Haṃsa Libera Scuola di Hatha Yoga

Amanda Morelli

BODHIDHARMA

4.2 La pratica del Ch’an

I principi del Ch’an, illustrati nelle pagine precedenti, sono fondamentali per comprendere l’attitudine del praticante, come esemplificano i celebri dialoghi tra i primi Patriarchi e i loro successori. Hui-k’o chiede a Bodhidharma di pacificare la sua mente, Seng-ts’an implora Hui-k’o di assolverlo dai suoi peccati, Tao-hsin domanda a Seng-ts’an di indicargli la Via della liberazione. L’intuizione dell’illusorietà delle richieste stesse rappresenta in tutti e tre i casi il punto di partenza: intuire il principio è quindi la base di una corretta pratica, poiché colui che non ha colto la falsità delle proprie abitudini mentali, che fanno credere di avere una mente da pacificare, dei peccati da espiare, una catena da spezzare, non farà altro che sostituirle con nuovi significati, nuove mete, nuove illusioni.

La pratica non è vera pratica finché ci si pone un risultato da ottenere (divenire Buddha). Essa diviene vera pratica nel momento in cui si risveglia in noi la consapevolezza di essere già dei Buddha: gli esercizi che il maestro propone all’allievo divengono così i mezzi attraverso cui permeare ogni nostro atto di tale consapevolezza.

Ma quali sono gli strumenti che ci offre il Ch’an? In altre parole, com’è possibile riportare una volta per tutte l’attività della mente intellettiva alla sua specifica funzione, in modo che la nostra vita sia guidata da una spontanea naturalezza piuttosto che dai limiti delle nostre false visioni?

Nella storia del Ch’an si individua una grande varietà di tecniche, che possono essere riassunte in due categorie fondamentali: la meditazione e i metodi verbali. Nella loro struttura e nel loro significato essenziale, tali pratiche sono rintracciabili nell’esperienza del primo Patriarca. Non ci interesseremo dunque qui della storia delle tecniche elaborate dal Buddhismo Ch’an nel corso dei secoli, quanto piuttosto del suo contenuto generale, paradigmaticamente rappresentato da alcuni episodi della storia di Bodhidharma.

4.2.1 La meditazione

Il termine sanscrito per ‘meditazione’ è dhyana. Il suo corrispettivo cinese Ch’an appare innanzi tutto con questo significato generale, e solo a partire dall’inizio del IX secolo viene a indicare la scuola di cui Bodhidharma è considerato il fondatore.
Secondo alcune interpretazioni l’uso del termine Ch’an non ha nulla a che vedere con il significato del suo corrispettivo ideogramma, essendo quest’ultimo utilizzato solo come fonema, nel tentativo di riprodurre il suono del sanscrito dhyana. Tuttavia, se da un lato l’ideogramma nel suo complesso significa letteralmente ‘altare spianato’ o ‘abdicare’, per cui questa prima tesi pare convalidata, dall’altro esso è anche composto da due caratteri, dalla cui unione deriverebbe il significato complessivo ‘puntare alla semplicità’ o ‘mostrare l’unità’.

Al di là del rapporto tra etimologia e funzione significante, il termine Ch’an viene utilizzato per indicare sia la scuola di Bodhidharma sia la pratica della meditazione. Non a caso, la tradizione ci presenta il primo Patriarca innanzi tutto come maestro itinerante di meditazione.

Il luogo della meditazione

Dopo aver percorso per diversi anni le terre cinesi meridionali e settentrionali, Bodhidharma decise di appartarsi in una grotta sul monte Sung. Qui rimase seduto in meditazione per nove anni e la forza della sua presenza fu tale da imprimersi nella roccia stessa.
Questa breve descrizione racchiude molti elementi significanti. Il luogo, per esempio: Bodhidharma non pratica la meditazione in un posto qualunque, ma si ritira in una grotta sul monte Sung. Quest’ultimo si trova al centro del complesso montagnoso costituito dai cinque picchi sacri, luogo di fondamentale importanza sia per il Buddhismo sia per il Taoismo.
Bisogna ricordare, inoltre, che nel pensiero cinese la montagna è considerata il luogo sacro per eccellenza, poiché mette in contatto l’uomo con le energie del cielo e della terra, mentre le grotte sono considerate come ‘buchi celesti’, come le bocche da cui emana il soffio vitale del creato. Al loro interno è quindi possibile sperimentare in modo unico l’incessante interazione dello yin e dello yang.

