Haṃsa Libera Scuola di Hatha Yoga

Maurizio Morelli

SIDDHARTHA IL BUDDHA

Il maestro Udraka

Senza una meta, Siddhartha camminò per giorni nella foresta, mendicando un po’ di cibo nei villaggi e dormendo nella macchia. Sempre ripensava all’esperienza avuta presso il maestro Arada, alle cause dell’insuccesso e ai limiti di quella dottrina pur così alta, sottile e ben organizzata. E si convinceva di come l’errore fosse nel considerare possibile il superamento dell’Io per mezzo dell’Io, e di come, pur sostituendo all’oscuro il luminoso, questo non fosse sufficiente a uscire dal ciclo di nascita e morte.
«Avendo un tale e pur supremo Sé degli attributi, ha anche sostanza e, avendo sostanza, esistenza. E ciò che ha esistenza è sottoposto a karma. A chi ha in cuore l’aspirazione al paradiso si confanno tali pratiche, le quali, nonostante conducano ad alte dimore, non permettono tuttavia il raggiungimento dello scopo che mi sono proposto.» Così pensava Siddhartha senza poter trovare una soluzione che gli desse certezza.
Il suo spirito, che la meditazione aveva reso affilato come la più tagliente delle lame e che ormai nulla più considerava come reale se non i suoi stessi pensieri, si ammorbidì un poco per effetto di tutto quel camminare, giorno dopo giorno. Spinto dal movimento delle gambe, il sangue riprese vigore e dai tessuti di quel corpo che andava risvegliandosi cominciarono a emergere ricordi e immagini che lo sorprendevano oppure lo intristivano, lo rallegravano oppure lo irritavano, ricordandogli come tutto fosse stato compiuto invano. Lo assalivano desideri che credeva di avere estinto, timori di cui non riusciva a tracciare i contorni, speranze che temeva di non poter portare a compimento.
Ma avendo la sua mente una naturale predisposizione alla logica, ed essendo stata opportunamente addestrata, egli non si limitava a percepire. Analizzava invece ogni cosa, la confrontava, misurava, paragonava, e da tutto traeva insegnamento.
«Pur avendo purificato la mente, e avendola condotta ai suoi estremi limiti, nulla è stato compiuto. Avendo liberato la mente dai suoi contenuti, essi non si sono estinti, ma semplicemente nascosti nelle pieghe del corpo.
«Come una rete ben tessuta tiene lontano il serpente ma non per questo gli impedisce di secernere il suo veleno né di generare altri serpenti, così la meditazione che ho praticato dà l’illusione di una sicurezza ma non estingue il pericolo. Essendo il suo effetto collegato all’atto (di colui che medita), e l’atto inevitabilmente parte di colui che lo compie, e soggetto al tempo e al luogo in cui viene compiuto, il suo effetto può esistere solo nel Samsara.
«Solo estinguendo colui che compie l’atto può essere portata a termine l’impresa, ma ecco che costui, spazzato via dalla mente, riappare nel corpo, e da lì si riappropria anche della mente, così che non sembra esserci soluzione.»
La pioggia era caduta copiosa e, nel calore del pomeriggio, dalla terra fradicia si alzava un vapore spesso e denso, che si appiccicava alla pelle come un immenso telo caldo e bagnato. Uomini e bestie, ognuno secondo la propria natura, si riposavano aspettando il fresco della sera, la luna e l’oblio della notte.
Fu allora che un monaco apparve da quella nebbia, silenzioso e mite, lo sguardo splendente nel viso radioso, e si fece incontro a Siddhartha che procedeva in direzione opposta.
«Il mio nome è Dananjai» disse rispondendo al suo saluto «e sono un discepolo di Udraka Ramaputra, che vive nella luce e insegna la meditazione profonda. Per lunghi anni ho soggiornato presso di lui e ricevuto istruzione e guida. Ora, con la mente serena e l’animo in pace, sono in viaggio per assolvere un compito che il mio stesso maestro mi ha affidato, rendendomi così onore con la sua fiducia. Altro non posso dirti».
E avendogli Siddhartha esposto senza reticenze dubbi e aspirazioni, quello così continuò: «Sagge e profonde sono le tue osservazioni, e io non sono in grado né di affermare né di negare, essendo la mia mente assai poco versata nel disquisire. Posso regalarti solo la mia esperienza e per questo ti consiglio di recarti sui monti Pandava, all’eremo del maestro Udraka, e affidarti alla sua saggezza. Forse potrà guidarti, oppure ti aiuterà a svelare quella verità che spontaneamente sta sorgendo nel tuo cuore».
E avendo così concluso i loro discorsi, ed essendo inopportuno per dei monaci il vano conversare, rispettosamente si salutarono proseguendo ognuno il proprio cammino.

