Haṃsa Libera Scuola di Hatha Yoga

Maurizio Morelli

SIDDHARTHA IL BUDDHA

L’albero del risveglio

Per molti giorni Siddhartha camminò tranquillamente.
Pur sapendo come orientarsi, si limitava a seguire l’impulso del momento. Attratto dalla forma di un fiore imboccava un sentiero, seguendo un fruscio misterioso si inoltrava nella macchia, guidato da un profumo intenso attraversava una radura.
Talvolta scendeva, talvolta saliva, andava avanti e indietro, in direzione del sole nascente o verso il tramonto. Privo di desideri e senza una meta, con la mente sgombra e nessuna impresa da compiere, semplicemente si lasciava condurre dalla foresta.
Vedendolo da lontano mentre gli veniva incontro con passo tranquillo, Svasti si spostò di lato, avvicinandosi alla riva del torrente dove, in un’ansa tranquilla e poco profonda, i suoi bufali si stavano rinfrescando. Svasti era un intoccabile, e aveva imparato a proprie spese quanto potesse essere crudele l’ira di chi, incrociando la propria strada con la sua, si sentiva da lui contaminato. E quell’uomo che gli veniva incontro procedendo senza fretta doveva essere un Brahmano di nobile famiglia, nessuno che fosse di casta inferiore camminava in quel modo, e questo suggeriva la massima prudenza.
In quel luogo il terreno era leggermente declinante ma ben spianato, e vi si accedeva da un ampio sentiero che tagliava diritto attraverso la boscaglia. L’erba vi cresceva rigogliosa, così che i bufali potevano essere nutriti in abbondanza, e la vicinanza di quel corso d’acqua permetteva di abbeverarli e tenerli al fresco nelle ore più calde della giornata. Nell’intero mondo non c’era luogo che Svasti amasse di più. Solo con i suoi bufali, immerso in quella pace, circondato dalla vegetazione lussureggiante e dalla fresca protezione del fiume, egli si sentiva appagato e felice.

Siddhartha si fermò e lasciando scivolare lo sguardo assorbì la quieta bellezza di quel luogo. L’erba vi cresceva fitta e grassa e, sospinta da una brezza leggera, ondeggiava dolcemente, creando verdi riflessi densi di luce. Privo di alberi nella parte centrale, la macchia lo penetrava su tre lati con strisce sottili, quasi che la foresta stesse allungando le sue dita per riappropriarsi di quello spazio indebitamente sgombro. Alcuni bufali gibbosi punteggiavano il prato pascolando sereni, mentre altri se ne stavano oziosi nell’acqua, oppure si rotolavano nel fango per liberarsi dal tormento degli insetti. Il torrente, altrove turbinante, si espandeva in una vasta pozza appena increspata dal vento e interrotta qua e là da bianchi massi venati di grigio e da minute lingue di terra emergente, su cui crescevano giunchi e sterpaglia.
E proprio vicino alla riva, dove la terra accarezzava il torrente con una curva leggera, intimidito ma fiero e quasi nascosto tra due bufali immensi, lì stava Svasti l’intoccabile, il guardiano dei bufali. Un ragazzino agile e minuto, dallo sguardo attento e dal cuore fermo.
Comprendendo i suoi timori, Siddhartha si avvicinò sorridendo; quando lo raggiunse, gli poggiò con tocco leggero una mano sul capo e gli disse: «Non temere, io non sono di quelli che giudicano in base alla nascita. I pensieri che albergano nella mente e nel cuore determinano le differenze tra gli uomini e in base a questi io affermo che tu sei il migliore tra i Brahmani».
Dopo quel tocco, Svasti percepì in ogni cosa una grande luce e, rassicurato da quelle parole, invitò il suo nuovo amico a sedersi e a condividere con lui il misero pasto.
Avendo recuperato il suo coraggio, chiese a Siddhartha: «Le tue parole sono gentili, ma, vedendomi per la prima volta, come puoi conoscere la natura dei miei pensieri?»
E a lui così rispose Siddhartha: «Dai pensieri procedono le azioni, ed esse generano effetti. Così, osservando gli effetti delle azioni si comprendono i pensieri di chi le ha compiute».
E dopo aver mantenuto il silenzio per un tempo adeguato riprese: «Guardando questi bufali che ti sono affidati, vedo che sono ben nutriti, ben strigliati, tranquilli e disposti secondo la loro inclinazione, così che quelli che hanno fame possano pascolare mentre gli altri fuggono il calore stando nell’acqua o si rotolano liberi nel fango. Senza mai opprimerli ti prendi cura di loro nel modo migliore. Anche il luogo in cui li hai condotti
è testimone della tua saggezza. Essendo questi gli effetti delle tue azioni, da essi giudico i tuoi pensieri. Ma raccontami del modo in cui li accudisci, come li raduni, li proteggi, li nutri, li riporti alla stalla».
Svasti era orfano e nella capanna che aveva per casa lo aspettavano il fratello e le due sorelle, tutti di età inferiore alla sua. A parte loro non aveva nessuno e considerava i bufali come membri della sua famiglia.
Per il suo lavoro riceveva appena il necessario per vivere, ma di questo non si crucciava. Amava profondamente quegli animali, li conosceva uno a uno, sapeva di che cosa avevano bisogno, dove procurare l’erba migliore, come mantenerli in salute, proteggerli dai serpenti, dalle iene e se necessario anche dalle tigri, come fare fumo per allontanare le mosche o medicarli con il fango quando si ferivano.
Egli espose ogni particolare con chiarezza e in breve Siddhartha seppe tutto ciò che è necessario sapere per essere un abile guardiano di bufali. Poi fu il suo turno ed egli raccontò al ragazzo della sua giovinezza, delle ansie del padre, della vita fastosa e vana che aveva condotto, di come fosse fuggito nella notte e dei maestri che aveva conosciuto.