L’isolamento

L’isolamento sperimentabile all’interno di una grotta è di grande rilevanza: la condizione del distacco dal brusio mondano è infatti un espediente fondamentale e preliminare alla pratica stessa. Tale condizione rappresenta inoltre l’immagine esteriore del primo obiettivo della meditazione: isolare la mente dal condizionamento dell’incessante rumore indotto dal pensiero discorsivo.

La ‘chiara visione’

Il terzo elemento di interesse è rappresentato dai segni che la pratica del primo Patriarca avrebbe lasciato nella grotta. La leggenda vuole che egli abbia creato un solco là dove la fissità del suo sguardo si posava e impresso la sua ombra sulla parete rocciosa.
Questi due ‘marchi’ sono indicativi innanzi tutto di una presenza ‘intensa’, termine quest’ultimo da intendersi etimologicamente come ‘ciò che è innanzi a’. In questo senso, l’ombra impressa sulla parete può rappresentare la realizzazione di quell’osservazione distaccata di sé, di quella costante consapevolezza (anche chiamata ‘presenza mentale’ o ‘chiara visione’), che costituisce una delle due tecniche della meditazione buddhista e non solo. Tale pratica prevede la focalizzazione su quattro oggetti: il corpo fisico, le sensazioni, i processi e i contenuti mentali. Il suo fine è la visione diretta dei fenomeni nel presente in cui si compiono (e compiendosi incessantemente si trasformano) e come tecnica richiede semplicemente una pura e totale attenzione: l’osservazione deve rimanere scevra da giudizi, attaccamenti o sentimentalismi, e l’osservatore indipendente dall’accettazione o dal rifiuto.

La concentrazione

Il secondo marchio lasciato nella grotta è il solco impresso dallo sguardo penetrante di Bodhidharma. Il senso richiamato da questa immagine è la vista, e l’intensità del guardare che essa comunica è un’altra espressione di quella forte presenza di cui parlavamo nel paragrafo precedente.

Le rappresentazioni tradizionali ci propongono Bodhidharma intento a fissare il muro di fronte a sé. Abbiamo già analizzato la portata del termine pi-kuan1, che va inteso in chiave metaforica e non letterale. Consideriamo ora la pratica del fissare, dimenticando per un momento il muro. Quando fissiamo qualcosa, l’operazione compiuta dal nostro sguardo (selezionare e isolare un oggetto dalla molteplicità del visibile) trova un’eco nell’operazione mentale di concentrazione. L’utilizzo del verbo ‘fissare’ in espressioni concrete come ‘fissare un chiodo al muro’ o astratte come ‘fissare un concetto in testa’ non è casuale, ma risponde alla medesima idea di ‘rendere stabile, fermare’.

La concentrazione su oggetti specifici rappresenta la seconda pratica tradizionale della meditazione buddhista, e può essere intesa come la forma guidata di quella ‘ginnastica mentale’ che è la meditazione. Mentre mantenersi consapevoli di qualunque cosa accada è caratteristico della ‘meditazione libera’, concentrarsi su un oggetto è la tecnica fondamentale della ‘meditazione mirata’. La concentrazione ha lo stesso fine della tecnica della ‘chiara visione’ e l’oggetto è solo uno strumento temporaneo. Esso viene abbandonato nel momento in cui avviene il passaggio dalla coscienza ordinaria alla dimensione meditativa.

Bisogna ricordare che le tecniche di meditazione e la dimensione meditativa sono due cose differenti: con le prime si indicano i mezzi utilizzati dal praticante, con la seconda il particolare stato di coscienza proprio nella meditazione.

La postura

L’ultimo elemento da prendere in considerazione è la postura: durante la meditazione, Bodhidharma è rappresentato, come il Buddha, in posizione seduta, immobile con le gambe incrociate e la schiena diritta. La posizione del loto (completa o parziale) è utilizzata ancora oggi nella maggior parte delle sale di meditazione sparse in tutto il mondo. Inoltre al di là delle differenze formali riscontrabili nelle diverse scuole, l’immobilità del meditante è considerata di fondamentale importanza.

La postura garantisce una coincidenza tra tecnica esteriore e fine: stare seduti immobili rappresenta il riflesso corporeo della meditazione, in quanto condizione extraquotidiana e stato di quiete corporea.
La nostra vita è fatta di movimento continuo e incessante, a livello mentale e fisico. L’arresto del pensiero discorsivo è quindi un tutt’uno con l’immobilizzazione corporea, e non potrebbe essere altrimenti poiché, se corpo e mente costituiscono un insieme integrato e interagente, il condizionamento è inevitabilmente reciproco.

