Haṃsa Libera Scuola di Hatha Yoga

Maurizio Morelli

SIDDHARTHA IL BUDDHA

Il noviziato

Un improvviso spiazzo lo accolse dopo molte ore di faticoso cammino. Aveva i piedi lacerati, il volto e le braccia gonfi per le punture degli insetti; il tormento per la fame e la sete dilagava nella sua mente, si sentiva sfiduciato, sull’orlo della disperazione.
Quel luogo aperto e quella luce ebbero l’effetto di un tonico ed egli, recuperati ottimismo e speranza, si mise a cercare un posto adeguato in cui stendersi.
«Potrò almeno riposare, acqua e cibo li troverò più tardi» pensò.
Proprio in quel momento uno strano individuo uscì dalla macchia, procedendo nella sua direzione. Indossava il vestito di un monaco, ma l’arco e le frecce che portava a tracolla tradivano la sua vera attività.
Riconoscendo dai vestiti e dall’atteggiamento di Siddhartha la superiorità di casta, l’uomo lo salutò con deferenza.
«Chi sei tu che, pur vestito da monaco, porti le armi di un cacciatore?» lo interpellò Siddhartha. Dimenticato per un attimo il voto di umiltà pronunciato solo la sera precedente, aveva usato il tono perentorio del principe che parla a un sottoposto, e l’altro ne fu assai intimidito.
«Sono un cacciatore, come hai giustamente osservato» rispose quello mantenendo lo sguardo al suolo. «Indosso questo abito per ingannare le creature del bosco ispirando loro fiducia, e in tal modo riesco più facilmente ad avvicinarmi alla preda.»
«Dunque tu sei uno di quelli che usano la religione per ispirare fiducia e depredare quelli che inganni, fingendo di essere ciò che non sei» esclamò Siddhartha sentendosi avvampare per l’ira.
Quell’uomo gli suscitava un’avversione profonda poiché richiamava alla sua mente la memoria di molti altri simili che aveva conosciuto. Uomini che non usavano arco e frecce, ma si prendevano gioco del prossimo biascicando formule magiche, promettendo salvezza o dannazione e sacrificando animali innocenti, con l’unico scopo di ottenere un guadagno a spese altrui.
Ma ormai la capacità di osservare le proprie reazioni e trarne lezione era penetrata in lui; pertanto, riconosciuta l’origine della sua ira, l’allontanò da sé. Più che un malvagio ora quell’uomo gli sembrava solo meritevole di pena e di aiuto.
«Pessimo karma ti verrà dal compiere queste azioni» gli disse addolcendo le parole con un sorriso. «Cercando in tal modo il tuo vantaggio, a scapito altrui, avrai una miseria maggiore di quella che vuoi fuggire. Ma sicuramente questo incontro non è casuale e, dato che tu cerchi la ricchezza e io la pace, a me si addice il tuo abito e a te il mio.»
«Dunque» propose all’uomo che lo guardava sempre più stupito «scambiamoci il vestito. Così potremo, ognuno a suo modo, seguire onestamente la nostra natura».
E quello, valutando con occhio rapace il valore di quegli abiti, che gli avrebbero reso in un giorno più di quanto avrebbe potuto ottenere con un anno di caccia fortunata, seppure ancora incredulo, accettò lo scambio con animo lieto. E prima di allontanarsi, lui che di quei luoghi conosceva ogni anfratto, gli indicò la via migliore per raggiungere i Samana che vivevano nel bosco.

