Haṃsa Libera Scuola di Hatha Yoga

Maurizio Morelli

SIDDHARTHA IL BUDDHA

La foresta

Unico tra tutti, nel palazzo e nel regno, Channa ben conosceva le intenzioni del suo padrone, anche se in cuor suo continuava a sperare che l’inevitabile potesse essere evitato. Avendo ricevuto l’ordine di preparare due cavalli per un’uscita notturna, aveva scelto per Siddhartha il suo cavallo preferito, Kanthaka, per il quale il principe sentiva un affetto profondo, che l’animale sembrava ricambiare.
«Dovendo abbandonare questo splendido animale, che Siddhartha considera superiore al suo migliore amico, forse sarà preso da sconforto e rinuncerà a ciò che ormai sembra irrinunciabile» pensò Channa «ma converrà presentare la cosa come un omaggio del paggio al padrone, poiché forse anch’io ho un po’ di considerazione nel suo cuore. Forse così potremo, io e il cavallo, indebolire la determinazione che è in lui, e che mi fa temere grandi sventure».
I dardi della sua astuzia raggiunsero il segno e, mentre cavalcavano veloci verso il fiume Anoma, calde lacrime di commozione scendevano dalle guance di Siddhartha.
«Un uomo davvero buono è questo Channa» pensava tra sé «grande fortuna è stata avere un simile servitore, sempre accorto, affettuoso, abile e pieno di considerazione. Per amore verso di me ha scelto Kanthaka, il migliore tra i cavalli, fedele compagno di tanti momenti felici, e il pensiero di abbandonarli entrambi mi strazia il cuore».
Eppure la sua determinazione non veniva meno: ben più doloroso era ciò che già aveva compiuto. E un nuovo pensiero sorse a mitigare il precedente: «Ma avendo abbandonato il mio stesso figlio nel giorno della sua nascita, ogni altra perdita mi sembra insignificante. Così, non tenendo conto della mia pena, abbandonerò uomo e cavallo senza esitazione».

Prima che il sole avesse raggiunto il suo zenit arrivarono al fiume, che segnava il limite del regno di Suddhodana e l’inizio della più fitta foresta, dove molti asceti vivevano in santa solitudine e lontani dai fastidi del mondo.
Sceso da cavallo, Siddhartha rivolse il suo sguardo alla densa e fitta muraglia verde che si stagliava compatta oltre le acque cristalline.
«La mia nuova casa» disse a voce alta, per farsi ben udire da Channa e anche da Kanthaka, perché era abituato a parlare con il cavallo come fosse un uomo e spesso aveva la sensazione di essere da lui compreso meglio che da chiunque altro. Ma lo disse anche per se stesso, per rinforzare la sua convinzione. Ora che il momento era giunto, benché ogni dubbio fosse fugato, avvertiva un tremito dentro, e un brivido di paura.
Entrare nella foresta, vivere come un Samana, cercare l’illuminazione che libera per sempre dal dolore, dalla malattia, dal decadimento e dalla morte, questo era il compito che lo aspettava. Ogni indugio doveva essere vinto e così, sciolta la chioma e afferrato il pugnale che portava alla cintura, la recise con rapidi gesti.
Come nuvole cariche di pioggia i lunghi capelli volteggiarono nell’aria brillando nella luce violenta del sole, e un attimo dopo già si confondevano con le alte erbe che crescevano sulla riva. Kanthaka lo fissava con sguardo triste, sfregando nervosamente il terreno con gli zoccoli, mentre Channa, sentendosi ormai sconfitto nella sua astuzia, fu preda di quel pianto che era riuscito fino a quel momento a trattenere. Turbato da quei singhiozzi disperati, uno stormo di anatre si alzò in volo cercando riparo nella foresta, sull’altro lato del fiume. E Siddhartha, vedendo la direzione verso cui si spostavano, interpretò la scena come un presagio favorevole e ne fu rincuorato.
«Come potrai, tu che sei abituato a letti morbidi e a lenzuola impregnate di essenze preziose, dormire sulla nuda terra, sotto un albero, circondato da tigri e serpenti?» disse Channa tra i singhiozzi. «Come potrà la tua bocca, abituata ai più deliziosi tra i cibi, accettare ciò che viene posto nella ciotola del mendicante da mano impura, indegna di toccare il suolo dove poggi i piedi? E che dirò a tuo padre, come potrò spiegare di averti lasciato andare?»
«Non preoccuparti per me, assai poco è necessario a chi cerca la verità. La rinuncia purifica tanto il cibo quanto la mano che lo dona e rende accogliente il più duro dei giacigli. E avendo il Samana abbandonato ogni violenza, anche le fiere della selva lo trattano con rispetto» rispose Siddhartha con voce pacata.
«La foresta dell’inganno, della menzogna, dell’avidità, del desiderio e dell’ignoranza è assai più buia e pericolosa di quella in cui sto per entrare. Scegliendo l’una abbandono per sempre l’altra, questo è il proposito a cui non verrò meno.
«Non per scarso affetto o considerazione abbandono i miei parenti, ma perché, anche volendo, non potrei avere alcuna certezza di restare con loro, non essendo possibile impedire la malattia, la vecchiaia, il decadimento e la morte. Di certo non voleva abbandonarmi mia madre, mentre ancora ero caldo della nascita, eppure nulla e nessuno hanno potuto impedire che ciò avvenisse. Siccome la vita è incerta, conviene cercare l’illuminazione che rende liberi». Mentre parlava, una calma profonda scendeva in lui. «Questo devi dire a mio padre, a mia moglie, alla mia madre adottiva e a tutti quelli che ti chiederanno di me.»

