Haṃsa Libera Scuola di Hatha Yoga

Maurizio Morelli

SIDDHARTHA IL BUDDHA

Notte di plenilunio

La fresca brezza del mattino scivolava dalle montagne trascinando con sé il profumo colorato dei fiori, che già fremevano per l’imminente ritorno dell’alba. Diffondendo una luce ambrata, l’immensa luna splendeva nel cielo e sembrava tanto vicina da poter essere afferrata con un salto.
Così intenso era quel chiarore che si poteva distinguere con precisione ogni cosa, e solo là dove gli alberi facevano comitiva si percepivano distinte le macchie della notte. Poggiato a un grosso masso, diritto e immobile, Siddhartha lasciava che il suo sguardo vagasse senza meta lungo la linea che separava quasi nettamente la luce dal buio. La sua mente era insolitamente calma, e un senso di pace si era sostituito allo stato di febbrile agitazione e sconforto che lo aveva dominato negli ultimi mesi.

«È la magia di questo posto» pensò «qui stanno le mie vere radici, unite a quelle di questi alberi, e qui forse abita lo spirito di mia madre che ancora veglia su di me».

Un brivido lo scosse a quel pensiero e si sorprese a singhiozzare.
Sua madre era morta perché lui era nato. Questa consapevolezza che da sempre viveva nascosta nel buio della sua mente e, come un tarlo che consuma il legno, svuotava dall’interno la sua naturale gioia di vivere e la sua giovinezza, si era finalmente mostrata in tutto il suo orrido aspetto. La vita non è che il preludio della morte, la giovinezza della vecchiaia, la salute della malattia, la felicità del dolore, questo è il destino ineluttabile cui nessuno può sottrarsi. Nessuna ricchezza, potere, fortuna o privilegio di nascita possono mutare il corso di questi eventi, neppure le magie dei Brahmani, i loro inutili e costosi riti e tutte quelle altisonanti formule che sempre vanno cantilenando. Questo è il destino degli uomini, degli animali e di ogni creatura vivente, cui neppure gli dei possono sfuggire.
Il giovane principe era come scisso e, mentre singhiozzava disperato, la sua mente ragionava con straordinaria lucidità:

«Come può esserci piacere sapendo che proprio da quello nascerà un dolore ancora maggiore? Come può un uomo, pur trovandosi a camminare in un luogo splendido, provare felicità per ciò che lo circonda sapendo che quello stesso sentiero che sta percorrendo lo conduce alla morte, alla distruzione, al disfacimento? Come può esserci piacere nell’abbracciare splendide fanciulle sapendo che presto i loro corpi saranno
sfatti e flaccidi, e già nei loro occhi si intravedono brulicanti i vermi della decomposizione? ». «Se non c’è scampo a tutto questo allora la vita non ha senso, né è di alcun vantaggio essere nati principi o re. Forse sono più fortunati coloro che nascono miserabili e poco hanno da perdere, a loro sembreranno meno penose la vecchiaia e la morte».

Così ragionava Siddhartha sotto lo sguardo vigile di Channa, che si teneva a distanza ma mai si distraeva. Channa era preoccupato, per il principe non meno che per se stesso.
«Nulla è peggio di dover servire due padroni» disse tra sé. Era paggio personale di Siddhartha, e a lui doveva obbedienza ma non meno che a Suddhodana, suo padre, signore di quelle terre, che pretendeva relazioni sul comportamento del misterioso figlio. Gli era richiesto anche di controllarlo, impedendogli di vedere, chiedere o sapere ciò che era stato deciso dovesse ignorare. Ingrato compito era il suo, e sempre più difficile.
Era assai abile Channa, sveglio e astuto, e fino a quel momento aveva saputo destreggiarsi tra i due senza creare troppo scompiglio, un po’ negando e un po’ confondendo, con qualche piccola bugia e molte omissioni. Ma la situazione gli stava sfuggendo di mano e già avvertiva con timore il morso della frusta sulla sua schiena. Suddhodana era un buon padrone, capace di grande generosità ma anche di reazioni furiose e violente, e se avesse scoperto le loro uscite notturne, sicuramente sarebbe toccato a Channa pagarne il prezzo.
Ancora di più, Channa era preoccupato per il principe, per la sua salute e soprattutto per le sue condizioni mentali. Era sempre stato strano e originale, già da bambino: come definire altrimenti il comportamento di chi, avendo a disposizione ogni piacere, passa ore a contemplare alberi, fiori di loto o il volo degli uccelli? E poi i suoi repentini cambiamenti di umore, quelle tristezze che sembravano possederlo sin nel midollo delle ossa… Ma almeno sino a qualche tempo prima, queste stranezze non si manifestavano di frequente, e Siddhartha aveva saputo anche divertirsi ed essere allegro e gioioso.
Fino a quella fatidica notte.

