Haṃsa Libera Scuola di Hatha Yoga

Maurizio Morelli

SIDDHARTHA IL BUDDHA

L’iniziazione al dolore

In quell’ultimo frammento della notte, ogni inganno fu brutalmente svelato.
Ristorato con fresca acqua e dolci profumati, confortato con parole appropriate e dopo ripetuti inviti, il vecchio, che nel frattempo si era ripreso dalla rovinosa caduta, accettò di parlare e raccontò la sua storia. Siddhartha, nel cui animo il disgusto iniziale era stato sostituito da una lacerante curiosità di conoscere, rimase ad ascoltarlo silenzioso e attento.
«C’è stato un tempo, onorato principe, in cui la giovinezza splendeva in me con tutto il suo fulgore, anche se questo può essere difficile da credersi. Regnava su queste terre il padre di tuo padre e il popolo viveva in pace rispettando la legge e le tradizioni degli avi, ognuno comportandosi correttamente secondo la sua condizione e occupazione. Benché di umili origini e costretto sin dall’infanzia a un duro lavoro, la mia vita era serena e nulla di ciò che è necessario mi mancava.
«Avevo un carattere allegro, schiena solida e braccia forti e in ogni luogo ero ben accolto e trattato con generosità. Quando venne il tempo, i miei genitori, gli dei della fortuna li avevano mantenuti vivi entrambi, combinarono il matrimonio con una ragazza della mia casta e così divenni un uomo adulto, avvinto alle responsabilità come un bue sta legato al carro. Ma non avvertivo il peso del giogo, anzi da quell’unione la mia vita trasse una pienezza prima sconosciuta; non esitavo a definirmi in ogni modo soddisfatto e felice.
«La mia sposa era di rara bellezza e virtù e tra noi, oltre a quel rispetto che è doveroso tra coniugi, si sviluppò un sentimento profondo. Ci amavamo intensamente, affetto e gentilezza addobbavano la nostra umile abitazione e mai ci fu tra noi sgarbo o una sola parola ostile. Cinque figli maschi essa generò, uno dopo l’altro come perle su una collana, e come puoi immaginare questo rappresentò per me un gran vanto da cui anche le nostre famiglie di origine traevano beneficio.
Sentivo spesso su di me sguardi di invidia degli altri uomini, anche i Brahmani mi invidiavano, e confesso che questo mi rendeva orgoglioso, mi faceva sentire importante e considerato. In molti pensavano che su di me stesse la benedizione di qualche divinità. Ma ricorda quanto ti dico, tu che sei l’orgoglio dei Sakya: non fidarti degli dei che sono volubili e malevoli e se molto danno è solo per causare maggiore pena quando tolgono.»
La sua voce catarrosa si incrinò per l’emozione mentre ricordò gli avvenimenti successivi.
«Dopo il quinto figlio ne venne un sesto, ma non sopportò il parto trascinando con sé anche la madre. Ingrato è il destino delle donne che, dando la vita, spesso la perdono. Cademmo tutti in un profondo sconforto e per il dolore ci strappavamo le vesti e i capelli, ma se avessimo saputo quel che ci aspettava avremmo risparmiato la pena per il futuro. Ci fu in seguito un anno di siccità e molti anziani morirono, e tra loro i miei genitori.
Quando arrivarono finalmente le piogge, gli insetti distrussero i magri raccolti e le acque rombanti si portarono via due dei miei cinque figli. Eppure conservavo la speranza, ancora pregavo gli dei e cercavo di salvare quanto mi era rimasto. Due anni dopo, o forse tre, mi ammalai gravemente, il mio ventre non teneva più nulla e, non potendo lavorare, il riso per i miei bimbi iniziò a scarseggiare. Si trasformarono in scheletri, e i pidocchi si mangiavano il poco sangue che ancora circolava nelle loro vene. Di cinque che erano ne rimasero due, i più giovani, perché anche il terzo sopravvissuto morì di stenti e di febbre, piangendo e gridando per il dolore e la fame.»

