Haṃsa Libera Scuola di Hatha Yoga

Maurizio Morelli

SIDDHARTHA IL BUDDHA

Il discepolato presso Arada

Quando si risvegliò, la luce del mattino iniziava appena a filtrare tra fronde e cespugli. Tutti gli uccelli della foresta intonavano canti di gloria in onore del nuovo giorno e della vita che sempre risorge.
Era rimasto incosciente per tutta la notte e gran parte del giorno precedente, in uno stato simile al sonno profondo. In tal modo la forza che il maestro gli aveva donato aveva potuto fissarsi in lui, entrare nelle ossa e nel midollo, penetrare nella carne, nei nervi e nel sangue. Si sentiva meravigliosamente Siddhartha, e ritrovatosi solo in quella piccola radura non si stupì né fu colto da tristezza.
Come un torrente in piena precipita a valle sbaragliando senza fatica ogni ostacolo, così Siddhartha si mise in cammino verso Vindhyakostha.
La foresta era la sua casa, alberi e bestie pari a fratelli e sorelle, la terra sua madre, e suo padre il cielo scintillante. Mai si era sentito così forte, controllato, equilibrato, concentrato eppure aperto verso ogni cosa. Poteva percepire il suono della foglia che, abbandonando il ramo, scende volteggiando verso il suolo, il passo frettoloso della formica, l’odore di una sorgente lontana e quello di ogni fiore che sboccia nella quiete del primo mattino, il fruscio dell’erba che cresce non meno di quello del serpente che cerca la sua preda o della corteccia che lentamente si sgretola.
La foresta parlava a Siddhartha, gli raccontava di sé e dei suoi abitanti, ed egli camminava sereno, in compagnia di quei meravigliosi amici. Rimase in quella felice condizione per quasi tutta la giornata. Poi il pensiero di ciò che doveva compiere e della meta da raggiungere riprese possesso della sua mente, e quella magia, così come era cominciata, gradualmente si perse.
Egli tornò a essere Siddhartha in cammino verso Vindhyakostha per raggiungere la vera conoscenza grazie alla guida del grande maestro Arada.
Maestro di chiara e sicura fama, Arada aveva un gran numero di allievi che assieme a lui vivevano in un’amena località sul margine della foresta, né troppo vicina né troppo lontana dal centro abitato, ricca di ombra, acqua e spazio. Tra i discepoli alcuni si erano costruiti piccole capanne di canne e paglia, simili a quella in cui lo stesso Arada alloggiava, altri invece vivevano alla base di un albero, dormendo sulla nuda terra.
Quando non erano occupati a mendicare o ad assolvere elementari compiti loro affidati, si dedicavano alla meditazione, sia da seduti sia camminando.
Siddhartha, avvicinandosi all’agglomerato, ne incontrò molti che sedevano immobili come rocce, le gambe intrecciate, le labbra socchiuse e gli occhi rivolti al cielo interiore (al centro della fronte), mentre altri, passeggiando placidamente con lo sguardo aperto, percorrevano tra gli alberi sentieri che i piedi di molti, dediti alla stessa pratica, nei decenni avevano reso ampi e ben tracciati. Giunse infine al centro di quel luogo di santità in cui, al margine di un ampio spazio, sorgeva la capanna del maestro Arada.
Si fermò in attesa, si inginocchiò e chinò il capo.
L’assemblea si riuniva nel tardo pomeriggio, e le era compagna la fresca brezza della sera. Uscendo dalla sua capanna, Arada prese posto su uno scranno di legno, sistemato in posizione elevata. Era un uomo maestoso, i lineamenti del falco, gli occhi accesi e penetranti, il torace possente, il corpo scuro e asciutto come un tralcio di vite. Quando si sedette, tutti ebbero la sensazione che nessuna forza avrebbe potuto smuoverlo.
Dopo che i presenti espressero gli interrogativi che più stavano loro a cuore, e avendo quelli ricevuto risposte adeguate, allora Siddhartha fu invitato a parlare.