Ormai da tempo Siddhartha era insofferente all’eccessiva protezione cui era sottoposto. Feste, danze e tornei non riuscivano più a interessarlo e con sempre maggiore determinazione premeva perché lo lasciassero uscire dal suo nido. Voleva vedere, conoscere e sperimentare quel mondo di cui ancora non sapeva nulla.
Questo non faceva che rendere suo padre ancora più ansioso, e lo spingeva a stringere, anziché allentare, il cordone protettivo che aveva teso attorno al primogenito da cui si aspettava troppo e che da troppo tempo viveva prigioniero dei timori paterni. Talvolta Suddhodana sembrava cedere e gli permetteva di uscire, addirittura era arrivato egli stesso a proporre al figlio delle gite, ma solo dopo avere ripulito la città da qualsiasi oggetto o persona che potesse turbarlo. E sempre lo faceva seguire e circondare da stuoli di suoi fidi, ballerine, paggi, musicisti; così che anche fuori dai suoi palazzi il giovane si trovava con le stesse persone che stavano all’interno.
Frustrato, insoddisfatto e confuso Siddhartha si era rivolto a Channa, aveva preteso che gli facesse da guida per evasioni notturne. Prima, in verità, lo aveva pregato ma poi aveva vinto il suo diniego con ordini perentori e buoni regali.

Uscivano solo quando la luna era sufficientemente alta da illuminare la strada e si comportavano in modo assai prudente.
Channa si premurava di nascondere due buoni cavalli fuori dalle mura e poi, nel cuore della notte, sgusciavano insieme fuori da una porticina seminascosta nella vegetazione, alla cui custodia era addetto un parente stretto di Channa, che veniva ben pagato per la sua distrazione. Cavalcavano verso il fiume o i boschi che circondavano la città, dove passavano qualche ora camminando sull’argine o ai bordi delle macchie.
Siddhartha amava spesso sedersi davanti all’acqua che correva placida, con i piedi a mollo, e se ne restava così, immobile e perso nei suoi pensieri, per un tempo che al giovane paggio sembrava non finire mai. Poi, prima che la notte terminasse, tornavano indietro silenziosi come spettri, si infiltravano dal solito passaggio e si separavano.
Nei giorni che seguivano queste segrete uscite, il giovane principe sembrava pacificato e tornava a comportarsi come ci si aspettava che si comportasse, come sembrava giusto e naturale che facesse. Ma poi il demone che lo rodeva da dentro riprendeva a farsi sentire e balli, feste, danzatrici e gioie coniugali non erano sufficienti a calmarlo. Riprendeva a essere agitato, ansioso, scontroso, torvo e distratto e allora il buon Channa capiva che doveva nascondere i cavalli nel bosco per una nuova uscita.
Nessuno li aveva mai visti, o se era successo non erano stati riconosciuti, né tanto meno era mai capitato loro di incrociare esseri viventi, attenti com’erano a spostarsi solo su sentieri secondari. Era ben governato il regno dei Sakya, e laboriosi e timorati i suoi abitanti, la maggior parte dei quali si coricava al tramonto per alzarsi all’alba. Solo nei postriboli o in pochi luoghi malfamati si poteva incontrare qualcuno che fosse ancora
sveglio durante la notte, ma da tali luoghi loro si tenevano lontani.

