Haṃsa Libera Scuola di Hatha Yoga

Maurizio Morelli

SIDDHARTHA IL BUDDHA

Pellegrinaggio nelle macerazioni

Ancora solo e insoddisfatto e più che mai assetato di verità, Siddhartha attraversava la foresta con passo sicuro.
Penoso era stato abbandonare il maestro Udraka. Pensava: «Se all’inizio del mio cammino avessi incontrato un tale maestro, acuto, gioioso, profondo e comprensivo, dotato di una calma perfetta, sempre presente a se stesso e amorevole verso ogni creatura, sicuramente mai lo avrei abbandonato e, messa da parte ogni ulteriore ricerca, sarei rimasto presso di lui. Ma il desiderio di sperimentare l’ascesi più totale e, annullando il Karma, vincere nascita e morte è ormai radicato in me, e anche se restassi, sarei vittima del rimpianto».
Così aveva deciso di partire, ma per lunghi giorni la tristezza fu sua compagna.
Nei mesi trascorsi presso l’eremo di Udraka e grazie al suo insegnamento aveva chiarito il proprio pensiero e appreso come approfondire maggiormente il livello di meditazione. Ma il vero dono, il grande cambiamento, era avvenuto non per effetto delle parole o della pratica, ma per la costante vicinanza al maestro. Un’energia sottile e impalpabile era da questi fluita in lui, per manifestarsi poi, d’improvviso e con tutto il suo potere, mentre solitario attraversava la folta macchia.
Un serpentello gli strisciò tra i piedi, inducendogli un brivido intenso. Fece un balzo e, atterrando su un tronco spezzato, sentì un’onda salire dal basso, attraversarlo interamente e poi continuare la sua ascesa.
Ed ecco improvvisamente il cambiamento: una luce intensa e un attimo dopo la foresta che tornava a essere foresta, l’albero albero, la liana liana, il cervo cervo, la scimmia scimmia e così per ognuna delle innumerevoli creature che in quel luogo vivevano. Non più ostacoli alla percezione del Brahman, ora il Brahman stesso brillava in ognuna di loro: era il sasso e la foglia, il lombrico e l’aquila, il sole e il ruscello, l’elefante e l’insetto.
Ancora poteva amarle Siddhartha, e aprirsi al potente flusso d’amore che da ognuna di loro si muoveva verso di lui. Maya non c’era più, si era dissolta, e al suo posto era rinata la vita. Preda di una commozione incontrollabile, egli cadde in ginocchio e a lungo pianse calde lacrime di gioia. Meraviglioso era il creato, meraviglioso il Brahman, che cos’altro rimaneva da cercare? Ecco l’illuminazione!
Come chi avendo trasportato a lungo un pesante carico si sente leggero quando finalmente lo posa, così si sentiva alleggerito Siddhartha, e poi sollevato e infine capace di volare come un uccello. E si mise a correre tra tronchi e liane cantando al vento la sua gioia. Percependo ogni particolare nell’insieme e l’insieme in ogni particolare, immerso in un oceano di luce e di comprensione, egli corse per ore attraversando la foresta, come un sasso che penetra nell’acqua.
Tuttavia, poiché con la massima determinazione egli stesso aveva scelto il proprio destino, e non essendoci nell’universo forza in grado di cambiarlo, questo riprese il sopravvento imponendosi suo malgrado.
Il bordo di un sentiero, dove a lungo i cinghiali avevano scavato alla ricerca di tuberi e radici, cedette a contatto con il suo piede. Gli sembrò che la terra si fosse aperta e, privo di appiglio, precipitò nel pendio scosceso e coperto di pietre aguzze. Non potendo fermarsi, rotolò sino alla base di quella china, il corpo percosso e ferito in ogni sua parte.
E arrivato sul fondo rimase come una tartaruga rovesciata: il collo storto premuto contro un ramo, una gamba dolorosamente piegata sotto le natiche, una mano sul viso e l’altro braccio premuto dalla schiena, la spalla spinta indietro. Mentre la coscienza fuggiva da lui gli sembrò di vedere il cielo squarciato e da quell’apertura liberarsi una voce di tuono: «La promessa, non dimenticare la tua promessa!»
L’illuminazione si era persa in quella rovinosa caduta, e con essa la ciotola in cui raccoglieva il cibo mendicato. In cambio aveva trovato una nuova certezza nel proposito di raggiungere la meta che si era dato, proposito che il dolore provocato dalle ferite rinnovava costantemente.
L’esperienza dell’illuminazione gli sembrava ora solo un’illusione, mentre interpretava quanto accadutogli come una precisa indicazione. La caducità dell’esistenza, che quella rovinosa caduta gli aveva così chiaramente ricordato, non poteva essere risolta né con sensazioni piacevoli, né attraverso atti e tanto meno tramite comprensione. Solo eliminando colui che percepisce, che comprende, che agisce era possibile porre fine all’impermanenza.
Nel suo pellegrinare alla ricerca di una guida Siddhartha incontrò diversi asceti dediti all’estrema ascesi. Alcuni stavano sempre su letti di chiodi, le carni costantemente tormentate dalle punte aguzze; un altro, sollevato in alto un braccio, non lo abbassava mai così che l’intero arto si atrofizzava divenendo come un legno secco. C’era chi, salito tra i rami di un alto albero, rimaneva lassù vivendo come un uccello, oppure chiudendo le mani a pugno lasciava che le unghie attraversassero implacabilmente i palmi.
C’erano quelli che, giorno e notte, mai si sedevano o stendevano, altri che rifiutavano cibo solido, e ancora chi si sostentava solo con petali di fiori oppure, incrociate le gambe e fermato il respiro, rimaneva immobile come una statua. Un uomo alto e completamente nudo, con una lunga tela di sacco legata al collo, camminava senza mai fermarsi trascinandosi dietro polvere e sporcizia.
Dopo molto girovagare, un giorno Siddhartha raggiunse le rive del fiume Nairanjana, le cui acque sono pure come il sorriso di un bimbo. Nella fitta boscaglia che cresceva sulla sua riva vivevano cinque asceti che, si diceva, in forza delle macerazioni avevano ottenuto il dominio completo dei sensi. Trovando le loro pratiche adeguate, egli si unì a loro.
Digiunò per due mesi, poi per tre. Nello spazio di due respiri ne pose uno solo, e raggiunto un tale risultato aumentò ancora il controllo riducendo ulteriormente il tempo necessario a inspirare ed espirare, così che a guardarlo non si poteva cogliere alcun movimento.
Con la lingua sempre incollata al palato, stava immobile di giorno e di notte, con il sole, la pioggia o il vento. Ogni traccia di carne scomparve dal suo corpo mentre la pelle, scura come cuoio invecchiato, pendeva dalle guance e dalle costole sporgenti. Dal momento che i suoi capelli erano cresciuti selvaggiamente, fittamente mescolati a polvere, foglie e piccoli rami, uccelli colorati facevano il nido sul suo capo e talvolta cobra avidi di uova strisciavano sino a lì guidati dall’istinto e dal desiderio.