La sua voce, a lungo addestrata al canto, si sparse melodiosa e forte: «Poiché me lo chiedi e consenti ti rivelerò chi sono e ciò che sono qui venuto a cercare» disse Siddhartha rimanendo inginocchiato e mantenendo un atteggiamento di estremo rispetto.
«Sono nato da nobile stirpe e per tutta la vita ho vissuto prigioniero dei miei sensi, nel buio dell’illusione. Un vecchio mi ha mostrato l’inevitabilità del decadimento e della morte, e nel mio cuore è scesa la notte più profonda. Un monaco mi ha mostrato la luce e ridato la speranza. Così, abbandonata ogni cosa, sono andato nella foresta e sono stato istruito dai Samana, che sono assai abili e potenti e che nel cuore hanno solo il desiderio di perfezione. Colui che sino a pochi giorni fa è stato il mio maestro e il cui nome è Bhagava, essendo libero da orgoglio e cosciente dei propri limiti, mi ha inviato da te per essere istruito. Egli ebbe a dire che, tra tutti coloro che diffondono la verità, il tuo insegnamento brilla come un diamante tra i sassi, e che da te avrei potuto imparare ciò che gli altri ignorano. Per questo, facendo mie le sue parole, ti prego di accogliermi come tuo allievo.»
Piacque ad Arada quel discorso, e il modo e l’atteggiamento con i quali era stato pronunciato. Come i figli portano gloria o discredito ai loro genitori, così i discepoli fanno per il maestro: sicuramente una grande fama sarebbe derivata alla sua scuola da un simile adepto, su questo Arada non nutriva dubbi. Nobile non solo di nascita, ma anche nell’aspetto e nel gesto, fluido e armonioso nell’eloquio, determinato nella ricerca, assetato di verità, forte nel carattere, acuto nel pensiero e dotato di grande potere, così egli valutò Siddhartha.
Presa la parola, rispose alla preghiera che gli veniva rivolta: «Chi conosce i propri limiti si evita grandi dolori, ma nessuno è più saggio di colui che sa allontanare da sé l’orgoglio, che oscura persino gli dei» disse. La sua voce aveva la forza del tuono e la dolcezza del ruscello, e persino gli scoiattoli sugli alberi si immobilizzarono e rimasero ad ascoltare.
«Così, rendendo onore a chi mi ha tanto generosamente onorato, ti accolgo tra noi. In virtù del noviziato che hai svolto presso un così grande maestro, ti esonero dall’essere novizio e ti ammetto nell’ordine senza ulteriori formalità. Inoltre stabilisco» e qui il tono della sua voce divenne ancora più maestoso e profondo «che sarò io stesso a istruirti, a iniziare da domani».
Così disse. Poi, sciolta la riunione, si immerse nella più profonda meditazione. Silenziosi i monaci si dispersero, lanciando occhiate di stupore e meraviglia in direzione di Siddhartha.

Seduto di fronte al maestro su uno scranno di legno, attento e rispettoso, Siddhartha ricevette il suo primo insegnamento. Arada lo istruì circa la molteplicità di ciò che costituisce l’esistenza, cioè i cinque elementi sottili e i cinque grossolani, i sensi di percezione e di azione, il senso dell’Io, la mente inferiore e quella superiore.
«Ciò che è generante e generato, questo è il campo dell’esistenza sottoposto al ciclo di morte e rinascita. Ma colui che conosce il campo senza farne parte, costui è ciò che i saggi conoscono come il Sé, il Brahman, che ingenerato e ingenerante è alieno da nascita e morte, ma sempre sussiste uguale a se stesso.
«Come lo specchio riflette un oggetto, senza che per questo esso divenga parte dello specchio o lo modifichi, così il Sé feconda la materia; da ciò scaturisce il manifesto nelle sue infinite forme, che nella loro essenza non sono altro che Maya.
