Haṃsa Libera Scuola di Hatha Yoga

Maurizio Morelli

SIDDHARTHA IL BUDDHA

La prova

Nel primo chiarore dell’alba, il maestro si avvicinò a Siddhartha e lo invitò a seguirlo.
Camminando verso nord attraversarono fitte boscaglie, poi, dopo alcuni giorni, incontrarono le prime montagne e superarono vette e valli. Bhagava prendeva sentieri che lui solo riusciva a vedere, procedendo passo dopo passo senza mai esitare un secondo. Dalla partenza nessuno dei due aveva pronunciato una sola parola.
Erano trascorse quasi tre settimane quando, svoltando da una pista erbosa, si trovarono all’improvviso di fronte a una ripida parete rocciosa. Procedendo lungo quella insuperabile barriera raggiunsero una piccola cascata, chiusa in un’ansa di pietra levigata e alla cui base si era formato un laghetto circondato da canne, erbe e felci. Indicando le acque cristalline il maestro disse: «Dissetati, lava con cura la tua pelle e purifica ogni orifizio del corpo».
Egli stesso si immerse nell’acqua gelida per quella necessaria pulizia.
Compiute le abluzioni, Siddhartha stava per raggiungere la riva ma il maestro lo chiamò a sé, invitandolo con un gesto. E senza aggiungere spiegazioni si immerse sotto la superficie del piccolo lago.
Siddhartha prese un respiro e lo seguì; ebbe appena il tempo di vederlo mentre si infilava in una piccola fenditura della roccia, proprio sotto la cascata, dove l’acqua biancastra e spumeggiante rendeva difficoltoso lo sguardo. Se avesse esitato anche un solo istante, il maestro sarebbe scomparso ed egli sarebbe rimasto solo.
Il pertugio era assai stretto, e oltre non si vedeva che buio.
Ma poco dopo, mentre un brivido di paura stava per interrompere la sua concentrazione, il passaggio si fece più ampio e un leggero chiarore apparve a mostrare il percorso. In pochi istanti, Siddhartha emerse in una piccola pozza; davanti a lui, con le gambe ancora per metà nell’acqua, Bhagava era in attesa.
Si trovavano in una fenditura della montagna, stretta e lunga.
Sopra le loro teste la roccia saliva fino al cielo. La pozza era abbastanza ampia, ma appena più avanti l’apertura si restringeva a tal punto che il transito sembrava impossibile e la luce stentava a raggiungere quelle profondità. Eppure riuscirono a passare, anche se in alcuni punti furono costretti a sfregare i loro corpi contro la roccia fino a farli sanguinare.
Il luogo in cui si ritrovarono al termine di quella faticosa traversata suscitò in Siddhartha un’estasiata meraviglia. Davanti ai suoi occhi si apriva una larga conca, tonda e piatta, circondata su ogni lato da alte montagne. Tanto il suolo quanto le pareti di quel cerchio perfetto sembravano fatte di pietra fusa, né un sasso né un filo d’erba interrompevano quella continuità. Esattamente al centro del cerchio, su una piccola collina tondeggiante, stava un unico e immenso albero.

