Haṃsa Libera Scuola di Hatha Yoga

Shila Morelli

SIVANANDA

La partenza per la Malesia

Nonostante l’incessante ed entusiasta lavoro di cui si faceva carico con le attività del giornale e la professione medica il Dr Kuppuswamy sviluppò ben presto una certa insoddisfazione, un desiderio di raggiungere livelli più profondi di apprendimento ed esperienza. Così parlava agli altri medici: “La conoscenza dei libri non ci porterà lontano. Ho studiato anatomia. Ho sezionato il corpo umano. Ma non sono riuscito a trovare l’atman (l’anima) all’interno (del corpo umano)”14. La sempre più intensa esigenza di superare il limite della conoscenza scientifica si manifestò immediatamente con un’attitudine al servizio e alla devozione, tendenze già presenti in Kuppuswami dall’infanzia: “Il servizio non egoistico è la più potente arma per indebolire l’ego. Ogni giorno devo compiere qualche atto di carità. Devo anche pensare a Dio con cuore pieno di desiderio”15, diceva il giovane dottore. D’altra parte egli sentiva anche la necessità di trovare un lavoro che gli permettesse un’esperienza medica più profonda, oltre che un modo di provvedere al giornale in maniera più stabile.
Lo spirito avventuroso gli fece intraprendere un lungo viaggio fino in Malesia; con tale scelta egli ruppe un altro tabù dell’Induismo secondo il quale l’attraversamento del mare comporterebbe la perdita dello status di brahmino. Egli non si curava di tali idee e nel 1913 salpò da Madras sulla S.S. Tara in direzione orientale, rispondendo ad una vera e propria chiamata; egli avvertiva che c’era un grande bisogno di aiuto in Malesia, dove migliaia di indiani erano impiegati nelle piantagioni di gomma, vivendo in condizioni fortemente disagiate e senza alcuna cura medica. La decisione di partire fu presa velocemente e la traversata si rivelò piuttosto estenuante16 per il giovane non abituato ai lunghi viaggi.
Una volta arrivato a destinazione, Kuppuswami, ottenuta una lettera di presentazione dal suo contatto, il Dr. Iyengar, venne subito introdotto alla presenza del manager della locale piantagione di gomma, Mr. A. G. Robinson. Questi gli propose immediatamente la gestione dell’Estate Hospital di Serembaran e i due si accordarono per una paga di 150 dollari. Il dottore seguitò a lavorare all’ospedale per sette anni, occupandosi della gestione del dispensario medico, della contabilità e dei malati; quegli anni non furono privi di difficoltà, dovuta più che altro alla negligenza del personale che non sembrava condividere il suo zelo così come la sua passione e la sua resistenza.
Conclusa la collaborazione a Serembaran egli raggiunse Johore, vicino a Singapore, e continuò ad esercitare presso il Johore Medical Office per tre anni. Il Dr. Kuppuswamy divenne ben presto conosciuto e ammirato per la sua bravura, tenacia e bontà, non solo all’interno dell’ospedale, ma anche al di fuori fra la gente comune.
Imparata la lingua locale fu in grado di assistere i nativi oltre che i lavoratori delle piantagioni; questa gente viveva spesso in condizioni estreme dal punto di vista medico ed economico e spesso non era in grado di permettersi alcun trattamento ospedaliero. Egli li assisteva con cura quasi materna e forniva loro supporto emotivo e sostegno pratico oltre che medico.
La naturale tendenza al servizio che lo aveva caratterizzato sin dall’infanzia aveva ora trovato una forma di espressione e una grande gioia riempiva il suo cuore, quando i pazienti erano finalmente liberi dalle malattie e dai problemi. La gente lo aveva affettuosamente soprannominato “Heart of love”, il cuore dell’amore: egli era un dottore del corpo che sapeva anche raggiungere il cuore e la mente.
Oltre alla cura dei malati il dottore si occupava anche della formazione del personale medico e spesso frequentava altri ospedali per approfondire le sue conoscenze; si specializzò nello studio al microscopio e nelle malattie tropicali. Anche le sue doti giornalistiche e di scrittore non vennero messe da parte: compilò molti articoli sul Malaya Tribune di Singapore e pubblicò diversi libri di argomento medico.