Raccolti quindi tutti gli oggetti che aveva indosso, tra cui una preziosa collana, ne fece dono a Channa con parole gentili. Per ultimo abbracciò il collo possente di Kanthaka, e ancora una volta non poté trattenere le lacrime. Poi, essendo in quel punto l’acqua assai bassa, attraversò il fiume. Procedendo veloce, Siddhartha si addentrò nella foresta; era
sua intenzione allontanarsi il più rapidamente possibile dal luogo in cui aveva lasciato Channa e Kanthaka. Sicuramente la sua fuga era stata scoperta e al più presto emissari mandati dal padre sarebbero giunti a cercarlo, forse con a capo lo stesso re, e quell’incontro doveva essere evitato. Era pervaso da una prorompente euforia e, forse per la prima volta in tutta la sua vita, si sentiva veramente libero e felice.
Procedette per alcune ore seguendo un sentiero appena tracciato che poi improvvisamente scomparve, ed egli si trovò a muoversi senza direzione, nell’ombra oscura e umida. Avvicinandosi la sera, arrivarono a frotte le zanzare, attirate dal profumo del suo sangue, poi a quella spietata tortura si aggiunsero anche la fame, la sete e la spossatezza.
Allora decise di tornare indietro, verso il fiume dove almeno avrebbe potuto dissetarsi e mitigare il bruciore intenso provocato dai morsi degli insetti, ma il buio scese rapidamente ed egli si ritrovò solo e sperduto in quel mondo alieno, nero e melmoso, il passo impedito da ostacoli che non poteva più distinguere, circondato da esseri minacciosi che sentiva muovere attorno a sé e che, con voci ora stridule, ora fruscianti o cupe, invadevano la notte come fantasmi inquietanti. Tremante, rimase immobile accanto al tronco di un albero gigantesco, di cui poteva distinguere al tatto i contorni, e che aveva radici nodose che sporgevano dal terreno per metà della sua altezza.

Ora la sua determinazione e il suo coraggio erano scomparsi e avrebbe scambiato volentieri illuminazione e saggezza per un rifugio sicuro, un po’ di cibo, luce e la vicinanza di un altro essere umano.
Ma tutto questo era perduto, non poteva contare su alcun aiuto, si era infilato in una trappola forse senza scampo, alla mercé delle belve feroci, dei serpenti, dei ragni o peggio, di qualche spirito malefico annidato nel buio e pronto ad aggredirlo.
Improvvisamente, come più volte gli era capitato in momenti diversi della sua vita, si sentì sdoppiato: mentre un Siddhartha si lamentava e disperava pieno di terrore, l’altro, quello che viveva come un re nella sua stessa mente, ragionava con lucidità e freddezza. Senza fretta né tremore valutava e considerava, ricordava e comparava, deduceva e analizzava.
«Devo stare fermo e calmo, così tanto che ogni animale che passi qui vicino mi possa scambiare per una parte dell’albero, così che il sudore e il sangue gelino, e che il respiro diventi più silenzioso del volo di una piuma. Chiuso tra radice e tronco, coperto il mio odore con quello della terra e dell’erba, immobile come un sasso, senza muovere nemmeno un pensiero, verrò ignorato da belve e da spiriti malvagi.»
E spingendosi con forza contro quel riparo si gettò della terra sul capo e sul corpo deciso a non muovere neppure un capello. Prima con fatica, ma in breve quasi con naturalezza grazie al suo innato potere di astrazione, calmò il tremito della mente, asciugò il sudore, rallentò il battito del cuore. Un pesante fruscio lo raggiunse da un lato, e lui rimase immobile, un ruggito agitò cespugli assai prossimi, e lui rimase immobile, scimmie urlanti provocarono una pioggia di foglie e rami, e lui rimase immobile. Presto divenne parte della foresta, ramo tra i rami, cespuglio tra i cespugli, radice tra le radici, terra nella terra. E quando anche la sua mente divenne completamente ferma persino le zanzare smisero di tormentarlo.
Sapeva di essere senza ricordare chi fosse, ascoltava senza sapere chi ascoltasse; più volte colse sprazzi di intenso chiarore popolati di immagini provenienti da luoghi lontani, in altri momenti perse conoscenza per un tempo che non poteva calcolare.
E finalmente venne l’alba, e la luce riempì il buio.
I suoi occhi, che a lungo avevano scrutato nella notte, erano ora capaci di una visione assai più acuta e precisa e, dopo aver vagato per qualche tempo nella fitta macchia in cui si era smarrito, colse la traccia di un sentiero ben disegnato e poté riprendere il cammino.