Haṃsa Libera Scuola di Hatha Yoga

Maurizio Morelli

SIDDHARTHA IL BUDDHA

I tre palazzi

Siddhartha cresceva sano e forte, accudito con amore e dedizione dalla zia materna. Se il regno dei Sakya era stato un tempo prospero e felice, tutto questo sembrava essersi moltiplicato dopo la sua nascita, come se gli dei della fortuna avessero preso residenza nelle terre di Suddhodana.
Le messi crescevano rigogliose, la pioggia cadeva proprio quando era necessario, vitelli nascevano in gran numero e senza difficoltà, da ogni luogo giungevano proposte di commerci e alleanze, mentre la sventura perseguitava i nemici rendendoli inoffensivi.
Le ricchezze del tesoro reale crescevano a dismisura e anche il più miserabile dei sudditi aveva in abbondanza. I Brahmani ricevevano doni, gli dei sacrifici, il popolo sgravi fiscali.
Nessuno feriva il vicino, o lo insultava, le tradizioni e la legge venivano rispettate e mai, a memoria d’uomo, un regno era stato così felice e ben governato. Aggiungendo gioia alla gioia, anche il ventre di Prajapati era stato benedetto e anch’essa, non più fanciulla e dopo tanti anni di matrimonio, diede alla luce prima un figlio e poi una figlia, sani e di rara bellezza.
Tutto questo non bastava però a rasserenare Suddhodana perché, come spesso accade, egli temeva il danno futuro più di quanto non apprezzasse le gioie del presente. La profezia di Asita, che inizialmente lo aveva riempito di orgoglio per la gloria che con certezza prometteva al suo nome, si era rapidamente trasformata nel timore che il figlio primogenito potesse abbandonare nome, rango e possedimenti prima di avere compiuto quei doveri che gli spettavano per nascita. Sempre pensava a come impedirlo, a come evitare che la catena della sua stirpe potesse essere spezzata. Desideroso di capire ordinò alle sue guardie di convocare ogni Samana che avesse percorso le vie della sua città. Erano costoro asceti pellegrini che a tutto avevano rinunciato, dediti solo alla realizzazione spirituale, e questuando si procuravano il poco cibo necessario al loro sostentamento.
Il re li riceveva tutti con rispetto e, dopo avere offerto cibo adeguato, li interrogava con gentilezza. Questo non destava alcun sospetto ma anzi la più grande ammirazione, perché tutti erano convinti che, come avevano fatto i grandi del passato, il re si stesse preparando ad abbandonare il regno per la foresta, appena il figlio fosse stato in grado di prendere il suo posto. E i Samana, solitamente schivi e restii nelle parole, rispondevano con il cuore aperto e senza reticenze.

