Haṃsa Libera Scuola di Hatha Yoga

Maurizio Morelli

SIDDHARTHA IL BUDDHA

Il distacco

Siddhartha abbandona Yashodana

 Se il singhiozzare affranto del suo signore aveva addolorato e preoccupato Channa, il ricordo degli avvenimenti di quella terribile notte gli provocò un’ansia incontenibile, ed egli iniziò a mordersi le labbra. Erano trascorsi parecchi mesi e da allora ogni nuovo giorno era stato peggiore di quello che lo aveva preceduto.

Quando i due, Siddhartha e il vecchio, erano stati buttati al suolo come sospinti da una forza magica, lo spavento generato dallo spettacolo si era trasformato per Channa in puro terrore. Temendo il peggio aveva cercato di rianimare il giovane principe; solo dopo averlo scosso a lungo e dopo aver versato acqua sul suo viso era riuscito a riportarlo alla vita. Allora entrambi avevano rivolto la loro attenzione al vecchio, ma egli era ormai freddo e vuoto: un sottile sorriso era impresso su quel volto che nella morte appariva sereno, mentre i rosati chiarori dell’alba già mettevano in fuga la notte. Anche il miasma, che appena pochi minuti prima aveva ammorbato l’aria, si era dissolto e al suo posto si percepiva una sottile fragranza di sandalo.
Siddhartha era inebetito come fosse stato stregato, e il suo servitore dovette quasi trascinarlo per riportarlo al palazzo, dove riuscirono miracolosamente a rientrare senza essere scoperti.
Ma i guai non erano finiti. Per Channa era cominciato l’inferno.

Il Siddhartha che tutti conoscevano e amavano non c’era più. Come se il suo spirito fosse stato spezzato per sempre, egli si aggirava tra sale e giardini, inappetente e distratto, indifferente e scontroso. I suoi gesti e il suo sguardo esprimevano talvolta ripugnanza, altre rabbia e sconforto. Né musiche, né cortigiane, né il profumo di cibi prelibati riuscivano a distoglierlo fosse pure per un solo secondo dal suo atteggiamento.
Neppure mostrò interesse quando la virtuosa Yasodhara gli si avvicinò per annunciare, a lui e all’intero regno, che presto sarebbe divenuto padre; al contrario, se ne andò silenzioso e da quel giorno prese a trascorrere le giornate chiuso nelle sue stanze, allontanando chiunque osasse disturbarlo.
Sebbene il suo corpo ancora abitasse quella casa, ormai Siddhartha viveva altrove. Ogni notte usciva segretamente dal palazzo e da Channa pretendeva guida e insegnamento. Tutto voleva sapere, della vecchiaia, della malattia, della morte, della sofferenza che ormai erano per lui ossessione; voleva vederle, voleva toccarle. Non più sentieri boscosi e rive solitarie cercava nel corso delle sue evasioni, ma travestito come uno del popolo voleva visitare malati e moribondi, accostarsi ai mendicanti, toccare cadaveri.
Poi una notte, quella notte, gli chiese di portarlo nel parco di Lumbini dove sua madre lo aveva partorito, trovando per questo la morte. E così era stato, e ora se ne stava lì a piangere mentre l’oscurità volgeva al termine e Channa non sapeva decidersi a chiamarlo per tornare al palazzo.
Fu allora che si udì un fruscio lontano, un leggero rumore di foglie calpestate che andava avvicinandosi. La bianca luna, tonda e splendente nel cielo terso e ancora punteggiato di stelle, guardò giù e sorrise.
Non invano era trascorsa la notte e grandi eventi stavano per compiersi mentre l’astro lattiginoso terminava il suo pellegrinaggio. Siddhartha si riscosse dai singhiozzi non meno che dai pensieri e aguzzò sguardo, udito e olfatto, mentre Channa già gli si poneva dinanzi pronto a difenderlo. Era un suono di passi leggeri e ben cadenzati quello che si andava avvicinando, così tranquillo e sicuro che nel cuore dei due giovani un senso di pace sostituì l’allarme di poco prima.
Ed ecco che il camminatore apparve: era un uomo magro e lacero che avrebbe suscitato pena se il suo volto non fosse stato così sereno e aperto, risplendente di una gioia che veniva dall’interno e si spandeva attorno come un’aura luminosa. Indossava la veste dei rinuncianti che, assieme alla ciotola, costituiva tutte le sue proprietà.
Giunto che fu davanti a loro unì le mani sul cuore e si inchinò leggermente, ricevendo in cambio un uguale saluto. Non ci furono altri gesti, né parola alcuna venne pronunciata, ma semplicemente il monaco fissò a lungo Siddhartha negli occhi ed egli si sentì rovesciare da dentro, e tutta la sua pena, la rabbia, le frustrazioni, l’angoscia, i dubbi e la paura fluirono fuori da lui. Gli sembrò che la terra si aprisse per accoglierli, e si sentì incredibilmente leggero e vuoto come fosse diventato trasparente al pari del cristallo o dell’aria.
L’eternità si dispiegò per intero in quei pochi minuti, poi il monaco sorrise all’uno e all’altro e, con lo stesso incedere armonioso con cui era giunto, si allontanò e solo pochi istanti dopo era scomparso.
Channa seguì con lo sguardo la sua ombra che si mescolava a quella degli alberi, ma voltandosi gli sembrò di vederlo ancora accanto a sé. Come un paesaggio appare gradualmente nella nebbia che si dissolve, a ogni istante più definito, così la figura di Siddhartha emerse dall’immagine del monaco, il volto circonfuso di luce, e Channa seppe che le fatiche e le speranze di Suddhodana sarebbero state presto deluse.
Non ci furono altre uscite e molti, tra cui il padre, la moglie e tutti quelli che più gli erano vicini e lo amavano, ebbero modo di gioire del mutato umore del principe. Resi ciechi dalle troppe speranze che ora sembravano realizzarsi, non sapevano riconoscere in quella quiete il preludio della tempesta. Solo Channa sapeva, ma la sua bocca era cucita.

