltre, proprio perché l’illuminazione non è altro che la condizione originaria della coscienza non oscurata dalle illusioni dei sensi e dell’intelletto, egli capì che non vi è nulla da cercare e nulla da trovare: riconoscere il proprio volto originario è tutto ciò che ci serve per far risplendere nuovamente la luce del nostro sole interiore.

Dopo questo episodio, Hui-neng rimase nascosto per otto anni nelle montagne, prima di rientrare nel mondo e iniziare la sua opera di insegnamento. Pare che egli abbia avuto migliaia di discepoli e che la sua influenza sia stata molto vasta. Tuttavia limitò il suo insegnamento (come i suoi due predecessori) a una ristretta area geografica nel Sud del Paese. Il centro principale dove risiedette fu il monastero di Pao-lin sul monte T’sao-ch’i. Pare inoltre che, a differenza del suo avversario Shen-hsiu, rifiutò l’invito della corte imperiale di recarsi nella capitale per impartire i suoi insegnamenti all’imperatore.

Shen-hsiu e Hui-neng: la costruzione di un’antitesi

Delle due descrizioni forniteci dalla tradizione, la prima cosa che salta agli occhi è la modalità chiaramente oppositiva con cui i nostri due protagonisti sono stati dipinti. Da una parte abbiamo Shen-hsiu: grande dotto, proveniente da una famiglia dell’élite governativa (come dimostra la sua educazione confuciana) e durante gli ultimi anni della sua vita maestro imperiale. Dall’altra parte, Hui-neng, sua antitesi: contadino illetterato, a cui basta il semplice ascolto di un passo del Sutra del diamante per dissolvere i veli dell’ignoranza, e che rifiuta gli inviti dell’imperatore di recarsi a corte per rimanere tutta la vita a insegnare tra le montagne.

Quest’opposizione è, come abbiamo già accennato, una produzione di circa un secolo posteriore ai fatti narrati. È quindi molto probabile che la netta antitesi che pare caratterizzasse i due pretendenti al trono del patriarcato sia stata costruita in seguito, al fine di esaltare il vincitore e la sua scuola. A questo proposito, è interessante ricordare che la stessa opposizione tra Scuola settentrionale e Scuola meridionale è posteriore ai tempi di Shen-hsiu e Hui-neng, e che l’immagine di quest’ultimo è in larga misura costruita in palese opposizione a quella di Shen-hsiu. La poesia del sesto Patriarca che abbiamo riportato è un esempio lampante: i suoi versi non sono altro che una negazione di quelli del suo dotto rivale.

A sostegno di quanto detto, è possibile aggiungere un ulteriore elemento: l’immagine di Shen-hsiu è la prima a essere basata su fonti contemporanee al suo protagonista. In più documenti vengono riportati i dialoghi tra l’imperatrice e il presunto sesto Patriarca (poi bocciato dalla storia), e in questi egli descrive se stesso come appartenente alla Scuola di Hung-jen. È probabile dunque che all’epoca dei due rivali non solo l’opposizione tra loro non fosse così marcata ma anche che Shen-hsiu fosse effettivamente considerato il successore di Hung-jen.

In altre parole, l’autorità di Hui-neng come sesto Patriarca deve essere una costruzione di almeno un secolo posteriore alla sua morte: la linea ortodossa dei Patriarchi (la cui crescente importanza va fatta risalire a Shen-hsiu e ai suoi successori) deve averlo incluso solo nel momento in cui la sua scuola, o quella che pretendeva di essere la sua scuola, si affermò su tutte le altre, compresa quella dei successori di Shen-hsiu.
In tal modo, dunque, l’illetterato Hui-neng e la sua scuola del risveglio istantaneo conquistarono il sesto posto della Linea dei Patriarchi, eliminando dalla successione ortodossa i successori di Shen-hsiu.

Il Sutra del trono del sesto Patriarca e la nuova popolarità del Ch’an

Il Sutra del trono del sesto Patriarca, che raccoglie il suo pensiero e la versione tradizionale della sua biografia, è uno dei testi più importanti del Ch’an (e l’unico sutra buddhista cinese) e la figura di Hui-neng è tra le più celebri della storia del Ch’an.
La costruzione della sua immagine deve aver avuto un notevole impatto sull’immaginazione popolare e aver contribuito in maniera non indifferente alla diffusione del Ch’an presso gli strati più bassi della popolazione. Hui-neng, infatti, non solo rappresentava l’effettiva realizzabilità dell’illuminazione al di là di qualunque barriera sociale ma, negli episodi che lo vedono intento a prendersi cura della madre vedova, veniva a incarnare anche un modello di virtù propriamente cinese, quello della pietà filiale.

3.3.5 Il Ch’an si divide

Dopo il sesto Patriarca, la linea di successione si interruppe e il Ch’an si divise in diverse scuole; la diffusione del movimento raggiunse il suo apice a partire dalla seconda metà del IX secolo.

Nell’anno 845, il Buddhismo cinese conobbe una breve ma violenta persecuzione da parte dell’imperatore taoista Wu-tsung. Il Ch’an sopravvisse meglio di qualunque altra scuola, entrando nei favori imperiali e conquistando anche quelli popolari. Questo successo continuò fino all’epoca Ming (1368-1643), a partire dalla quale altre scuole, come quella della Terra pura (che aveva assorbito dal Ch’an la pratica dei kung-an, di cui parleremo nel prossimo capitolo), cominciarono a soppiantarlo.

Quasi scomparso nel corso dei secoli successivi dalla sua terra d’origine, il Ch’an è però fiorito in molti Paesi dell’Estremo Oriente, Corea e Giappone in testa, ma anche in Vietnam e, più recentemente, a Taiwan e in altri luoghi della diaspora cinese.

Note
1. Il primo esempio di questo fenomeno si riscontra poco più di un secolo dopo la morte di Bodhidharma. Sotto il quarto Patriarca Tao-hsin (580-651) avvenne la prima spaccatura: il primo ramo fu il Niu-t’ou Ch’an, che prese il nome dal monte dove il suo fondatore, Fa-jung, trascorse gran parte della propria vita; il secondo fu quello di Hung-jen (601-674). Fu la scuola di quest’ultimo a sopravvivere: mentre Fa-jung veniva escluso dalla linea ortodossa del Ch’an, Hung-jen divenne il quinto Patriarca.
2. Il Trattato sulle due entrate e le quattro pratiche fa parte di una collezione di documenti chiamata L’antologia di Bodhidharma, di cui è disponibile una versione in lingua inglese: J.L. Broughton The Bodhidharma Anthology. The Earliest Records of Zen, University of California Press, Berkeley, 1999.
3. Entrambi i dialoghi sono contenuti negli Annali della trasmissione della lampada, compilati da Tao-yüan nel 1004.
4. D.T. Suzuki Saggi sul Buddhismo Zen, Edizioni Mediterranee, Roma, 1975.