Haṃsa Libera Scuola di Hatha Yoga

Maurizio Morelli

SIDDHARTHA IL BUDDHA

La nascita di Siddhartha

La nascita di Siddharta

Le ardenti speranze di Suddhodana si erano da tempo trasformate in un cupo sconforto.
«Perfidi sono gli dei» gli capitava sempre più spesso di pensare «perché mentre con una mano donano con l’altra negano».
La sua stirpe era nobile e gloriosa, alleati e amici lo rispettavano, i nemici lo temevano, i sudditi lo amavano. I suoi possedimenti erano vasti e ben disposti, ricchi di riso e floride vacche. I suoi forzieri traboccavano di ricchezze, oro, gioielli e sete preziose, i commerci prosperavano.
Tutto cresceva rigoglioso nel suo regno, tutto fuorché la sua stirpe. Aveva due mogli, figlie di re, belle come l’aurora, sane e virtuose, ma nessun figlio.
Gli anni erano trascorsi invano, né le preghiere né i riti dei brahmani erano serviti a nulla. Aveva donato vacche e oro Suddhodana, aveva sacrificato agli dei, ma il suo seme mai era attecchito e ormai da tempo, sconfortato e deluso, si teneva lontano dai letti coniugali.
Come un ramo secco, buono solo per il fuoco, così si sarebbero estinti la sua schiatta e il suo regno. Nemmeno la morte avrebbe potuto portargli conforto perché senza un figlio maschio, abile nel presenziare ai riti funebri, anche il suo soggiorno in paradiso sarebbe stato compromesso, e a nulla sarebbero valse le molte opere e conquiste da lui operate in vita. Così, egli ormai trascinava la sua esistenza, desolato e afflitto, poi finalmente la sua sorte mutò. Accadde in un giorno che sembrava simile a ogni altro, eppure già dal mattino fu presago di lieti e meravigliosi eventi.

Appena sveglio vide un bellissimo uccello, dalle piume colorate come un arcobaleno splendente, che stava tranquillamente appollaiato sul davanzale della sua finestra, e con un occhio lo guardava mentre l’altro era rivolto al sole nascente. E quando egli si avvicinò con cautela, quello rimase fermo ad aspettarlo, e lui riuscì quasi a sfiorarlo mentre volava via mescolandosi ai colori del cielo. Che un tale evento fosse di buon auspicio era sicuro, ma non fu l’unico.
Più tardi, mentre viaggiava fuori città richiamato da urgenti impegni, un coniglio grasso e florido gli corse tra le gambe, e più tardi un cervo dalle corna enormi gli sbarrò la strada. Un topolino venne a rosicchiare un poco del suo cibo mentre desinava, e verso sera vide un serpente intento a ingoiare un grosso uovo. Quando ormai quel fausto giorno volgeva al termine, egli rivolse lo sguardo al cielo, alla gonfia luna che già si apprestava a signoreggiare la notte e, proprio in quel momento, i raggi del sole morente incendiarono una piccola nuvola, così che lui vide il disco lunare come un viso di donna, con il punto rosso delle spose proprio al centro della fronte.
Era Maya quella donna, la sua splendida moglie, la più anziana e bella tra le due, ed egli fu preso da un desiderio di lei così intenso che neppure la forza di cento buoi avrebbe potuto trattenerlo. E quella notte, dopo tanto tempo, si recò al letto nuziale.
Come la terra dopo una lunga siccità accoglie la prima pioggia, così con gioia e fervore Maya ricevette lo sposo ed essi rimasero a lungo abbracciati, come se gli anni passati non fossero che giorni e loro ancora nello splendore della gioventù.
Caduta in un sonno profondo, la regina sognò di essere trasportata in volo sulle cime dell’Himalaya da quattro re, vestita di preziosi panni da quattro regine, e poi avvicinata da un meraviglioso elefante bianco come l’argento che, dopo averle reso omaggio, era entrato nel suo utero attraversando il fianco sinistro, senza arrecarle dolore.
Lieta e gioiosa al risveglio, raccontò il sogno allo sposo che, convocati i Brahmani, ne richiese una sicura interpretazione.

«Rallegrati Suddhodana» dissero quelli dopo essersi reciprocamente consultati «il tuo desiderio sta per avverarsi e sicuramente avrai un figlio maschio. Egli sarà tra gli uomini quello che il leone è tra gli animali, e grande sarà la gloria che egli recherà alla tua stirpe».

Sicuri del loro auspicio e carichi di ricchi doni, i brahmani si allontanarono lasciando gli sposi alla loro incontenibile gioia.
Quando fu il tempo, secondo le usanze, Mayadevi chiese e ottenne dal marito il permesso di recarsi a Koli, presso la sua casa paterna, per essere opportunamente assistita nel travaglio. Con grande seguito partì; il viaggio richiedeva un’intera giornata.
L’intero popolo di Kapilavasthu, tutto in festa, volle salutarla, poi finalmente la carovana si mise in marcia. Il viaggio era lungo e faticoso per il caldo intenso. La carovana fece sosta nel parco di Lumbini, affinché la regina potesse trovare conforto e ombreggiato riposo nelle ore più soleggiate della giornata. Era un luogo assai bello e ben curato questo parco, dove svettavano maestosi alberi di Sal.
Improvvisamente Maya fu colta dalle doglie e in quel luogo meraviglioso, ricco di fiori di ogni specie, stando appesa a un ramo e circondata dalle sue ancelle, partorì un figlio maschio.
L’erba lo accolse con fresche braccia, gli alberi fecero corone di rami per proteggerlo dagli ardenti raggi del sole, i fiori liberarono d’un tratto tutto il loro profumo. Uomini e donne del seguito, e anche gli animali che vivevano nel parco, lepri, uccelli, scoiattoli, serpenti, cervi, grilli e cicale, ognuno a suo modo e con la propria voce, elevarono ringraziamenti agli dei. Era il plenilunio di maggio.