Avvicinandosi il tramonto, Svasti doveva riportare le bestie alla stalla. Ma non voleva andarsene prima di avere compiuto qualcosa per Siddhartha. Sentiva di essere stato grandemente beneficiato da quell’incontro, e voleva per quanto possibile contraccambiare. Non era solo per l’onore che aveva ricevuto – un principe della nobile stirpe dei Sakya si era degnato di avvicinarsi, lo aveva toccato con la mano e non solo gli aveva parlato ma era anche rimasto ad ascoltarlo – c’era dell’altro.
Ciò che più lo aveva avvinto era qualcosa che Siddhartha emanava, una sorta di fluido o un’irradiazione. Anche i bufali l’avevano avvertita e per tutto quel tempo erano rimasti placidi e tranquilli come mai era avvenuto prima. Quell’uomo era diverso da qualsiasi altro, su questo Svasti non aveva dubbi, sicuramente era un santo e forse qualcosa di più.
Avendo così pensato si rivolse a Siddhartha e gli disse: «Il pomeriggio volge al termine e i bufali devono essere condotti al riparo. Vorrei farti un dono, ma non possiedo nulla. Chiedimi dunque di fare qualcosa per te, e accetta tale azione come dono».
Vedendo la sincerità delle sue parole Siddhartha non volle deluderlo e, voltato lo sguardo attorno disse: «Potresti tagliare per me una buona manciata di quell’erba, così che stanotte io possa sedere comodamente. Questo lo considererò come un grande dono».
Subito quello si mise all’opera e in breve l’erba fu tagliata e disposta in fasci ben raccolti.
C’era lì vicino un albero di Pipal dalle grandi foglie a forma di cuore, e sotto uno spiazzo pulito e ben spianato, privo di spine e radici sporgenti. Piacquero a Siddhartha l’albero e il riparo che offriva e, comunicata all’altro la sua decisione, i due amici trasportarono l’erba sino alla base del tronco e la disposero a formare un ampio cuscino.
«Oggi il grande si è avvicinato al piccolo, il nobile al miserabile, il puro all’impuro» proclamò Svasti con voce stentorea e grande serietà, tanto che sembrava un generale che arringa i suoi soldati. «Essendo piccolo tu mi hai reso grande, essendo miserabile nobile, essendo impuro puro. Possa quest’erba esserti utile nella tua meditazione. Dal canto mio potrò dirmi soddisfatto se anche un solo riflesso della tua santità ricadrà su di me.»
Un ampio varco si aprì nella mente di Siddhartha udendo quelle parole. Il piccolo Svasti, l’intoccabile, aveva trovato la chiave che apre ogni scrigno e l’aveva donata a Siddhartha.
«Più di un riflesso riceverai, mio piccolo prezioso amico, e in verità ti dico che per il dono che mi hai fatto tu otterrai la suprema saggezza e il potere di attraversare in questa vita il grande fiume» così disse Siddhartha.
E si congedarono l’uno dall’altro con la promessa di rivedersi.
Seduto su quel cuscino di erba Kusa che non era né troppo alto, né troppo basso, né troppo soffice, né troppo rigido, né troppo caldo, né troppo fresco, stabile e ben costruito, tenendo la punta della lingua ferma tra i denti e lo sguardo girato indietro, Siddhartha aprì oltre ogni limite la sua mente silenziosa.
Svasti gli aveva inconsciamente suggerito la via della comprensione ed egli la seguì sino in fondo. Svasti era divenuto parte della sua vita, non solo per il dono dell’erba, ma per aver condiviso il pasto, per aver parlato e ascoltato; perciò, mentre egli meditava, era come se anche l’altro stesse meditando in quel medesimo modo e luogo. E del pari Siddhartha era parte di Svasti e, attraverso lui, della sua famiglia, dei bufali, dell’erba, del cielo e della terra.
L’universo gli apparve in tutta la sua immensità, una miriade di sfere luminose e colorate che ora si allontanavano, ora si avvicinavano. Alcune, toccandosi, prima scomparivano una nell’altra, poi nuovamente si dividevano, altre si afflosciavano e riducevano sino a scomparire, altre ancora si ingigantivano. Per il fatto di avvicinarsi o allontanarsi, unirsi o dividersi, ora dando ora prendendo, tutte costantemente si modificavano e diveniva impossibile stabilire quale fosse l’una e quale l’altra.
Poi Siddhartha vide i fili che collegavano ognuna a tutte le altre: più numerosi dei granelli di sabbia che riposano nelle profondità dei cinque oceani, anch’essi mutavano, spezzandosi e riformandosi, divenendo ora spessi ora sottili, allungandosi e accorciandosi.
Allora comprese la ragione dei fallimenti passati: non esistendo alcun Io, né da purificare, né da elevare e neppure da distruggere, tutte quelle fatiche erano state spese invano. Essendo ogni creatura interdipendente da tutte le altre, ed essendo questa relazione impermanente e sempre cangiante, nulla esiste che sia stabile e sostanziale.

E mentre la stella del mattino già occhieggiava all’alba imminente, Siddhartha cessò per sempre di essere Siddhartha. Divenuto una sola cosa con il tutto, ed essenzialmente nessuna cosa, realizzò la suprema conoscenza in cui il conosciuto, il conoscitore e l’atto del conoscere si dissolvono.