«Distinguendo ciò che è reale da ciò che è solo apparenza, attenendosi al primo e ricusando il secondo, così il saggio si affranca dalla schiavitù del divenire.
«Distinguendo ciò che è reale da ciò che non lo è, il saggio viene svincolato dall’ignoranza, e astenendosi dall’azione che produce karma, dal desiderio per gli oggetti dei sensi, dall’identificazione con l’Io transitorio, dall’aderire ad alcunché, con la mente, la parola o l’atto, realizza la retta conoscenza. Egli è costantemente in grado di distinguere il reale dall’irreale, ciò che è illuminato dal suo contrario, il manifesto dal non manifesto, l’impermanente dal permanente, ciò che è caduco dall’eterno.
«Coloro che comprendono la via che conduce al supremo Brahman si dedicano senza esitazioni all’ascetismo; compiendo ciò che tu stesso hai già compiuto, abbandonano ogni legame e, ritiratisi in un luogo solitario, si dedicano alla disciplina con ogni fibra del loro essere. Compreso il pericolo mortale che proviene dalla passione e dal desiderio, se ne astengono e, sempre soddisfatti, ignorano gli opposti, estendendo la propria imperturbabilità al corpo, ai sensi, alle emozioni e alla mente.
«Raccogli la tua concentrazione su quanto esposto. Seduto e camminando, trattenendo il respiro o respirando, medita su queste verità, sino a quando la discriminazione non sia saldamente ancorata in te.»

Così disse Arada.

Felice di quell’insegnamento e desideroso di sperimentarlo, Siddhartha, dopo essersi accomiatato con i dovuti modi dal maestro, si diresse verso lo spiazzo alla base di un grande albero che aveva eletto a sua dimora.
Stando seduto meditava; camminando meditava. Come nella sua prima esperienza tra i Samana, la sua mente si divise in due, ma non c’era più uno spazio intermedio dove egli potesse stare: un lato era luminoso, in esso abitava lo spirito, il supremo Brahman; l’altro, tenebroso e oscuro, si andava sempre più riempiendo di ogni oggetto di cui egli aveva fatto esperienza, di ogni sensazione, emozione, sentimento, memoria.
Con il viso rivolto alla luce, egli scartava tutto il resto, essendo le infinite varietà della manifestazione null’altro che inganni di Maya.
In virtù della sua granitica determinazione raggiunse rapidamente quel tipo di beatitudine che scaturisce dalla discriminazione tra ciò che è reale e ciò che non lo è, tra vidya e avidya. Ma ogni volta, terminata la meditazione, questo stato di benedizione scompariva ed egli tornava a essere Siddhartha. Allora, incolpando se stesso e la propria debolezza nella pratica, si impegnava con maggior vigore, rimaneva seduto per ore e ore, spingeva la sua concentrazione a maggiore profondità, ma da tali stati ogni volta risorgeva senza
avere trovato ciò che stava cercando.
Siddhartha avrebbe potuto facilmente procurarsi il cibo nella foresta, ma per umiltà aveva adeguato il suo comportamento a quello degli altri monaci, che mendicavano ogni mattina nei villaggi vicini.
Per non sottrarre tempo alla meditazione, decise di alimentarsi solo una volta ogni due giorni, senza per questo ottenere risultati sostanziali, se non quello di divenire ancora più magro e scavato. Solo con il tempo si rese conto di come, riemergendo da quelle profondità in cui stava immerso per la maggior parte della giornata, la natura del suo sentire si fosse profondamente modificata.
Non avrebbe potuto affermare di essere un altro, e tanto meno di essersi liberato dai legami dell’ego, ma il campo del percepito risultava modificato. Ora la foresta non gli sussurrava più, né i fiori liberavano profumo al suo passaggio; non si commuoveva incontrando un uccellino morente o di fronte a un albero schiantato dal vento o dal fulmine, e la brezza della sera non aveva più canzoni per le sue orecchie. Tutto questo non faceva più parte del suo mondo, non era altro che illusione, egli viveva nella luce dello spirito, che brilla come una fiamma in una notte senza vento, immobile e sempre uguale a se stessa.
