Haṃsa Libera Scuola di Hatha Yoga

Maurizio Morelli

SIDDHARTHA IL BUDDHA

Il grande fiume

Alzando gli occhi ormai velati, al Sublime parve di riconoscere il tempio del dio Kama, dove un tempo Siddhartha era stato guarito dall’amore di una donna. Facendo schermo con la mano sforzò la vista e sì, era proprio quel tempio, anche se ora un ampio giardino lo circondava e i muri franati erano stati ricostruiti e abbelliti con fregi e sculture.
Era stanco il Sublime, stanco, dolorante e pieno di acciacchi. Ed espresse l’intento di recarsi in quel luogo per riposare.
Più di quarant’anni erano trascorsi da quella notte di luna piena in cui aveva cessato di essere Siddhartha. E da allora non si era mai fermato. Solo nella stagione delle piogge poteva riposare un poco, ma di anno in anno quel periodo gli sembrava sempre più corto, insufficiente.
Dopo avere raggiunto la suprema illuminazione era rimasto ancora sei giorni seduto sotto il maestoso Pipal, aspettando che ogni cosa si disponesse come doveva, così da poter essere trasmessa. Come spiegare l’inspiegabile? Come trasmettere l’inconoscibile? Come comunicare ciò che non può essere detto? A questo erano serviti quei giorni, affinché ogni cosa svelata trovasse parole adeguate per essere espressa, ed essendo espressa divenisse condivisibile.
Primo ad ascoltarlo era stato Svasti, e in seguito i suoi fratelli e altri bambini dello stesso villaggio. Erano stati loro a stabilire che il suo nome avrebbe dovuto essere, da quel momento in avanti, ‘Buddha, il risvegliato’. In quella stessa occasione avevano battezzato il Pipal ‘Albero della Bodhi’, perché sotto le sue fronde era avvenuta l’illuminazione.
Poi si era recato a Benares e aveva convertito alla nuova luce i cinque asceti che con lui avevano condiviso gli anni delle macerazioni. I cinque erano diventati dieci, i dieci cento e poi migliaia e centinaia di migliaia. Ovunque andasse folle immense lo attendevano per ascoltare il suo messaggio, e molti chiedevano di entrare nell’ordine e ancor più numerosi erano quelli che volevano servirlo come devoti laici, osservando le regole e impegnandosi a sostenere i monaci. E i più ricchi tra questi regalavano boschi e palazzi, finanziavano la costruzione di monasteri, facevano donazioni.
Quasi tutti i membri del clan dei Sakya, compreso Rahula che di Siddhartha era figlio, erano entrati nell’ordine. E poiché molte donne, tra cui Yasodhara e Prajapati, avevano espresso un identico desiderio era stato fondato anche un ordine femminile.
Era un lavoro immenso quello che aveva compiuto, e il suo corpo dava ormai segni di cedimento. Oltre ai continui spostamenti c’erano riti da codificare, contese da appianare, conventi da gestire, dispute da risolvere. Non bisogna neppure dimenticare che, se in molti amavano il Sublime ed erano ansiosi di seguire la sua dottrina, in egual numero erano quelli che lo disprezzavano, lo diffamavano, lo schernivano.
Ma non erano i nemici a suscitare il suo timore, e neppure della fatica si lamentava. Erano piuttosto i suoi monaci a inquietarlo, la loro ottusa cecità. Lo adoravano come fosse un dio, imparavano a memoria i suoi discorsi, si fissavano su una frase e la trasformavano in verità assoluta e poi discutevano animosamente per stabilire chi avesse meglio compreso. Prigionieri della propria mente, ecco che cos’erano, null’altro che questo.