Scalzo, con i piedi sanguinanti e il corpo graffiato, con l’abito lacero e il capo reclinato, coperto di umiltà, Siddhartha fece il suo ingresso nella comunità degli asceti.
«Sono nato da nobile stirpe» spiegò Siddhartha dopo avere ricevuto dal maestro un gesto di autorizzazione «e per tutta la mia vita ho vissuto prigioniero dei miei sensi, nel buio dell’illusione. Un vecchio mi ha mostrato l’inevitabilità del decadimento e della morte, e nel mio cuore è scesa la notte più profonda. Un monaco mi ha mostrato la luce e ridato la speranza. Così, abbandonata ogni cosa, sono venuto in questa foresta per cercare l’illuminazione».
Quello in cui si era imbattuto era un piccolo nucleo di penitenti, cinque uomini magri e nodosi, grigi per la cenere di cui erano completamente cosparsi, gli occhi ardenti e un cesto di capelli selvaggiamente arruffati che dalla testa scendeva sulle spalle e sulla schiena. Quello a cui si era rivolto, il cui nome era Bhagava e che Siddhartha aveva identificato istintivamente come il maestro, anche se in tutto e per tutto simile agli altri,
ascoltò con attenzione le sue parole e poi rimase a fissarlo come se stesse ponderando una risposta.
Anche gli altri Samana avevano rivolto i loro sguardi penetranti verso la sua persona, con un’intensità tale che egli si sentì toccato, come se qualcuno stesse sfiorando il suo corpo, dentro e fuori, con petali di loto. Quello che avvenne negli attimi successivi ebbe su di lui un effetto travolgente. Il maestro inizio a ridere, una risata intensa, profonda, lacerante, squassante, sfacciata, che sembrava destinata a durare per l’eternità.
Il principe che ancora viveva in Siddhartha, e ancora conservava superbia e orgoglio, si sentì offeso e beffeggiato da quel comportamento irrispettoso. Già stava per allontanarsi quando si accorse che, mescolati alle risa che avevano assorbito tutta la sua attenzione, si levavano singhiozzi e lamenti. Erano gli altri quattro componenti del gruppo che, per un motivo a lui inspiegabile, piangevano disperati, e sembravano affranti come una vedova al funerale del marito prematuramente scomparso. Lacrimavano, gridavano, si percuotevano il corpo, si strappavano i capelli, si rotolavano al suolo come invasati. Colpita all’assurdità non meno che dall’intensità di quella duplice rappresentazione, la mente di Siddhartha si svuotò d’incanto di ogni pensiero. Risa e pianti sembravano provenire da due mondi differenti: li distingueva contemporaneamente e con precisione, ognuno a sé stante, le percezioni scisse eppure entrambe complete. Una pianura divisa da una grande strada, così era la sua mente, e proprio in mezzo, su un filo sospeso nell’abisso, lì stava Siddhartha, come un serpente immobilizzato dal suono di un flauto. Le sue orecchie si erano fatte gigantesche come quelle dell’elefante, e ognuna indipendente dall’altra.