Così Suddhodana comprese ciò che doveva comprendere. La visione del dolore, del decadimento e della morte: di questo Siddhartha doveva essere tenuto all’oscuro. Legarlo con catene d’oro agli oggetti dei sensi, al piacere e al godimento: questo andava fatto. E diede le disposizioni necessarie.
Come un uovo si sviluppa tra paglia e piume, così crebbe Siddhartha protetto e accudito secondo gli ordini del re. Non era mai lasciato solo e ogni suo desiderio era soddisfatto prima che potesse formularlo. Chiunque fosse stato vecchio, malato, afflitto da ferite o dolori era tenuto a distanza. Parole come morte o sofferenza erano vietate in sua presenza e chiunque le avesse pronunciate sarebbe stato soggetto a terribili pene.
Solo chi era giovane, prestante, pulito e ben vestito poteva essere ammesso al suo cospetto, e il suo stesso padre e la madre adottiva incominciarono a tingersi i capelli, cercando in ogni modo di nascondere i segni del tempo sui loro corpi.
Solerti giardinieri liberavano ogni notte i giardini dai fiori appassiti, affinché la loro vista non turbasse il giovane principe, suscitando domande inappropriate.
Giovani e leggiadre erano le ancelle e i servitori, e nelle rare occasioni in cui Siddhartha era autorizzato a uscire, questo avveniva sempre con grande pompa e preparativi: le strade venivano abbellite con fiori e nastri colorati, gli anziani e gli infermi nascosti, le cerimonie funebri sospese.
E quando venne il momento e secondo le usanze, avendo il figlio raggiunta un’età adeguata e compiuti i riti necessari, il re scelse per lui una moglie. La sua attenzione cadde su Yasodhara, famosa per bellezza e virtù, che di Siddhartha era cugina.
Ai giovani sposi Suddhodana regalò tre palazzi, uno per l’estate, uno per l’inverno e il terzo per la stagione delle piogge, tutti cinti da alte mura e al cui interno ogni cosa era stata accuratamente preparata per il piacere.
Conoscendo la natura umana e dubitando che una pur simile sposa avrebbe potuto tenere a lungo incatenati i sensi del figlio, stabilì che feste, danze e banchetti dovessero succedersi senza sosta; ricercò le più abili danzatrici, musici di talento e, in gran numero, meravigliose cortigiane abili nell’arte dell’amore.
Siddhartha godette a piene mani di quei piaceri, con quell’entusiasmo che è proprio della gioventù, eppure tutto ciò non gli bastava. In quel regno dove tutti erano felici e soddisfatti, lui solo, che più di tutti aveva e per cui tutto veniva compiuto, si sentiva incompleto, agitato e fuori posto.
C’era qualcosa che non andava in quel gran fervore di feste e allegria che lo circondava, un che di falso e stonato che egli poteva avvertire, anche se non riusciva a spiegarlo.
La sua eccezionale sensibilità gli permetteva di cogliere una sottile reticenza in coloro che lo circondavano, la sua vivida intelligenza era insoddisfatta dalle risposte ricevute alle sue numerose domande. Era una sensazione strana, che aveva messo radici in lui sin dalla più tenera età e con il tempo si era rinforzata e dilatata senza per questo acquisire chiarezza.
Pur non sapendo nulla dell’infelicità si sentiva infelice, ignaro dell’esistenza di prigioni si sentiva prigioniero, incosciente dell’esistenza del dolore, della tristezza e della pena li avvertiva acuti nelle sue carni.

Non conosceva neppure il significato della parola menzogna eppure percepiva con evidenza sempre maggiore di esserne circondato: piccoli segni, piccole tracce che gradualmente prendevano forma nella sua mente, trasformandosi in un’immagine completa.
Talvolta gli capitava di sentire spezzoni di frasi che lo incuriosivano, pronunciate fra loro dalle danzatrici o dai servi, ma appena si avvicinava quelli interrompevano il discorso o lo trasformavano in un altro. Oppure parole sentite in una canzone gli avevano fatto battere il cuore all’improvviso e avevano suscitato domande, ma subito la canzone era dimenticata e il cantante spariva come per magia.
Più volte aveva chiesto ai suoi tutori dove fosse sua madre; se da piccolo aveva creduto ai loro racconti, a come fosse stata trasportata in cielo dagli dei su un carro coperto di fiori e di fuoco, ora aveva imparato a riconoscere la falsità e l’imbarazzo nelle loro voci.
Forzato costantemente al piacere sorgeva in lui, a tratti, un senso di ripugnanza che lo spingeva a cercare un poco di solitudine e quiete, e allora contemplando uno stagno fitto di loti o le fronde di un albero si abbandonava completamente rimanendo immobile per ore, con lo sguardo vuoto. Oppure si perdeva nel seguire il volo degli uccelli che solcavano le vastità del cielo, e potevano andare e venire a loro piacimento, vedere e conoscere ogni cosa.
Altre volte il suo malessere si manifestava con periodi di prostrazione e triste sonnolenza, cui seguivano intolleranza e fastidio per ogni piccola inezia ed egli diveniva ansioso e collerico. Poi d’improvviso, come se nulla fosse, tornava l’uomo di sempre, gentile, vivace, generoso, e si lasciava riprendere dall’unica vita che conosceva, dal piacere del vino, della musica, degli incontri amorosi, delle feste e delle gare con i suoi pari.
Ma la durata delle sue crisi e la loro frequenza andava aumentando, mentre egli prendeva coscienza della propria insofferenza pur non riuscendo ancora a precisarne i motivi.
Sentiva la vita sfuggirgli come se non gli fosse mai appartenuta, e la necessità di colmare il vuoto che avvertiva crescere dentro. Allora iniziarono le fughe notturne, che erano per lui come un lenitivo su una piaga infetta.