Mentre lui era ancora in vita quelli già si dividevano in gruppi, l’uno nemico dell’altro, ognuno prigioniero del proprio meschino brandello di verità come un pesce dell’amo che ha ingoiato. Vedeva nascere gerarchie, stabilire convenzioni, trasformare gli insegnamenti. Ogni volta doveva ripartire dal punto più basso, invitare all’esperienza, al non perdersi nei concetti evitando di lasciarsi confondere da ciò che è affermato come da ciò che è negato.
Ma tutto sembrava inutile. Benché esente dal dubbio, gli capitava talvolta di chiedersi se tutto quel lavoro non fosse inutile e se egli, come un medico inesperto, non stesse provocando una malattia peggiore di quella che si era proposto di curare.
«Se almeno uno capisse, potesse vedere, sperimentare, allora tutto questo non sarebbe vano. Lasciare una sentinella sul ponte, una guida nel deserto, mantenere aperto il passaggio, questo sarebbe sufficiente» così pensava e intanto poneva un piede davanti all’altro, predicava, insegnava, istruiva senza concedersi tregua.
Un monaco gli si pose davanti e, avendogli rispettosamente toccato i piedi con la fronte, chiese l’autorizzazione a parlare. Era Marka, era entrato nell’ordine da alcuni mesi. Poiché era nato nei pressi del tempio di Kama, era stato scelto come guida e da molti giorni lo accompagnava nei suoi spostamenti.
Ricevuta l’autorizzazione, così disse: «Essendo io la guida e avendo udito il proposito del Maestro di recarsi a riposare in quel tempio, devo tentare di dissuaderlo. Quel luogo apparentemente così sereno è abitato da una strega devota a Kama, dotata di grandi poteri. Da ogni luogo le donne sterili vanno da lei per ottenere la benedizione di un figlio, e solo toccandole sul ventre le rende fertili».
Si fermò un attimo, ma non aveva terminato: «Pur abitando in questo luogo da molto prima della mia nascita, ella sembra una ragazza di diciotto anni, perché il dio la protegge e rende incorruttibile il suo corpo. Se un uomo la guarda perde per sempre la ragione e, dimenticato il proprio nome, si nasconde nella selva vivendo come un animale. In considerazione di quanto ti ho detto e per la compassione che provi verso tutte le creature ti prego di desistere dal tuo proposito, affinché noi non rimaniamo orfani della tua saggezza».
Ascoltato quanto quello aveva da dire il Sublime si sedette, e invitò anche gli altri a fare lo stesso. Disse: «Ascoltami Marka, guarda la mia mano». E girandola verso l’alto aprì le dita una a una. Marka si sentì avvolto da un alito gelato e terrorizzato si guardò intorno. Stava immerso fino alla vita nella neve soffice, su un crinale scosceso di un monte altissimo, e sentiva il terreno mancargli sotto i piedi. Stava scivolando verso il baratro. In lontananza sentiva la voce del Maestro che gridava: «Afferra un pugno di neve, non esitare o sarà per te troppo tardi».
E benché non potesse credere a ciò che stava sperimentando fece come gli veniva ordinato. Appena la mano ebbe afferrato la neve, egli si ritrovò seduto davanti al Sublime, scosso da un tremito che non poteva fermare. Rivolse lo sguardo alla mano, da cui colavano rivoli sottili; aprendola vide la neve che già cedeva al calore.
«Pensi veramente che debba preoccuparmi della magia?» gli chiese il Maestro.
Confuso, Marka si inchinò e silenziosamente si pose in disparte.