Nuove aspirazioni

L’incessante lavoro e il contatto con i più afflitti, la sofferenza e la morte furono uno stimolo alla forte ed innata spiritualità di Kuppuswami tanto che egli in seguito avrebbe detto: “Dio venne a me sotto le sembianze del malato”17. Studiava voracemente i testi spirituali e amava la compagnia di sadhu e sannyasin che accudiva con amorevole e generosa attenzione; il servizio disinteressato divenne un forte strumento di purificazione che piano piano aprì la sua vita a nuove prospettive e ricerche: “Occupai tutte le mie energie e il mio tempo a sollevare la sofferenza umana servendo i poveri e malati, giorno e notte, con un cuore compassionevole. Questo tipo di servizio non egoistico purificò il cuore e mi condusse sul sentiero spirituale”18.
Ciò che emerse fu una sana insoddisfazione, quesiti sul significato dell’esistenza ai quali egli volle sempre di più trovare una risposta. Crebbe in lui un’intuizione, la ferma convinzione che qualcosa d’altro oltre alla routine quotidiana, al nutrirsi, al dolore e alla miseria dell’esistenza dovesse esistere e che ciò andava conosciuto profondamente ed esperito.
In un momento di forte crisi la sua mente fu rischiarata e una nuova esistenza prese inizio: “Fu in questo momento critico della mia vita che Dio venne a me nelle sembianze di un mendicante religioso”19, raccontò in seguito; il Dr. Kuppuswami, infatti, curò un sannyasin itinerante che, colpito dalla sua amorevole dedizione, gli fece dono del Jiva-Brahma Aikya Vedanta Rahasyam di Cuddapah Satchidananda Swami, fornendogli così il primo insegnamento sul Vedanta20.
Era ciò che il dottore cercava e aspettava: una risposta positiva al percorso umano, una chiara presentazione dello scopo della vita sulla terra. L’esistenza che aveva condotto fino a quel momento assunse improvvisamente un significato diverso e il mondo materiale lo spinse sempre di più verso l’ardente aspirazione di seguire la strada dell’abbandono e della saggezza. Il dottore che durante la sua giovinezza amava acquistare vestiti di alta sartoria, cappelli e oggetti in oro, argento e legno di sandalo (a volte tutte le dita erano piene di anelli!), decise di diventare un sannyasin, privo di alcuna proprietà.
Nel 1923 egli abbandonò la Malesia e la sua vita di dottore di successo; rinunciò al mondo e fece ritorno in India: “Il solo ardente pensiero con il quale tornai in India era: devo realizzare Dio ora”, racconta Sivananda nella sua autobiografia e ancora: “bramavo soltanto di cancellare me stesso completamente, sedermi sotto un albero, cantare le lodi del Signore e fare japa21.
Dio gli si era rivelato come profonda aspirazione, come desiderio bruciante di fare sua esperienza nell’esistenza di tutti gli esseri22. Rinunciando al mondo egli divenne tutt’uno con il mondo.

L’ingresso nel mondo

Secondo la tradizione, l’esistenza di un hindu è divisa in quattro stadi detti ashrama23. Fra questi lo stadio del sannyasa, ossia della vita ascetica, nel quale la rinuncia al mondo diventa uno dei mezzi principi per la conoscenza dell’Assoluto. La scelta di diventare sannyasin (rinunciante) può avvenire al termine della propria esistenza o in giovane età; in entrambi i casi il voto di distacco è accompagnato da una celebrazione, una vera e propria iniziazione, che deve essere officiata da un Guru, un maestro spirituale. La rinuncia è una netta troncatura dei rapporti con il mondo, che si manifesta in primis come un cambiamento esteriore, metafora in realtà di una trasformazione radicata e profonda. Il suo reale significato allude, infatti, a un processo continuo, un viaggio verso la libertà del proprio ego il cui fine è l’abbandono di ogni immagine, idea, paura in grado di influenzare il nostro agire, verso la completa comunione con Dio.
Giunto in India, Kuppuswami scelse l’esistenza del monaco itinerante e incominciò il suo pellegrinaggio in cerca di un Guru. La vita di vagabondaggio era dura e richiedeva pazienza, equilibrio, adattabilità, resistenza e fede. Ben presto egli sviluppò tutte queste qualità e un’immensa pace riempì il suo essere. La strada, il cammino e l’incontro con yogi24 e saggi itineranti lo arricchì di una conoscenza nuova e sconosciuta.
Il destino lo condusse a Varanasi, la città sacra dove si dice ci si possa liberare dall’eterno ciclo di morte e rinascita; qui egli fu benedetto dalla visione (darshan) del Signore Viswanath (una forma di Shiva). Poi attraversate Nasik, Puna e altre città giunse fino a Dhalaj, un villaggio sulle rive del fiume Chandrabhaga, dove si fermò per qualche tempo diventando il cuoco tuttofare del direttore di un ufficio postale. Fu quest’ultimo che, colpito dalla sua personalità, gli consigliò di raggiungere Rishikesh: “Tu desideri una vita frugale nel pieno rispetto del prossimo. A Rishikesh troverai quello che cerchi senza doverti piegare a fare il servo in casa altrui”25, consigliò al giovane rinunciante.
Rishikesh, “la dimora dei saggi”, è una città santa nel nord dell’India, nello stato dell’Uttarakhand; considerata la porta d’ingresso dell’Himalaya, per la sua posizione ai piedi delle sacre montagne, sorge sulle rive del fiume Gange che qui scorre puro e veloce donando vita e bellezza all’area circostante. Le spiagge bianche, le immense roccie e la verde foresta completano il paesaggio, conferendo all’ambiente un’atmosfera di pace e serenità, che ha saputo attrarre numerosi ricercatori spirituali desiderosi di praticare intense austerità.
Kuppuswawi era proprio in cerca del luogo ideale per condurre una vita di reclusione e ricerca; Rishikesh sembrò fare al caso suo. Giuntovi l’8 maggio 1924, rimase abbagliato dalla fresca purezza del luogo, dai suoi colori e dalla sua atmosfera; incominciò a pregare per ottenere la benedizione di un Guru. La vita semplice dell’ultimo periodo e la purificazione del cuore ottenuta attraverso il continuo servizio avevano lavorato ad una tale profondità che Kuppuswami si sentiva pronto a ricevere il seme della conoscenza profonda e a condurre una vita di rinuncia e sola ricerca di Dio.
Le preghiere di Kuppuswami erano sincere e forti; non tardarono ad essere accolte e un giorno, mentre stava facendo abluzioni nelle sacre acque della Ganga, si trovò di fronte Sri Swami Viswananda Saraswati; il dottore non ebbe alcun dubbio, si trattava del suo maestro. Lo Swami26 , dal canto suo, riconobbe in lui non solo un discepolo, ma anche il prossimo Bhumandaleshwar o Signore della Terra e gli conferì l’iniziazione, celebrando il voto di rinuncia, confidandogli i segreti della liberazione e conferendogli il nome di Swami Sivananda Saraswati dell’ordine Sankaracharya; era il primo giugno 1924. Lo Viraja Homa27, il rito di sacrificio al fuoco che completa la cerimonia d’ingresso alla vita di sannyasin, venne compiuto dall’Acharya Sri Swami Vishnudevanandaji Maraj presso il Kailash Ashram.
Il neo Swami decise di non seguire il suo Guru ad Hardwar e Varanasi, ma di restare a Rishikesh per intraprendere la sua sadhana28 spirituale29.
Kuppuswami aveva ora finalmente intrapreso la vita di rinuncia a cui lungo aveva anelato; il cambiamento non era solo esteriore – egli ora indossava la tradizionale veste arancione dei sannyasin -ma soprattutto interiore: l’iniziazione gli aveva conferito forza, fede e conoscenza, il Guru aveva dissipato ogni oscurità e dubbio dalla sua anima.