Siddhartha si era maggiormente avvicinato e il suo sguardo era ipnotizzato dal movimento di quella schiumosa caverna che era la bocca del vecchio. Comprendeva solo in parte quanto le sue orecchie udivano, e quanto intendeva suscitava in lui un moltiplicarsi di domande che si sovrapponevano senza riuscire a completarsi. Ma se incompleto era ciò che coglieva delle parole, al contrario l’atmosfera e la tragicità di quel racconto lo avvolgevano fin nel profondo, penetrandogli nel midollo delle ossa. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma la lingua inaridita non voleva saperne di muoversi.

Soffocando un singhiozzo, il vecchio continuò il suo racconto.
«Dovette trascorrere lungo tempo e atroci dolori prima che potessi riprendere a lavorare; sopravvivemmo nutrendoci di erbe e uova di uccelli e grazie alla carità dei vicini che però ci evitavano, credendo fossimo stati maledetti dalla sfortuna. Così alla miseria e alla malattia si sommò l’infamia. Con immensi sforzi, afflitto per la solitudine, inconsolabile per la perdita dei miei cari e soprattutto della mia adorata moglie, riuscii comunque a crescere i due figli rimasti fino a quando furono in grado di badare a se stessi. La loro salute si era però indebolita per le tante privazioni, e uno si ammalò di petto, tossiva tutta la notte sputando sangue e bile e nessuna ragazza del villaggio volle maritarsi con lui. Resistette per cinque anni, asciugandosi da dentro come un fiore reciso. L’altro fu travolto da un carro e ne ebbe le ossa spezzate, se ne andò senza nemmeno riconoscermi e io stesso eressi la pira funebre.
«Privo di mezzi ed evitato da tutti, non mi rimaneva nemmeno il conforto di un abbraccio e così, derelitto e solo, celebrai quell’ultimo rito. Della mia famiglia, che solo pochi anni prima era stata numerosa e felice, da tutti considerata benedetta, non rimanevo che io e desiderai la morte con tutte le mie forze.
«Ma come ti ho detto gli dei sono malvagi e non basta loro arrecarci danno. Siccome godono della nostra sofferenza, quando questa diviene massima fanno il possibile per farla durare. Deciso a farla finita mi gettai nel fiume, lì dove la corrente è più forte, ma le acque mi riportarono a riva. Ero gonfio, violaceo, con le dita spezzate e la carne disegnata da solchi profondi, ma vivo. Mi gettai in un dirupo e i rami degli alberi attutirono la mia caduta e solamente mi si girò un ginocchio e mi si frantumarono i denti. Cercai il morso del serpente e il mio corpo divenne gonfio e nero, sudavo pus e sangue denso colava da ogni orifizio, ma non potei morire. Poi, intimorito dal dolore che mi ero procurato, non ebbi il coraggio di tentare altro. Iniziai a vivere nei cimiteri e vicino alle pire funerarie cercando la morte e nutrendomi dei suoi resti, ma fino a oggi mi ha evitato.
«Ho vissuto forse più a lungo di chiunque altro su questa terra, ho visto e conosciuto molte cose. Un principe come te, cui nulla è mai stato negato, e forse anche il tuo vigoroso servo ancora immerso nella sua giovinezza possono forse pensare che la mia storia sia rara o addirittura unica per la sfortuna e le disgrazie che mi sono accadute, ma sarebbe un errore. Negli innumerevoli anni trascorsi a osservare i riti funebri, e prendendovi spesso parte come aiutante, ho visto che il mio destino è quello di tutti, anche se per ognuno di noi gli dei stabiliscono una forma diversa.
«Ma tutti perdono ciò che amano, i genitori, i figli, la casa e gli averi, la moglie e il marito, la salute e la gioventù. E alla fine tutti perdono la vita. Ho sentito mille storie di dolore, visto il pianto su mille volti. Tutti quelli che conoscevo sono da tempo scomparsi e nessun vantaggio ha arrecato ad alcuno l’essere ricco e potente, nobile o ignobile, buono o cattivo, forte o debole. Ho aiutato a costruire la pira per il tuo glorioso nonno, che tra tutti gli uomini brillava per fama, saggezza e forza, e quella di tua madre la cui bellezza e la cui virtù oscuravano la luna. Ma tutto questo non ha potuto cambiare il loro destino, né il dolore di coloro che li hanno pianti.