Cercava disperatamente di pensare, un concetto a cui aggrapparsi per non precipitare. Finalmente qualcosa si mosse: «Due percezioni, due che percepiscono! Quale dei due sono io?»
Poi cominciò a scivolare in un vortice e si abbandonò all’incoscienza.
Così Siddhartha entrò nel mondo dei Samana e iniziò a conoscere il loro potere. Nei mesi successivi imparò tutto quello che è necessario sapere per vivere nella foresta.
Il maestro stabilì che il suo noviziato avvenisse sotto le cure di Adarsh, un uomo piccolo e scuro, dalla cui bocca non uscivano mai più di tre parole consecutivamente e solo raramente. Il silenzio era la sua magia.
Camminava e si muoveva nella boscaglia più fitta senza produrre alcun rumore e persino il suo respiro era così silenzioso che non lo si poteva avvertire neppure mettendogli l’orecchio sotto il naso. Da lui Siddhartha imparò a curarsi le ferite dei piedi, a trovare l’acqua e a filtrarla, a riconoscere radici, bacche e frutti di cui nutrirsi ed erbe da impiegare come medicamento o per fare fumo e tenere lontani gli insetti, a scegliere il legno per il fuoco e a cospargersi il corpo con le ceneri sacre, a ingoiare argilla per allontanare i morsi della fame, a distinguere un buon riparo da un luogo pericoloso, a evitare serpenti velenosi e animali carnivori o a renderli inoffensivi quando l’incontro non poteva essere evitato. Quasi con noncuranza Adarsh gli mostrò come muoversi tra i rovi senza graffiarsi, come preparare un giaciglio, come mantenere la direzione là dove né sole né stelle erano di aiuto. Gli procurò una ciotola e gli fu di esempio nel mendicare il cibo e nell’atteggiamento da tenere con le genti dei villaggi, quando capitava di attraversarne.
Raramente i Samana si fermavano più di qualche giorno nello stesso posto, raramente lasciavano la foresta, la loro vita era un continuo vagare da un luogo selvaggio a un altro.
Siddhartha ebbe così la possibilità di sperimentare ogni sfumatura di quella vita, e di mettersi alla prova nell’affrontare mille e una difficoltà. E dopo solo pochi mesi, lui che era straordinariamente dotato tanto di intelligenza quanto di sensitività e prestanza fisica, era divenuto abile quasi come il suo maestro.
Il suo corpo aveva perso ogni rotondità, si era fatto assai magro, asciutto ed elastico, in tutto e per tutto simile a quello dei suoi compagni di avventura. I capelli, ricrescendo selvaggi e arruffati, davano una grande autorità al suo volto scavato, in cui i grandi occhi brillavano come fuochi nella notte. Il suo incedere maestoso aveva mantenuto quell’eleganza e regalità che gli veniva da stirpe ed educazione, e in più aveva acquistato un che di austero e calmo, una profonda sicurezza che non passava inosservata.
Attraversando i villaggi la gente si voltava a guardarlo e la sua ciotola era sempre la prima a essere riempita. La vita di un tempo era divenuta una macchia sfumata su uno sfondo lontano, e sempre più raramente il suo pensiero si spingeva nel passato. La prima esperienza del suo noviziato era rimasta profondamente impressa in lui e, gradualmente, aveva imparato a mantenere la sua mente in quello spazio intermedio che aveva sperimentato, dove il tempo e il pensiero sono sospesi e le percezioni espanse e molteplici. Ora che la sua energia si era purificata e compattata poteva rimanere in tale condizione anche per molte ore consecutive, pure camminando, mangiando, raccogliendo radici o legna per il fuoco.
Era bella la vita dei Samana, onesta, saggia e libera da ogni vincolo. Essi andavano e venivano a loro piacimento, ospiti graditi della foresta. Senza dipendere da alcuno, astenendosi da ogni violenza, conducevano un’esistenza retta e interamente rivolta alla ricerca spirituale. La forza che li animava, generata dalla devozione e dalle austerità cui si sottoponevano, permetteva loro di compiere imprese strabilianti, impossibili per i comuni mortali: astenersi dal cibo per settimane o mesi, rimanere immobili sotto il sole cocente per lunghe ore, arrampicarsi su una corda tenuta in aria con la forza del pensiero, maneggiare oggetti roventi senza scottarsi o trapassarsi il corpo con spade e pugnali senza subire danno alcuno.
Siddhartha li ammirava come fossero dei e desiderava essere come loro, che sicuramente gli avrebbero mostrato la via per raggiungere l’illuminazione, e per questo si applicava senza riserve. Era solerte nel portare a termine i compiti che gli venivano affidati e nella pratica degli esercizi mistici si impegnava con totale concentrazione, che si trattasse di imparare a trattenere il respiro, recitare un Mantra, stare in equilibrio sul capo o mantenere lo sguardo e la mente fermi su un solo oggetto.
Bhagava era assai contento di questo allievo così dotato e Adarsh, benché nell’atteggiamento si mantenesse burbero e silenzioso, nel suo intimo lo amava intensamente e ogni giorno ringraziava gli dei per avergli affidato un simile novizio, che sicuramente sarebbe divenuto il più potente tra i Samana della foresta.