Allacciando le mani l’una con l’altra, venti uomini non avrebbero potuto circondarlo, il suo tronco svettava altissimo verso il cielo e i suoi rami erano così estesi che l’intera collina ne riceveva ombra. Il verde delle foglie brillava come il riflesso di milioni di smeraldi. Non c’era canto di uccelli in quel luogo, né fruscio di serpente o ronzio di insetti. Solo un assoluto silenzio.
L’uno seguendo l’altro, allievo e maestro si portarono sulla cima della piccola collina, proprio di fronte al maestoso albero.
«Questo luogo è una porta di accesso ai mondi superiori e quello che stai vedendo è Kalpataru, una proiezione terrena dell’albero miracoloso del paradiso di Indra. Se riuscirai a percepire lo spirito che lo nutre, lo anima e lo sostiene, allora potrai esprimere qualsiasi desiderio, con la sicurezza di vederlo soddisfatto» disse il maestro con tono solenne.
Dopo una breve pausa continuò: «Quindi, seduto correttamente e mantenendoti immobile e compatto come questa pietra, dirigi sguardo e attenzione sull’albero, senza mai distrarti né formulare pensiero alcuno. Altro non devi sapere».
Egli stesso gli si sedette di fianco e la sua concentrazione era così intensa che il suolo sotto di loro iniziò a tremare. Vennero il tramonto e poi la notte, orfana della luna. Una spessa coltre di nubi oscurò anche la fioca luce delle stelle lontane e il buio fu totale.
Siddhartha manteneva lo sguardo fisso dinanzi a sé, ma in quell’oscurità senza riferimenti sembrava uno sforzo senza senso. Le sue percezioni iniziarono ad alterarsi e talvolta gli sembrava di stare sospeso a mezz’aria, altre di essere rovesciato e disteso, di avere le gambe dietro la testa o di essere pressato da quell’oscurità al punto di non poter più respirare.
Provava un desiderio lacerante di muoversi, urlare, fuggire, domandare o almeno capire in quale posizione fosse il suo corpo. Eppure non si mosse, né permise al suo sguardo di deviare.
Più di ogni cosa lo sostenne la fiducia che aveva nel maestro, e la forza che sentiva in sé grazie alla sua vicinanza. Comprendeva quello che gli stava accadendo. Il suo corpo aveva perso ogni sensibilità e la mente, liberata da quel legame, si librava nello spazio come un aquilone in una giornata ventosa. Se avesse perso lo sguardo o distratto l’attenzione, che erano per lui come il filo per l’aquilone, sarebbe semplicemente volato via, in qualche dimensione di sogno e tutta quell’esperienza e quella fatica sarebbero state vane. Questa consapevolezza rafforzò maggiormente la sua determinazione.
Una volta iniziato, tutto accadde rapidamente. Apparve un chiarore lontano, poi l’intero albero si illuminò come fosse fatto di fiamma, la fiamma si espanse e si trasformò in un’immensa bolla di luce, viva e vibrante. All’interno i contorni dell’albero rimanevano netti e precisi, tali che poteva distinguere con precisione anche il rametto più minuto e ogni singola foglia.
La sua attenzione fu attratta da un punto particolarmente vivido e brillante, proprio là dove il tronco si diramava. Ne fu completamente assorbito, finché non vide che quello. Era come un’elica vorticante, il suo colore passava dal giallo al blu, ogni parte palpitava e sotto il fuoco del suo sguardo si trasformava in una spirale profonda e scintillante, solcata da strisce di colori variopinti e cangianti. Si sentì risucchiare, ne fu come avvolto e poi proiettato fuori, in un altro luogo, un altro tempo, un altro mondo.

Riconobbe il parco di Lumbini, c’era una donna appesa a un ramo, circondata da teli colorati sostenuti da ancelle premurose. Nella luce intensa del mezzogiorno, incoronata dagli alberi di Sal, quella donna stava partorendo. Era sua madre.
La visione si dissolse ed egli si ritrovò in un altro luogo, sospeso nel cielo. C’erano palazzi meravigliosi costruiti sulle nuvole, sembravano ricavati da un unico grande rubino, da una perla, da un topazio, le ampie strade lastricate di diamanti mentre le acque dei ruscelli che scorrevano giocosi brillavano come oro fuso. Due esseri meravigliosi, l’uomo e la donna più belli che avesse mai visto, apparvero nell’alta volta che faceva da ingresso a un castello di giada. I loro corpi splendevano come fossero fatti di luce, così intensamente che era impossibile mantenere lo sguardo fermo su di loro. Poi iniziarono a espandersi fino a coprire l’intera volta del cielo, quindi tornarono alla forma iniziale e insieme, come una sola voce, dissero: «Tu che sei arrivato sino qui, dicci che cosa vuoi e sarai esaudito».
Ma Siddhartha non riusciva a parlare, semplicemente non sapeva da dove fare uscire la voce, era paralizzato. Poi una voce interiore gli suggerì: «La mente non ha bocca e neppure gola». Allora egli le immaginò reali e quella gola e quella bocca parlarono per lui.
«Voglio raggiungere la suprema illuminazione» disse con voce tonante. «Voglio che non ci sia più nascita e che la morte, quando verrà, sia per me l’ultima morte. Estinto ogni karma voglio entrare nella pace perfetta.» L’eco di quelle parole rimbombò nel cielo con il fragore del tuono.
Seguì il silenzio, poi quel mondo meraviglioso iniziò a incresparsi, come avvolto da un’ondata immane, e tutto prese a contorcersi in una danza minacciosa. Sui volti dei due esseri luminosi che lo fronteggiavano apparve un’espressione irata, poi si sentì risucchiato, come una foglia tra le rapide del fiume.
Urlava di terrore, e non poteva udire alcun suono, il dolore era lacerante, ma non poteva capire da dove venisse e neppure chi fosse a soffrire.
Dopo un tempo che gli sembrò infinito si ritrovò a essere Siddhartha, seduto a gambe incrociate sulla collina, immerso nel buio, frastornato. Ma non era ancora finita. Una luce apparve lontana, un puntino che in un attimo si trasformò in una palla di fuoco; prima che potesse anche solo sviluppare un pensiero, quella lo colse in pieno. Si sentì esplodere dall’interno, poi entrò nel buio e nell’incoscienza.