Se nelle prime uscite la loro attenzione e cautela erano state massime, già da tempo avevano acquisito un atteggiamento più rilassato, che solo in vicinanza della città tornava a essere prudente e accorto quanto la situazione richiedeva. Così erano totalmente impreparati quando un uomo, silenzioso come una volpe, uscì all’improvviso dai cespugli e si avventò su Siddhartha, ed entrambi rimasero come pietrificati dal terrore credendo di essere attaccati da un demone.
Costui rimase come appeso al principe, versando copiosamente bava sanguinolenta sugli immacolati abiti di lui, mentre un miasma osceno che sapeva di urina, sporcizia, putredine e decomposizione invadeva l’aria circostante, impedendo il respiro. Per un attimo il mondo rimase come sospeso, come se l’universo, trovata finalmente una posizione stabile, avesse deciso di fermarsi. Poi tutti e tre contemporaneamente iniziarono a urlare e mentre Channa metteva mano al pugnale, Siddhartha spingeva via l’intruso mandandolo a rotoloni nell’erba alta. Cadendo quello urtò un sasso, dette un gemito straziato e rimase immobile in una posizione innaturale e scomposta.
Senza interrompere le sue grida di terrore, agendo senza pensare e solo per effetto di lunghi allenamenti, Channa gli fu d’un solo balzo addosso e, mentre con una mano lo afferrava per gli abiti, il pugnale che stringeva nell’altra era già pronto per colpire. Non fosse stato per la generosa luce della luna avrebbe ucciso, ma un attimo prima di affondare la lama vide che l’aggressore non era né un demone né un bandito ma solo un povero vecchio. Un miserabile mucchio di ossa avvolte in cenci sudici e puzzolenti, l’essere più orribile, decrepito e nauseabondo che avesse mai visto, ma pur sempre un povero vecchio inoffensivo. Channa lo sollevò di peso, e gli sembrò di stringere un sacco vuoto.
Siddhartha sembrava impazzito e mentre si strappava gli abiti cercando di ripulirsi da quel contatto immondo, con voce spezzata andava gridando:
«Chi è quest’essere? Da quale inferno è mai uscito questo demone? Che vuole da noi?»
e un timore superstizioso gli scuoteva le membra. Tremava come una foglia e il suo volto era una maschera di disgusto, ma intanto aveva iniziato ad avvicinarsi.
Channa, mentre con una mano sorreggeva il vecchio, con l’altra ancora armata di pugnale fece un gesto per trattenerlo a distanza: «Non ti avvicinare mio signore, che tu non debba essere contaminato da costui. Ma non temere altro, non è un demone ma solo un povero vecchio anche se in verità mai ne vidi uno tanto miserabile e malconcio. Non voleva aggredirci, né potrebbe anche se volesse. Alla luce di questa splendida luna posso distinguere il velo che copre i suoi occhi, e che sicuramente gli impedisce di vedere ciò che lo circonda anche nella più gloriosa luce del mezzogiorno. Ma anche se la sua vista fosse come quella dell’aquila, ben poco potrebbe fare, tanto è mal ridotto il suo corpo da cui tutta la carne sembra scomparsa. È miracoloso che possa reggersi in piedi, dovrebbe
essere morto da tempo costui, e se può fare male a qualcuno è solo per la puzza che diffonde. Forse dormiva in un cespuglio e svegliato e intimorito dai nostri passi si è alzato cadendoci addosso».

Mentre finiva di parlare già si rese conto dell’errore commesso, aveva usato parole vietate, spiegato ciò che andava celato, rivelato quello che doveva rimanere nascosto. Ma ormai il danno era fatto e, come un uomo che, lanciato un sasso in un dirupo provoca involontariamente una valanga inarrestabile, resta attonito fissando l’effetto della sua azione, così rimase Channa temendo il peggio. E quello che doveva accadere accadde. Nelle ore successive Siddhartha ricevette la sua iniziazione al dolore dell’esistenza, lui che nel piacere aveva vissuto immerso e prigioniero. Nulla avrebbe mai più potuto essere come prima.