All’opposto di Adara, che aveva i modi e gli atteggiamenti di un guerriero e i lineamenti del rapace, da Udraka traspariva una dolcezza materna, un senso di accudimento e di tenerezza quasi femminea. Assai basso di statura, aveva grandi occhi bovini che risplendevano umidi sul suo viso arrotondato, illuminato da un perenne e scintillante sorriso. Non c’era nulla di austero in lui e ogni suo gesto e parola avevano il morbido flusso del miele che cola dal favo.
Intrattenendosi con lui in lunghe conversazioni, Siddhartha poté appurare come la sua scienza non fosse diversa da quella di Adara, con la differenza che Udraka si era spinto a profondità ancora maggiori, ma senza per questo ottenere la liberazione finale.
Il fatto che le stesse pratiche potessero avere effetti così diversi fu per Siddhartha fonte di grande sorpresa. Ancor più lo stupì scoprire come Udraka, anziché contestare i suoi dubbi, si mostrava invece assai interessato alle ipotesi che egli aveva formulato in quegli ultimi giorni. Come fossero stati pensieri suoi, a lungo meditati, il maestro riusciva a dar loro forma in modo assai più preciso di quanto lo stesso Siddhartha potesse fare.
«Come il camaleonte modifica il suo colore a seconda dell’ambiente in cui si trova, così la verità si manifesta in modo diverso. Io sono il seguace di una tradizione che non fallisce, eppure essa è incompleta perché non tutto è stato rivelato. In essa puoi trovare ali e vento, ma la direzione del volo devi stabilirla tu stesso.
«La rinuncia è tanto più grande quanto maggiori sono i beni e i piaceri che si lasciano, e minore l’età in cui si compie. Assai più facile è lasciare miseria e vecchiaia per cercare la verità, mentre tu hai abbandonato un regno florido nel vigore della giovinezza. Per questo io ti stimo come il migliore tra gli uomini. Conversare con te è per me una gioia.
«Ora, mentre sono qui e felicemente mi appresto a rivelarti senza nulla omettere il mio pensiero, devo prima dirti che nessuna parola, per quanto ponderata e sincera, può contenere la verità. Così avvisato, tu potrai dare il peso che merita a quanto stai per udire.
«È vero, come hai giustamente osservato, che quell’Io il quale, costretto dal fuoco della meditazione, si ritira dalla mente, continua tuttavia a dominare il corpo, che diviene per esso rifugio e nascondiglio sicuro. È da qui che l’Io torna là da dove era stato scacciato, appena le condizioni lo permettano. Assai difficile è liberarsi dal Samsara, ancor più che tessere un mantello con i raggi del sole o fabbricare una corda con la sabbia. E siccome non ha senso costruire un alto e magnifico palazzo e occuparsi di fregi e arazzi senza avere consolidato ampie fondamenta, molti ritengono che sia necessario purificare prima il corpo e il vitale. Solo avendoli ridotti come buoi ben aggiogati al carro, si potranno praticare i vari gradi della meditazione.
«E se vuoi sapere, come certamente desideri, in qual modo ottengano un simile risultato, allora io sono pronto a spiegarti ogni cosa, in base a quanto rivelatomi da chi ne ha fatto esperienza.
«Costoro si sottopongono a un’ascesi estrema: quando il corpo ha fame gli negano il cibo, quando vuole muoversi lo costringono all’immobilità, quando chiede aria trattengono il respiro, quando vuole parlare tacciono, quando cerca il piacere gli somministrano dolore. Nutrendolo di sole privazioni lo svuotano di ogni impulso e di ogni contenuto.
«Come un generale feroce, desideroso solo di vittoria, incendia le città e i campi dei nemici affinché non resti loro alcun posto in cui nascondersi e nulla di cui nutrirsi, così fanno costoro con il proprio corpo, sino a ridurlo alla totale obbedienza.
«Ora che ti ho detto questo, e poiché colgo in te l’anelito a cimentarti nell’impresa, devo renderti edotto sui risultati di una simile ascesi. Molti hanno così conquistato impareggiabili poteri, altri siedono ora al fianco degli dei o godono di ineguagliabili piaceri tra le braccia delle Apsaras. Ma nessuno di loro, per quanto io possa sapere, ha mai attraversato il grande fiume e quando il loro tempo verrà tutti dovranno morire, e poi rinascere.»
E a Siddhartha, che ancora non si mostrava soddisfatto e altro voleva conoscere, descrisse in ogni particolare le rudi pratiche di quei sommi asceti.