Meditazione e vita quotidiana

La meditazione, con le sue tecniche e le sue posture, non è un fine ma solo un espediente, un mezzo per trascendere il condizionamento mentale che fin dalla nascita guida la nostra vita. Le tecniche di meditazione servono a creare le condizioni adatte affinché lo stato di illuminazione si sostituisca a quello di condizionamento nella vita di tutti i giorni: ciò che sperimentiamo durante la meditazione deve arrivare a permeare tutto il nostro agire, il nostro sentire, il nostro pensare.
Il Ch’an non propone alcuna sospensione della vita ordinaria, anzi ne sacralizza i piccoli gesti, esalta la semplicità delle esigenze corporee, valorizza il lavoro per procurarsi il necessario.
Il saggio non è colui che rinuncia a una vita attiva per passare la maggior parte del suo tempo di veglia seduto a gambe incrociate a sperimentare tecniche di meditazione. Egli non rinuncia neanche alla sua vitalità interna, alle sue emozioni, alle sensazioni e ai pensieri: semplicemente li vede per quello che sono e non prova attaccamento per essi, non li interpreta, non li giudica. Il saggio lascia scorrere.

Una storia Zen racconta di un monaco che, alla notizia della morte di un parente prossimo, cominciò a piangere disperato. Un suo condiscepolo gli fece notare che era molto strano ch’egli desse dimostrazione di un così grande attaccamento, vista la via da lui intrapresa. Ma egli rispose: «Non essere stupido, piango perché ho voglia di piangere!»

Nel momento in cui la mente ha riconquistato la sua unità originaria, muovendosi con sincerità senza oscillare tra alternative dicotomiche, ogni atto, ogni emozione, ogni sensazione, ogni pensiero è pervaso di naturalezza, di spontaneità, e la volizione è bandita per sempre. L’uomo illuminato non fa miracoli, né ha poteri taumaturgici o di preveggenza: non fa nulla di speciale, a parte vivere in modo spontaneo, sereno, armonioso, senza porsi falsi problemi, fluendo come la natura che lo circonda.

4.2.2 I metodi verbali

Il Ch’an ha elaborato nel corso dei secoli dei metodi peculiari. Il fine è lo stesso della meditazione. Cambia però il mezzo. In modo assolutamente razionale, il Ch’an considera l’impossibilità della mente intellettiva di conoscere se stessa. Nel tentativo di autoanalisi, la mente si dissocia da sé, trasformandosi in oggetto di conoscenza. La dualità che caratterizza la sua visione la porta ad applicare le categorie di soggetto e oggetto anche a se stessa, creando un doppio: in altre parole, tentando di conoscersi, il soggetto non fa altro che inseguire la sua ombra, senza riuscire mai a raggiungersi.

La conoscenza di sé non può quindi essere ottenuta con la mente intellettiva: l’ego, quell’entità separata e unica, figlia dell’intelletto, è pura illusione. I metodi verbali del Ch’an hanno lo scopo di portare alla luce i limiti e le contraddizioni della mente, utilizzando le sue modalità d’azione per spingerla fino al punto di rottura: l’impasse, la paralisi della mente che gira su se stessa, rivelerà l’impotenza degli strumenti conoscitivi dell’intelletto. Anche qui l’esperienza diretta è fondamentale, in quanto il salto della vera comprensione implica un passaggio di stato che non può essere causato che dal soggetto stesso. Come dice una poesia Zen:

Per salvare la vita bisogna distruggerla.
Quando è completamente distrutta,
si vive per la prima volta in pace.2

Comunicazione e linguaggio nel Ch’an

L’utilizzo dei metodi verbali presuppone naturalmente un atto comunicativo, che si svolgerà tra maestro e allievo. Abbiamo già notato quale uso i maestri del Ch’an facciano del linguaggio.

● Prediligono la forma dialogata, mimesi della realtà.
● Non lasciano che il loro parlare sia incatenato dalle convenzioni linguistiche: il loro linguaggio è creativo e originale.
● Evitano le discussioni astratte: il loro modo di parlare è sempre concreto e procede per esempi di esperienza comune.