«Solo io sono sopravvissuto al mio tempo, al mio dolore e per tutti questi anni mi sono inutilmente chiesto perché questo dovesse accadere proprio a me, che più di ogni altra cosa desidero la morte. Tu sei la mia risposta, ora che sei qui so che presto sarò libero nel silenzio.»
E a Siddhartha, che rimaneva muto e stordito, disse con voce forte e inappellabile: «Vinci la ripugnanza e dammi la tua mano se, come sembra, il tuo desiderio e il tuo destino sono comprendere».
Channa cercò di intervenire ma fu fermato da un gesto imperioso. Siddhartha, che era come posseduto da una forza celeste, avvicinò la sua candida mano a quella sudicia e verrucosa del vecchio, che la strinse con insospettabile vigore.
Sentiva la sua mano stretta e sapeva che, anche se lo avesse voluto, ormai non poteva più liberarsi. Sembrò che la terra sotto di lui fosse scossa da un tremito, poi Siddhartha avvertì il vorticare di un fresco vento, uno scroscio d’acqua, uno scoppiettio di fuoco e come un getto di scintille che andavano a riempire lo spazio circostante illuminando la notte. Preso dal terrore avrebbe voluto fuggire via ma il suo corpo non rispondeva in alcun modo, non poteva neppure battere le ciglia.
Channa non era più vicino a lui e anche il vecchio era sparito, pure i giardini, il parco, gli alberi e la luna. Ma dov’era finita ogni cosa e come aveva potuto accadere?
Non ebbe il tempo di cercare la risposta perché si sentì cadere in uno spazio vuoto, e precipitando il suo corpo prese a sfogliarsi come una cipolla e ogni strato era più luminoso del precedente. Attorno il buio si era fatto totale.
Poi tornò a vedere, a sentire, a sperimentare e iniziò a comprendere. Egli fu un bimbo che gioca felice negli stagni, fu un ragazzino che mena al pascolo le vacche, un uomo che gioisce per la grazia di un altro figlio. Attraversò tutta la vita dell’altro che gli stringeva la mano, le due menti divennero una. Soffrì per i dolori che quello aveva sofferto, per la malattia, le perdite, la fame e la sete, la solitudine, le percosse e il disprezzo. E attraverso di lui soffrì il dolore di quelli che il vecchio aveva conosciuto nella sua lunghissima vita, ogni lutto, ogni patimento, ogni sconforto, pena, paura e privazione, tutto fluì attraverso le vene e i nervi di Siddhartha, si stratificò nelle sue ossa e ne impregnò la carne. Vide mille pire bruciare, anche quella di sua madre, un’immensa catasta ben squadrata, coperta di fiori e intrisa di ghee e aromi profumati, quello era il carro degli dei, ma di lei in cielo non era arrivato altro che fumo.
E vide le foreste e i boschi dove il vecchio ormai sempre viveva, bandito dagli uomini ed evitato dalle bestie, e sperimentò quel poco di pace che egli aveva provato in quei luoghi, e gli rimase nel cuore come l’ultima speranza. Poi tutto si fece confuso, gli sembrò di entrare in una profonda galleria e si dimenticò totalmente di sé.

Channa, che pur spaventato e preda del disgusto non si era distratto un solo istante, aveva visto la mano del suo principe come inghiottita da quella più grande e deforme del vecchio, come una rosa gettata in una latrina. Poi entrambi si erano irrigiditi inarcandosi indietro con la testa rovesciata, rimanendo come sospesi per lunghi minuti, l’uno sostenuto dal peso dell’altro.
E infine erano iniziati gli spasmi che sembravano dilaniarli e scuoterli fino nel profondo, come accade talvolta nell’agonia di chi sia stato morso da certi ragni o serpenti velenosi, ed erano continuati fin quasi ai primi chiarori dell’alba. D’improvviso, come colpiti da una forza sovrumana, l’uno abbandonò l’altro ed entrambi precipitarono miseramente indietro, sbattendo duramente al suolo.