Avvertiva un certo orgoglio per questo suo nuovo modo di essere, che lo faceva sentire protetto e inviolabile, eppure cresceva in lui un senso di perdita, di mancanza, di vuoto. Dov’erano finiti l’amore e la compassione che da sempre, istintivamente, aveva provato per tutte le creature? Tali sentimenti erano stati per lui vivi e presenti sin dalla nascita, come una seconda pelle, anche se ne aveva preso coscienza completa solo a una certa età, in un’occasione speciale di cui conservava un ricordo vivido e preciso.
Era ancora poco più che un bimbo e il padre lo aveva portato con sé nelle campagne, dove si svolgeva una festa dedicata alla madre terra. Nel regno dei Sakya tutti si erano resi conto di come, dopo la nascita del principe, ogni cosa avesse iniziato a prosperare oltre misura e la sua presenza, considerata di buon auspicio per i raccolti, era stata richiesta con insistenza. Suddhodana non aveva potuto esimersi e, pur circondandolo di una fidata compagnia, lo aveva condotto con sé. Tra i campi rigogliosi, Siddhartha aveva lasciato correre il suo sguardo innocente e, vedendo quei solchi profondi, quegli uomini e quelle donne bruciati dal sole e curvi nella fatica dell’aratura, l’erba sradicata, gli innumerevoli vermi tagliati dal vomere e preda degli uccelli, era stato colto da un grande sconforto, da
una pena infinita, da una compassione senza limiti.
Non sopportando oltre quello spettacolo, aveva provato l’impulso di ritirarsi, di spostarsi altrove e, sedutosi a gambe incrociate tra le radici di un gigantesco Jamboo, aveva istantaneamente raggiunto uno stato di profonda pace, tale che, pur essendo calato in tutta quella sofferenza, egli stava altrove, nella pace perfetta.
Poi i cortigiani gli si erano stretti intorno, il chiasso lo aveva richiamato alla festa e il ricordo di quell’esperienza si era dissolto, per ritornare vivo e pulsante dopo tanti anni. Eppure una parte di quella profonda comunione con tutte le creature era rimasta silenziosamente intatta in lui, e talvolta lo rapiva nella contemplazione di una lucertola, un filo d’erba, un corvo o una libellula. Nei lunghi mesi trascorsi nella foresta, questa naturale inclinazione si era ampliata e perfezionata, e più volte lo aveva portato all’estasi. Ora tutto questo era stato spazzato via.

Arada, che era assai contento del suo nuovo allievo e coltivava in cuor suo grandi progetti per lui, non attribuì alcun conto ai suoi dubbi, considerandoli pure reazioni a un così rapido progresso del suo ego soggettivo in disgregazione. Invece incitava Siddhartha a continuare nei suoi sforzi, seguendo la via che aveva intrapreso. Avendo appurato la stabilizzazione nel primo livello di Samadhi, lo introdusse al secondo da cui la riflessione della mente, causa di turbamento e distorsione, è anch’essa esclusa.
Ed essendo stata anche questa condizione facilmente raggiunta, lo guidò fino al punto in cui, superata la beatitudine, non resta altro che la felicità.
Questo cambiamento pacificò molti dubbi e spinse Siddhartha a una rinnovata fiducia. Da tempo egli si era reso conto di come la beatitudine in cui entrava con la meditazione, seppure purificata e maggiormente duratura, non fosse poi diversa da quella che chiunque, dotato di gioventù e forti lombi, può trovare tra le braccia di una cortigiana ben addestrata ed esperta nelle sessantaquattro posizioni dell’amore. Abbandonarla per entrare in uno stato di felicità senza estasi fu da lui considerato un grande traguardo.