Le stagioni si succedevano, anno dopo anno. Ma per Siddhartha, che viveva come sospeso sulla linea di confine tra la vita e la morte, tutto quel tempo non fu diverso da un solo attimo. Avendo ridotto al silenzio il corpo e il vitale, anche la mente era rimasta come sospesa; non avendo più alcuna cognizione di sé, gli sembrava di aver raggiunto il risultato. Ma essendo necessario qualcuno che si accorga per accorgersi di qualcosa, accorgendosi di ciò, comprendeva che nulla era stato raggiunto se non l’accorgersi del non accorgersi. E ritenendo la sua ascesi ancora troppo debole decise di spingersi oltre.
Lasciata la terra che lo aveva sostenuto, si immerse nelle acque del fiume e, coprendo le gambe di pietre per non essere trascinato via, si immerse sino al mento. La fresca corrente avrebbe potuto lavare via i residui che la terra non aveva assorbito e che il sole e il vento non avevano disseccato. Convinto da un tale pensiero, rimase a lungo immerso, finché alghe verdastre iniziarono a crescere nelle pieghe della pelle.
Ma anche questo sacrificio veniva compiuto inutilmente.

Emergendo dalla profonda trance, colse per primo il dolce movimento del remo che, manovrato da braccia esperte, tagliava l’acqua di sbieco e, dopo essere profondamente affondato, compiva un cerchio per ritornare lì da dove era partito, eppure ogni volta in un punto diverso. Poi lo sguardo si aprì ed egli rimase a fissare l’immagine dell’intera imbarcazione.
Flessuosa e arrotondata come il corpo di una ballerina, scivolava silenziosa e leggera sulla superficie del fiume. Incorniciata dalla luce del sole nascente, si stagliava come un dipinto nell’aria cristallina del primo mattino. Poi gli fu tanto vicina da poterla raggiungere con un balzo di tigre.
Un ragazzo dalle mani affilate stava accordando una vina, sotto lo sguardo attento del suo maestro. «Se tiri troppo la corda» spiegava costui all’allievo «si spezzerà, e tenendola troppo lassa non produrrà alcun suono. Evitando entrambi gli eccessi devi trovare il giusto equilibrio, quello che genera armonia».
Ben sapeva Siddhartha come si accorda uno strumento musicale eppure quelle parole, che aveva involontariamente udito in quell’attimo e in quel luogo, ebbero su di lui l’effetto che una potente luce ha per chi, in una stanza buia, cerca a tentoni ciò che più è necessario.
E tutto fu subito chiaro: nello stesso modo in cui è inutile abbandonarsi all’orgia per chi cerca un sollievo alle sue pene, poiché solamente ottiene pene peggiori, così è vano lo sforzo di chi sottopone il corpo a eccessive privazioni. Evitando gli estremi e ricercando sempre l’armonia nel giusto mezzo, il saggio ottiene la liberazione.
Faticosamente si liberò Siddhartha delle pietre che lo tenevano ancorato al letto del fiume, faticosamente sciolse le gambe e si trascinò sulla riva. Pietosamente i raggi del sole riportarono calore in quel corpo macilento, talmente anchilosato che egli non poteva stare né in piedi né sdraiato. Solo quando il pomeriggio volgeva ormai al termine egli poté reggersi sulle gambe. Con passo incerto si inoltrò nella boscaglia.
Ma quelle gambe atrofizzate non ressero a lungo e ben presto ogni forza lo abbandonò: come un sacco privato del suo contenuto, si afflosciò su se stesso e lì rimase.