Per quasi tre giorni Siddhartha rimase in uno stato di grazia, come pervaso da una tranquilla felicità che lo portava a sorridere dolcemente a tutti coloro con cui aveva a che fare, Yasodhara non meno che i domestici o le danzatrici. Nel suo sguardo c’era l’innocenza di un bimbo che guarda le cose per la prima volta e, anche se la sua bocca rimaneva muta, a nessuno negava un gesto gentile o un segno di considerazione.
Trascorreva lunghe ore nel parco passeggiando lentamente tra le aiuole, immerso nel profumo e nei colori dei fiori che facevano da corona al silenzio della sua mente.
Poi la magia iniziò a sfaldarsi, i pensieri di sempre tornarono gradualmente a possederlo con tutto il loro bagaglio di ansie, domande, dubbi, tristezza e infelicità. Quello che solo il giorno prima gli era sembrato chiaro e sicuro tornava a essere oscuro e confuso. Ma non per questo si lasciò prendere dallo sconforto. Le esperienze degli ultimi mesi lo avevano profondamente trasformato. Non era più un ragazzo viziato, ma un uomo in grado di compiere scelte, determinato a riprendere padronanza sulla propria vita.
Mentre i pensieri tornavano a scorrere come fiumi in piena, egli si limitò a osservarli come spostandosi da un lato, senza cercare di fermarli ma evitando così di esserne travolto. Da tale posizione poteva mantenere un certo distacco, come se quanto pensava fossero pensieri di un altro. Solo raramente quei contenuti suscitavano in lui emozioni laceranti o lo scaraventavano nell’angoscia, nella tristezza o nella rabbia.
Nello stesso modo in cui un giardiniere osservando una pianta ne valuta con attenzione le condizioni del tronco, dei rami, delle foglie e dei fiori, stabilendo le azioni opportune da compiere, così Siddhartha prese coscienza di sé, della propria vita, di ogni fatto e avvenimento, e giunse a comprendere quello che gli spettava fare.
Fu un processo lungo e faticoso, non semplice e lineare: i pensieri si presentavano confusi e contraddittori, e quando finalmente uno si delineava con chiarezza, subito un altro sorgeva a contraddire, mentre un terzo suggeriva nuove ipotesi.
Talvolta lo sconforto e la confusione prendevano il sopravvento ed egli abbandonava quel compito ingrato per tornare alla vita di sempre, ma il vino aveva ormai un sapore acido, la pelle delle cortigiane era priva di freschezza, la musica risultava stonata e fastidiosa.
Allora si immergeva nuovamente nei suoi pensieri, ogni volta più determinato nel portare a termine il compito che si era proposto.
«Per quasi tutta la mia vita ho vissuto nell’ignoranza, avvolto nei piaceri come un baco nel bozzolo. Nessuno ha mai sperimentato i godimenti e il lusso che a me sono stati concessi, tali da suscitare l’invidia degli dei, eppure non posso dire di essere stato felice in questi luoghi, che non sono scevri dal decadimento e dalla distruzione. Ho vissuto come un cieco e la mia mente era ottenebrata.
«Il vecchio mendicante mi ha trasmesso la consapevolezza del dolore, della malattia e della morte inevitabile, scaraventandomi così in un abisso di disperazione. D’un tratto tutto mi è apparso vano, stupido, volgare e inutile, eppure in tal modo il vuoto che era nella mia vita è stato colmato. È stato un bene e questo mi ha fatto capire che il dolore è talvolta più utile del piacere. Ma se non ci fosse altro, allora l’unica soluzione sarebbe uccidersi, essendo distrutta ogni speranza.
«Anche il monaco mi ha fatto un dono, il più grande che si possa ricevere. Ma per lungo tempo non ho compreso la sua natura. Ero un bimbo viziato, abituato a prendere senza nulla dare in cambio, e mi sono illuso che la pace della mia mente fosse il dono, senza capire che si trattava solo dell’involucro. Nessuno può dare pace a un altro, ognuno deve trovarla da sé. Ma la pace esiste e può essere trovata, il monaco mi ha indicato la via e a me non resta che seguirla. Questo è l’impareggiabile regalo che ho ricevuto, il resto può essere ottenuto solo come risultato delle mie azioni.
«Abbandonare questo luogo rinnegando nome e stirpe, questo deve essere fatto. Recarsi nella foresta e opportunamente guidato raggiungere la suprema illuminazione. Questa è la strada da percorrere.»
Mentre tali pensieri si compivano nella sua mente, finalmente chiari e stabili, un notabile di palazzo gli si avvicinò e, con un’euforia appena trattenuta dal rispetto che gli doveva, annunciò la nascita di suo figlio. Nel suo cuore la gioia per quella notizia fu subitaneamente offuscata da un cupo pensiero, perché un nuovo legame si era creato, più forte e stretto di qualsiasi altro, e molto dolore avrebbe comportato il reciderlo. Allora decise per suo figlio il nome di Rahula e dopo avere convocato Channa si ritirò nelle sue stanze.