Note
14. Autori vari, Swami Sivananda, a modern sage, Divine Life Trust Society Publication, WWW Edition, 2001, p. 3, (traduzione dell’autrice).
15. Autori vari, Swami Sivananda, a modern sage, Divine Life Trust Society Publication, WWW Edition, 2001, p. 3, (traduzione dell’autrice).
16. Il giovane, appartenente ad una famiglia ortodossa, e quindi vegetariana, aveva timore di non trovare cibo adeguato sulla nave e si era portato una buona riserva di dolci preparati dalla madre. Tale dieta sostenuta per tutto il viaggio si rivelò dannosa e Kuppuswami raggiunse la Malesia provato fisicamente.
17. Swami Sivananda, Autobiography of Swami Sivananda, Divine Life Trust Society Publication, WWW, 2000, p. vi. (traduzione dell’autrice).
18. Swami Sivananda, Autobiography of Swami Sivananda, Divine Life Trust Society Publication, WWW, 2000, p. 7. (traduzione dell’autrice).
19. Swami Sivananda, Autobiography of Swami Sivananda, Divine Life Trust Society Publication, WWW, 2000, p. vii. (traduzione dell’autrice).
20. Vedanta significa letteralmente “la fine dei Veda”, ossia la conoscenza completa dei Veda. La dottrina esposta in questi testi non è riconducibile ad un maestro in particolare, ma deriva direttamente dalle Upanishad.
21. Swami Venkatesananda, Lo yoga integrale di Sivananda, Edizioni Istituto di Scienze Umane, Roma, 1987, p. 133.
22. Si veda Swami Sivananda, Autobiography of Swami Sivananda, Divine Life Trust Society Publication, WWW, 2000, p. vii.
23. Yogin è colui che pratica lo Yoga.
24. Swami Venkatesananda, Lo yoga integrale di Sivananda, Edizioni Istituto di Scienze Umane, Roma, 1987, p. 136.
25. I quattro stati dell’esistenza si applicano unicamente agli appartenenti alle prime tre caste e sono: il Brahmacarin, studente che apprende i Veda e segue completa castità, il Grihastha, colui che compie la vita del capofamiglia, il Vanaprastha, si riferisce al capofamiglia che avendo visto nascere i figli dei suoi figli si ritira nella foresta diventando a sua volta maestro e Sannyasin, rinunciatario o anacoreta, conducendo una vita da mendicante itinerante.
26. Swami, letteralmente “Signore” è un titolo di rispetto conferito a maestri spirituali.
27. Viraja Homa o “Sacrificio universale” è l’ultimo passo nella cerimonia d’iniziazione all’ordine sannyasin e consiste in offerte (al fuoco) rivolte a tutti gli esseri al fine di ottenere la libertà del futuro rinunciatario da qualsiasi obbligo karmico.
28. Per sadhana si intente il percorso di realizzazione spirituale intrapreso dall’adepto (sadhaka).
29. Poco tempo dopo Swami Viswananda gli inviò da Varanasi le necessarie istruzioni per adempiere alla vita del rinunciatario.