Oltrepassando la soglia della Pujashala sentì una grande energia diffondersi nel corpo, e dopo il secondo passo le articolazioni erano tornate morbide e i muscoli saldi attorno alle ossa. Con il terzo la pelle recuperò la sua elasticità. Quando arrivò a sedersi davanti al fuoco era ancora Siddhartha, giovane e forte come era stato tanti anni prima. In quel luogo il tempo aveva perso la sua battaglia.
Bella più della stella del mattino, Sujata sedeva di fronte a lui, li separava la fiamma. Si guardarono in silenzio finché lei, aprendo maggiormente il suo sorriso, disse: «La legna è terminata, non resta che un ultimo ciocco».
«Ogni cosa è stata restituita» rispose Siddhartha «lascia che finalmente si consumi». Distolto a fatica lo sguardo si allontanò da lei.
Vedendolo uscire dal tempio i monaci si stupirono notando che il suo passo aveva recuperato vigore e, scambiandosi occhiate furtive, si chiedevano che cosa fosse avvenuto in quel luogo, in cui il Maestro era rimasto per tre giorni solo con quella donna.

Accompagnato da Ananda e Kassapa, il Sublime entrò nel recinto delimitante il giardino di Cunda, che esercitava la professione di fabbro. Il primogenito di costui, che era anche l’unico maschio, aveva abbandonato la casa paterna per entrare nell’ordine, lasciando così il padre senza discendenza e senza alcuno che potesse onorarlo nei riti funebri. Per questo Cunda odiava il Sublime, la sua dottrina e tutti quelli che la seguivano.
Conoscendo la legge che impone al monaco di accettare quanto viene posto nella ciotola, senza fare distinzione sulla natura né del cibo né del donatore, egli lo aveva invitato per potergli recare offesa e danno.
«Vediamo se costui rispetta almeno la sua legge» aveva tramato tra sé. E con ogni cura aveva organizzato l’inganno.
Avendo messo a frollare della carne di maiale, attese di vederla brulicante di larve di mosca. Poi la cucinò mescolandola a funghi velenosi. Questo fu il pasto che offrì ai suoi ospiti.
Vedendo quel cibo immondo, Ananda e Kassapa voltarono il capo sdegnati. Ma il Sublime, non volendo violare una regola da lui stesso stabilita, mangiò quanto gli era offerto e, terminato il suo, svuotò anche le ciotole dei suoi compagni, impedendo così che essi mancassero alla legge e al tempo stesso che venissero avvelenati. Terminato il pasto, dopo avere ringraziato Cunda per l’ospitalità, i tre abbandonarono quel luogo.
Prima venne il vomito, violento come un uragano, poi si aggiunsero le coliche e il suo ventre sembrava un sacco in cui erano stati rinchiusi dei gatti malati di rabbia. Ma egli non voleva fermarsi e controllava il corpo con il potere della concentrazione.
Tuttavia, benché ridotte, le coliche continuarono a manifestarsi, ogni volta più forti, lasciandolo sempre più debole. Sentendo avvicinarsi la fine, si sdraiò tra due alberi di Sal, fratelli di quelli che lo avevano visto nascere tanti anni prima. Sul bordo del sentiero, bruciante di febbre, chiese ad Ananda di portargli dell’acqua attingendola al vicino torrente. Ma essendo appena transitati carri e armenti, quello non voleva portargli acqua fangosa, ed esitava.
«Ananda, Ananda» pensò il Sublime «esisterà mai un uomo più buono, più compassionevole, più devoto di lui? Da quarant’anni segue ogni mio passo, da quarant’anni sta fermo sulla soglia dell’illuminazione e non riesce a entrare. Cercando con ogni sua forza di realizzare l’equilibrio non si rende conto che anche in questa ricerca può esservi eccesso».
Così pensando ripeté per tre volte la sua richiesta e infine Ananda si decise a obbedire e, raggiunto il corso d’acqua, la scoprì pura e limpida, come se nessuno fosse passato da molti giorni. Addolorato per avere avuto una tale mancanza di fede e per aver recato sofferenza al Maestro con il suo rifiuto, Ananda ritornò con la ciotola colma e il cuore traboccante di vergogna.
«Ti chiedo di perdonarmi per non averti obbedito, e per aver protratto la tua sete» disse Ananda piangendo, dopo che l’altro si fu dissetato.
«Sei perdonato, Ananda, troppa solerzia si chiama la tua colpa. O forse avevi scordato che anche colui che ha estinto la sete ha bisogno di bere. Ma ora ascoltami, perché il fiato sfugge da me e presto gli elementi che mi compongono si separeranno, disponendosi ognuno secondo la propria natura. Anche tu devi perdonarmi e assai più grave è la mia colpa» disse il Maestro.
L’altro rispose: «Come puoi tu avere colpa alcuna? Ma dimmi ciò che vuoi, e se richiedi il mio perdono anticipatamente lo concedo».
«Devo rivelarti un grande segreto, che ho tenuto celato in me per tutti questi anni» affermò il Sublime, e mentre parlava la sua voce si faceva sempre più flebile così che l’altro dovette avvicinarsi maggiormente, e la paura di non sentire si combinava in lui con quella di ascoltare. «L’illuminazione, Ananda, l’illuminazione…»
«Ti ascolto Maestro, ti sento, l’illuminazione…» lo esortò Ananda.
«L’illuminazione, Ananda… questo è il segreto… l’illuminazione non esiste!» disse il Sublime e queste furono le sue ultime parole.
Come colui che cavalcando selvaggiamente urta con il capo un solido ramo, così rimase Ananda, frastornato, sorpreso, incredulo… Ogni idea, ogni speranza, ogni conoscenza, tutto fuggì da lui lasciandolo sgombro e vuoto. Ed essendo rimossa ogni barriera, stringendo tra le sue le mani del Maestro, sorse in lui lo stato supremo. Così Ananda raggiunse l’illuminazione, mentre il Sublime esalava l’ultimo respiro.
In quello stesso istante nel tempio di Kama, sotto lo sguardo impassibile del dio, la fiamma si spense e Sujata crollò di schianto in avanti, con il viso nella brace. I suoi lunghi capelli si attorcigliarono un poco per il calore, poi fu solo il silenzio.

In piedi sulla sabbia tiepida, Siddhartha e Sujata contemplavano il grande fiume. Potevano vedere l’altra sponda e presto l’avrebbero raggiunta. Ancora i loro occhi si incontrarono poi, tenendosi per mano, si tuffarono in quelle acque.