In senso generale qualunque conversazione tra maestro e allievo mira a espandere la comprensione dell’allievo stesso. Il maestro ha a sua disposizione metodi diversi: l’uso del paradosso, la negazione degli opposti, le contraddizioni, le affermazioni, l’uso di ripetizioni o esclamazioni. Ognuno di questi metodi rappresenta un tentativo verbale di porre l’allievo di fronte all’incapacità stessa del linguaggio (e del pensiero discorsivo) di afferrare la realtà. Il paradosso e la contraddizione, per esempio, negano tutto ciò che il senso comune considera normale. Alla domanda: «Se una persona viene da voi senza nulla addosso, che cosa le direste?», un maestro Ch’an potrebbe rispondere: «Gettalo!», oppure dire ciò che prima aveva negato.

I maestri possono poi far uso di ripetizioni, affermazioni o esclamazioni prive di significato. Il fine sarà sempre quello di porre l’allievo di fronte all’incomunicabilità della verità. Per questo a domande che implicano un’indagine sul principio fondamentale del Buddhismo, per esempio: «Quale fu lo scopo della venuta di Bodhidharma dall’Occidente?», il maestro non risponderà con lunghe spiegazioni filosofiche. Al contrario, potrà ripetere la domanda, emettere un suono, affermare: «Nulla», o dire (come il maestro Hsiang–lin Yüan): «Quando si è restati seduti a lungo, ci si sente stanchi».3

Il fine di questi scambi verbali tra maestro e allievo è quello di mettere alla prova la capacità di quest’ultimo di trascendere il dualismo del condizionamento mentale: il maestro, quindi, non risponde mai per spiegare. Egli parla unicamente per indicare la Via, rimanendo sempre cosciente del limite delle proprie risposte e facendo un uso del linguaggio indipendente dall’intelletto.

Per il maestro Ch’an la coerenza e la logica, nel parlare come nell’agire, non sono che falsi valori, figli della stabilità con cui l’intelletto tenta di dipingere il quadro della vita. Uno dei metodi verbali, quello della negazione degli opposti, rappresenta una spiegazione concreta della necessità di abbandonare la logica dualistica ordinaria. La verità si astiene dall’affermazione come dalla negazione, quindi l’uso della parola deve limitarsi a ciò che può essere detto evitando dicotomie.

I kung-an

La storia del Ch’an è ricca di dialoghi esemplari, a partire da quelli tra Bodhidharma e Hui-k’o, Bodhidharma e l’imperatore Wu, Bodhidharma e i suoi quattro allievi.
Lo stile diretto della comunicazione dialogata è stato fin dai suoi esordi una caratteristica molto importante del Ch’an. La speciale trasmissione al di fuori delle Scritture implicava infatti una negazione del valore della lettera scritta e dello studio come mezzi di ricerca spirituale.

Tuttavia, nel corso dei secoli, gli allievi hanno cominciato a trascrivere gli insegnamenti dei loro maestri, in modo da fissarne il ricordo. Con il ramificarsi della linea patriarcale dopo il sesto Patriarca e con la diffusione sempre maggiore del Ch’an, tale fenomeno andò ampliandosi dando origine a un’enorme quantità di documenti.

La popolarità del Ch’an, che crebbe dopo le persecuzioni dell’anno 845, alle quali la scuola di Bodhidharma sopravvisse meglio di ogni altra, causò grossi cambiamenti anche nella vita comunitaria dei sempre più affollati monasteri. Nuove regole vennero introdotte e, mentre si compivano gli ultimi passi della trasformazione del movimento in istituzione, anche i metodi d’insegnamento necessitavano di un’uniformità che rendesse possibile l’addestramento di un numero estremamente vasto di allievi: così il peso della tradizione e della memoria tornò silenziosamente a permeare la vita dei monasteri.

Il sistema dei ‘kung-an’ (o koan, in giapponese) è un esempio di tale uniformizzazione. Si tratta di un insieme sistematizzato di indovinelli, la maggior parte dei quali estratti dai dialoghi trasmessi dalla tradizione. Il maestro propone all’allievo un racconto o un’affermazione paradossale, chiedendogli di risolverla e di tornare con prove a conferma della sua scoperta.

Esistono diverse raccolte di kung-an. Tra quelle cinesi le più utilizzate sono La raccolta della roccia blu del 1125, Il libro della serenità, anch’esso composto nel XII secolo, e Il passo di frontiera di Wumen del 1228. Il primo di questi si apre con un kung-an molto celebre.

«Un monaco chiese: ‘Un cane possiede la natura di Buddha?’ Chao-chou rispose: ‘No!’»