Risvegliandosi gli sembrò di emergere da un pozzo buio e profondo, da una melma appiccicosa. Qualcuno lo stava aiutando a uscire, lo incitava, lo stimolava. Poi distinse i colpi e la voce del maestro.
«Svegliati, muoviti, riprenditi» gli urlava, e al tempo stesso lo colpiva con forti schiaffi sul volto, sul petto e sulle gambe. Non c’era violenza in quei gesti, ma un senso di urgenza e di necessità improrogabile. Siddhartha cercava di stare in piedi ma le gambe cedevano, intorpidite dalla lunga immobilità, e allora il maestro le colpiva più forte, e con maggiore enfasi lo incitava al movimento e alla fuga.
«Dobbiamo allontanarci al più presto da questo luogo o siamo perduti» gli urlò tenendo il viso quasi attaccato al suo. «Afferra i miei capelli e cerca di tenerti in piedi, il movimento ti restituirà rapidamente la sensibilità, dobbiamo andare via, subito.»
Nel buio intorno a loro si udivano fragori minacciosi, come quando un albero si schianta improvvisamente per il gelo troppo intenso, e furono proprio questi suoni, più dei colpi e delle incitazioni, che misero le ali ai piedi di Siddhartha.
Così, l’uno attaccato ai capelli dell’altro come un carro a un cavallo, attraversarono veloci la notte e si infilarono nella fenditura della montagna. Come potesse il maestro muoversi con tanta sicurezza in quel buio Siddhartha nemmeno se lo chiese, ma lo ringraziò silenziosamente nel suo cuore, perché sentiva il terreno lacerarsi e ondeggiare sotto i suoi piedi. Se avessero esitato sarebbero stati inghiottiti dalla roccia.
Entrato nella fenditura, dovette lasciare la sua guida e per un po’ riuscì a seguirne la voce che non cessava di incitarlo, ma il fragore crescente degli schianti che si moltiplicavano coprì ogni altro suono ed egli si ritrovò solo. Sentiva sotto le mani l’ondeggiare della roccia che lo circondava e che, come le mandibole di un caimano, andava chiudendosi rapidamente dietro di lui. E allora aumentava i suoi sforzi, si spingeva più veloce in quel solco che andava restringendosi, incurante della pelle e dei brandelli di carne che si lasciava dietro. I suoi sensi erano come distaccati, e procedeva sospinto da una guida
interiore che non poteva identificare ma nella cui abilità acquisiva fiducia a ogni passo.
Finalmente sentì l’acqua sotto i piedi e subitaneamente si immerse, mentre le pareti della gola, alle sue spalle, si saldavano per sempre.
Quando emerse al di là del canale sotterraneo, trovò il maestro ad attenderlo. Spossati, entrambi si lasciarono cadere sulla riva e si abbandonarono a un sonno profondo.