Raggiunta stabilità in questo stato, egli venne guidato con perizia dal maestro a concepire lo spazio vuoto interno del suo corpo e a identificarsi con esso, estraniandosi dalla solidità. Raggiunto il silenzio della mente concepì se stesso e l’universo come vuoti. Così, rimosso ogni ostacolo, pervenne alla coscienza del supremo Brahman.
«Nulla esiste se non il Brahman, Io sono Lui.» Ciò sperimentava Siddhartha nella sue meditazioni ma, uscendo da queste, egli si ritrovava nella propria carne, sangue, mente e memoria e, benché trasformato, ancora legato a nascita e morte. E come la goccia consuma la roccia, così il dubbio circa l’efficacia di quelle pratiche prese a consumare la potenza dell’esperienza.
«Se il Brahman è l’origine di ogni manifestazione, come è possibile superare nascita e morte rifugiandosi in Lui?» domandò ad Arada.
«Come all’interno di un’arena splendidi cavalli ben addestrati vengono spinti al galoppo, e iniziano e terminano la loro corsa nel medesimo punto, così è l’esistenza, che inizia e termina il suo percorso nel Brahman.»
Meravigliose sembrarono queste parole a Siddhartha. Per molti giorni si dedicò alla meditazione con ardore e dedizione, ma poiché la sua mente era acuta e versata nell’analisi così pensò: «Nessuno costruisce un’arena per una sola gara, e da dove una volta sono partiti i cavalli altri ne partiranno. Così, trovando rifugio nel Brahman, per un’intera era sono evitate nascita e morte, ma non estinte per sempre». Comprese in tal modo che, seguendo quella via, mai e poi mai avrebbe potuto raggiungere il suo scopo, neppure se fosse rimasto seduto per mille volte mille anni. Ora lo spirito brillava in lui, e lo avvolgeva e consumava come fa la fiamma con la legna secca.
Lui stesso era divenuto come un diamante tra i sassi. Ma questo non era sufficiente.
Considerò che, non essendoci differenza sostanziale tra un sasso di fiume e una pietra preziosa, se non nell’opinione di chi li osserva, l’unico vantaggio che aveva conseguito con quelle pratiche era una maggiore considerazione da parte di Arada e dei suoi seguaci.
Mentre così pensava giunse un monaco che lo invitò a recarsi dal maestro. Seduto vicino alla sua capanna Arada lo accolse con la massima cortesia.
«Ciò che ho da dirti è inusuale e sicuramente susciterà dei malcontenti nella comunità, ma alla fine tutti converranno con me e la serenità sarà presto ristabilita» iniziò a dire il maestro.
«La rapidità e completezza dei progressi da te compiuti ti ha portato al mio stesso livello ma, mentre io sono ormai anziano, tu sei nel fiore degli anni. Perciò ti invito a condividere con me la guida di questa comunità così che tu sia pronto, quando verrà per me il momento di lasciare il corpo mortale, a condurla verso la più chiara fama e il maggiore successo.»
Succintamente terminato quanto aveva da dire e già sicuro della risposta, rimase immobile in attesa.
Come accade quando il mandriano, urlando troppo forte per richiamare il vitello recalcitrante, lo spaventa e lo fa fuggire, così le parole di Arada spinsero Siddhartha ad allontanarsi.
«Come mio padre voleva legarmi con il regno, così costui vuole fare con la sua scuola, e ora fatico a distinguere il secondo dal primo» pensò tra sé «ma essendo il mio scopo la suprema realizzazione, conveniente è per me lasciare questo come ho fatto con l’altro».
E se le considerazioni sulla dottrina e sul metodo già da tempo lo spingevano ad abbandonare il discepolato, la risposta che quell’offerta richiedeva lo portò alla decisione. Con parole gentili, con umiltà, schernendosi per il grande onore, egli prese commiato e, quella stessa notte, silenzioso come una nuvola, si allontanò per sempre da quel consesso di saggi.