La risposta del maestro («No!») è l’elemento centrale dell’indovinello ed è su di essa che l’allievo dovrà meditare in ogni momento della giornata. La risposta di Chao-chou non nega in realtà la natura di Buddha del cane. Ma perché egli risponde di no? È su questo che l’allievo dovrà riflettere. Quotidianamente egli andrà a discutere con il maestro del suo livello di comprensione, scoprendo che nessuna spiegazione logica risolve il problema assegnatogli. Egli tenterà di afferrarlo con la mente intellettiva, e così facendo finirà con il girare a vuoto, ingarbugliandosi come un ragno che, filando la sua tela, cominci a girare su se stesso. Nel momento in cui il vortice dei pensieri sarà tale da creare un cortocircuito mentale, egli si renderà conto, in maniera del tutto intuitiva, di non sapere assolutamente nulla.

Ecco la realizzazione finale: la domanda non aveva in realtà alcun senso, fin dall’inizio non significava nulla, non aveva alcuna importanza. Eppure solo attraverso di essa egli ha potuto portare la sua mente fino al punto di rottura, rendendosi così conto dei limiti dell’intelletto.

4.2.3 I metodi gestuali

Alla meditazione e ai metodi verbali potremmo aggiungere una terza categoria di pratiche, quella dei metodi gestuali.

I maestri Ch’an sono celebri per la loro originalità, per la forte attenzione all’esperienza e alla pratica e per il loro utilizzo di mezzi anticonvenzionali. Se l’episodio di Hui-k’o che si taglia il braccio, risolvendo così in maniera assolutamente pratica il dilemma presentatogli dal maestro, può essere visto come un esempio estremo di sacrificio di sé, esso prefigura una pratica che andrà diffondendosi solo a partire dall’VIII secolo.
Questa prevedeva, in risposta alle domande dell’allievo, l’uso da parte del maestro di scosse, bastonate, grida e altri metodi violenti: la tradizione riporta casi di monaci che hanno raggiunto l’illuminazione nel momento in cui il maestro amputava loro una gamba chiudendo il portone del monastero, o scaraventava loro qualcosa addosso.

La violenza non è rivolta solo contro l’allievo, ma talvolta anche contro creature innocenti.
È famoso l’esempio del maestro Nan-ch’üan P’u-yüan, il quale, avendo sorpreso dei monaci a litigare sul possesso di un gattino, prese in mano l’animale e disse: «Se qualcuno di voi potrà dirmi almeno una buona parola, il gatto sarà salvo; altrimenti lo ucciderò».
Con ‘buona parola’ egli intendeva un’espressione che trascendesse affermazione e negazione. Ma nessuno dei monaci parlò, così egli tagliò in due il gatto. La sera dello stesso giorno il maestro raccontò l’episodio al suo futuro successore Chao-chou, il quale preso un sandalo se lo mise sulla testa e così uscì dalla stanza. «Se oggi fossi stato presente» disse il maestro «quel gatto sarebbe ancora vivo.»

4.2.4 Oltre la vetta

Abbiamo analizzato la varietà dei metodi di insegnamento dei maestri Ch’an. Tale varietà non si riduce agli esempi riportati ed è potenzialmente infinita. Sebbene infatti l’uso di tecniche sistematizzate come i kung-an risponda a esigenze di ‘commercializzazione’ (nel senso che l’uniformità del metodo è condizione della sua diffusione), l’interazione tra maestro e allievo nella quotidianità del loro rapporto è sempre nuova. Essa porta a elaborare metodi cangianti a seconda delle rispettive personalità e della loro interrelazione.

Ognuna delle tecniche presentate non è mai fine a se stessa, ma rappresenta solo un mezzo.
Il maestro, colui che è al di là dell’essere e del non essere, ci propone questi strumenti temporanei a seconda della nostra costituzione spirituale. Essi ci aiuteranno a scalare la montagna, ci forniranno un sostegno e talvolta, per rafforzarci, ci metteranno in difficoltà.

La vetta non è però la nostra meta. Come dice un proverbio Zen: «Quando arrivi in cima alla montagna continua a salire». Per compiere tale impresa dobbiamo abbandonare tutto, comprese le tecniche che ci hanno permesso di salire, e il motivo è molto semplice: lo stato di illuminazione non richiede alcun sostegno poiché è la vita vissuta nella sua completezza e unità assoluta.

Note
1. Il termine significa letteralmente ‘contemplazione del muro’. Si vedanopp. 73-74.
2. Citato in A.W. Watts La via dello Zen, cit., p. 165.
3. Citato in D. T. Suzuki Saggi sul Buddhismo Zen, Edizioni Mediterranee, Roma, 1975, p. 165.