La felicità di Suddhodana era incontenibile. Fece liberare i prigionieri, ridurre le tasse, celebrare feste, distribuire cibo e abiti ai poveri. Trascorsi sette giorni ci fu la cerimonia per l’attribuzione del nome, e da quel momento il bimbo nato nel parco di Lumbini divenne Siddhartha, che significa ‘colui che compie il cammino’. Centootto furono i Brahmani chiamati a convegno, i più saggi, dotti ed esperti nell’interpretare i messaggi delle stelle.

Ansiosi di compiacere e stimolati da ricchi doni, essi sforzarono in ogni direzione la loro conoscenza e convennero sul verdetto. Per bocca di colui che era stato scelto per parlare, dissero:

«Imperitura sarà la gloria che tuo figlio porterà alla stirpe dei Sakya: se sceglierà di essere re egli governerà il mondo intero, se vorrà addentrarsi nella foresta alla ricerca della conoscenza che rende liberi allora la sua verità sconfiggerà tutte le altre fedi».

Piacque a Suddhodana questa profezia che egli così intese:

«Siddhartha, questo figlio tanto desiderato, estenderà il mio regno sino ai confini del mondo e lo governerà con saggezza. Raggiunta la giusta età e compiuti i suoi doveri nel mondo, come vuole la tradizione, si recherà nella foresta e conquisterà la conoscenza che porta in paradiso». E raddoppiati i doni promessi congedò i saggi riuniti a consulto.
Non lontano dal regno dei Sakya, in una caverna nascosta nelle viscere di una montagna aspra e selvaggia, viveva il saggio Asita che era ovunque rispettato per il potere della sua ascesi. La sua conoscenza non aveva uguali e gli stessi dei ne onoravano la saggezza. Gli uccelli cantavano per lui, i cinghiali raccoglievano radici per nutrirlo, in sua presenza i leoni divenivano mansueti e i serpenti incapaci di produrre veleno.
Spinto da sicuri presagi, l’animo colmo di gioia e di meraviglia, egli abbandonò il suo eremo per vedere almeno una volta con i suoi occhi il figlio di Suddhodana, dall’impareggiabile destino. Avvisato del suo arrivo, il re lo ricevette con il massimo degli onori, con deferenza e gentili parole. Ascoltata la richiesta di poter vedere Siddhartha, egli lo introdusse senza esitazione nel gineceo, dove le donne si erano ritirate con il piccolo. Tale privilegio, che sarebbe stato negato a ogni altro, fu concesso al saggio in segno di rispetto per la sua virtù, la veneranda età e la fama priva di macchie.

Così Asita incontrò Siddhartha per un’unica volta e lo esaminò con la massima cura. I suoi occhi che sapevano vedere oltre le apparenze riconobbero su quel piccolo corpo i 32 segni maggiori della perfezione, e gli 80 secondari. Ormai l’anziano asceta non aveva più dubbi: veritieri erano i pronostici che aveva ricevuto. Davanti a lui, tra le sue braccia, stava colui che mai più sarebbe rinato. Profondamente commosso il suo volto fu rigato di lacrime.
Questo atteggiamento allarmò Suddhodana, che lo interpretò come fosse un preludio di sventura. Egli stimava Asita assai più degli astrologi e il pianto del veggente, che tanto bene sapeva padroneggiare la propria mente non meno delle emozioni, lo gettò nel panico facendogli temere il peggio. Ma subito l’altro lo rincuorò con parole colme di speranza:
«Non temere per questo tuo figlio. Non per lui è il mio pianto, ma per me stesso, perché il mio tempo in questo mondo è ormai finito e non potrò ascoltare le parole di costui, che è nato per distruggere la nascita, cosa davvero difficile da ottenere. Quando verrà il tempo egli, indifferente agli oggetti dei sensi, abbandonerà il regno per la foresta, e a prezzo di sovrumani sforzi otterrà la verità, che ai più è negata. Egli raggiungerà la suprema illuminazione e la sua legge sarà come una nave capace di traghettare gli esseri oltre il mare della sofferenza. Non piango per lui ma per me che rimango escluso da questo merito e, nonostante le mie meditazioni, sono destinato a morire senza avere raggiunto il mio scopo».

Sentendo quanto grande fosse la gloria che attendeva quel suo unico figlio, il re si rasserenò e così le donne presenti che si misero in gran festa. A grande gioia seguì grande tristezza perché, solo pochi giorni dopo, Maya, provata dalle fatiche del parto e dall’immensa emozione, si ammalò gravemente e rapidamente morì.
Nei suoi ultimi istanti di vita, mentre calore e respiro lasciavano il suo corpo, raccomandò il figlio alla sorella Prajapati facendole giurare che lo avrebbe accudito come fosse suo. E così ella promise e fece.