Una grande festa si tenne a palazzo, sontuosa più di ogni altra e solo a notte fonda clamore e musica cedettero il posto al silenzio e alla quiete. Siddhartha, la cui determinazione era rigida come il vetro e altrettanto fragile, si era tenuto in disparte temendo che, anche una sola parola o un gesto, avrebbero potuto indebolire il suo intento e spingerlo a rinunciare. Forte era la pena che provava, perché i legami che aveva deciso di spezzare ancora saldamente stringevano la sua vita, e non sapeva risolversi a partire senza aver visto il figlio che stava per abbandonare, e con lui la moglie che tanto gli era devota.
Si recò allora nelle stanze nuziali e trovò entrambi placidamente addormentati, l’uno accanto all’altra. A lungo li contemplò, e l’amore e l’affetto si mescolarono in lui con il dubbio e il rimorso. Come poteva abbandonarli? A che scopo restare e continuare a condurre una vita falsa e inutile? Ma se la morte non può essere evitata, come avrebbe potuto mantenersi unito a loro? Rimandare non era una soluzione, la separazione era inevitabile, e allora perché restare? Dubbio e angoscia si succedevano, e se per un attimo si sentiva determinato alla partenza, subito dopo decideva di rinunciare. Confuso si allontanò dal figlio e dalla sposa, ancora incerto sul da farsi.
La festa si era trasformata in un baccanale, di cui rimanevano tracce in ogni sala del palazzo. Ovunque erano sparpagliate stoviglie rotte, chiazze di vino, resti di cibo, pezzi di abiti, sandali, vomito e mobili rovesciati. Molti dei partecipanti non erano riusciti a rientrare nelle proprie stanze, troppo ebbri e sconvolti anche per compiere un solo passo, e i loro corpi giacevano abbandonati nel sonno sui divani, sui tavoli e anche sul pavimento, mescolati alla sporcizia. Una fanciulla, la cui bellezza Siddhartha aveva più volte ammirato, ora giaceva scomposta al suolo, una gamba su un sedile e l’abito sollevato, mentre un rivolo di saliva le colava dalla bocca semiaperta.
A un’altra, che ancora stava abbracciata al suo amante, era colato il trucco impiastricciandole il viso, e mentre dormiva ansimava e russava. Un giovane, che era pari a Siddhartha per età e simile per lignaggio, stava disteso nel sudiciume, il bell’abito macchiato di salsa, con il viso sul seno scoperto di una cortigiana e, non ancora sazio, sembrava suggere con la bocca come un bimbo dal petto della madre.
Ovunque guardasse Siddhartha non vedeva che degradazione, volgarità e bassezza.
«Questi sono i compagni con cui ho condiviso la gioventù, queste le leggiadre fanciulle che hanno acceso i miei sensi» pensò ad alta voce e si sentì contaminato da quella vicinanza. Fu sopraffatto da un senso di profondo disgusto, per loro non meno che per se stesso.
Allora la sua decisione fu facilmente presa e, con passo ormai sicuro, si diresse verso il muro che recintava il palazzo. Senza neppure cercare di nascondersi si diresse verso il luogo dove Channa lo attendeva con i cavalli.