Haṃsa Libera Scuola di Hatha Yoga

Maurizio Morelli

SIDDHARTHA IL BUDDHA

Sujata

Inciampando in quel mucchio di ossa scomposte, Sujata lanciò un grido acuto che mise in fuga uno stormo di uccelli variopinti. Ma ancor più forte urlò quando, rialzatasi, vide seminascosto tra la fitta sterpaglia colui in cui era inciampata. Non poteva capire se si trattasse di un animale, di un uomo o di un demone uscito dall’inferno.
Ma siccome quello non si muoveva, dopo averlo stuzzicato con un lungo bastone per saggiarne la reazione, essa si avvicinò e, rassicurata, lo pose ben disteso raddrizzandogli le gambe e le braccia. Scostando la massa di capelli incolti dal viso affilato, riconobbe
in lui l’asceta che da anni viveva vicino alle rive del fiume, e il cui ardore nel praticare le penitenze non aveva uguali. Allora, avendo fatto una tale scoperta ed essendo il suo vigore pari alla magrezza dell’altro, lo trascinò al riparo tra le mura cadenti del tempio e con grande cura gli somministrò qualche goccia di latte, poi ancora un poco, finché quello, ripresa per un attimo conoscenza, non riuscì a ingollarne un intero sorso.

Bella più della stella del mattino e nonostante gli sforzi di suo padre, che non difettava né di casta né di sostanze, a diciotto anni Sujata ancora non aveva trovato un marito.
C’era qualcosa in lei che intimoriva e inquietava, un che di inafferrabile che fin da bambina l’aveva resa diversa dalle sue coetanee. Da lei fluiva una specie di magia e ogni gesto, per quanto banale e quotidiano, era da lei compiuto con tale intensità e passione che un uomo non poteva guardarla senza arrossire ed essere costretto a voltare lo sguardo. Così erano nate delle dicerie, a cui si erano attaccate menzogne, sulle quali erano fiorite malignità. A peggiorare questa situazione contribuiva anche il carattere di lei, fiero e combattivo, al punto che dinanzi a nessuno abbassava gli occhi, dando così sostegno a chi la tacciava di essere sfacciata e impudica.
Ma contrariamente a suo padre, che si crucciava e disperava, a lei poco importava che nessun pretendente si facesse avanti. Nessuno tra gli uomini che aveva conosciuto le aveva fatto battere più forte il cuore, e di certo non avrebbe accettato un’unione basata solo sulle convenienze. Nonostante questo, ogni mattina all’alba, e ogni sera al tramonto, portava offerte al dio Kama, la cui statua sbrecciata adornava una piccola sala in un tempio dimenticato nella foresta, dove ormai si riunivano solo cobra e scorpioni. Così gli aveva ordinato un saggio Samana da cui il padre in pena l’aveva portata per una benedizione e un consiglio.
«In quel tempio, che gli uomini nella loro stoltezza hanno abbandonato, c’è una forma del dio dotata di grande potere. Recandogli onore, offrendogli ogni giorno acqua, fiori e cibo e accudendola come vuole la consuetudine, tu guadagnerai un grande merito ed egli soddisferà i tuoi desideri» le aveva detto l’anziano asceta. E così ella faceva regolarmente, felice di potersi allontanare dal villaggio con la benedizione del padre, felice di adornare il Deva a cui lei però, anziché un marito, chiedeva semplicemente un grande e assoluto amore. Due volte al giorno, dopo aver adempiuto alla Puja in quel luogo
remoto, dedicava un po’ di tempo a spostare le macerie, liberare gli angoli dalle foglie morte, sistemare una pietra nel muro da cui si era staccata. Bruciando incenso, spingeva serpenti e insetti a cercarsi un’altra residenza.

La presenza del moribondo all’interno del tempio non cambiò le sue abitudini, ma la spinse a dare una differente direzione al suo agire. Trascurando la statua, ella si dedicava a Siddhartha, cercando di fargli prendere ogni volta un po’ di cibo, ogni volta un boccone in più. Preparava lei stessa quelle vivande, che cucinava in modo da renderle assimilabili e adatte anche a uno stomaco così a lungo disabituato ad adempiere alle sue funzioni. E grazie alla sua dedizione, il moribondo divenne convalescente, e poi riacquistò tutto il suo vigore.
Prima lo nutrì con latte bollito e radici di zenzero, poi nel latte fece cuocere un po’ di riso, aggiungendo con il tempo qualche grano di sesamo, ghee, spezie, tuberi e radici. Talvolta gli faceva assumere anche qualche spicchio di mandarino, un morso di mango o di melone, e molta acqua in cui spremeva limone.
Portando una volta un telo, un’altra della paglia, un cuscino, una rete per gli insetti, gli preparò un giaciglio dove potesse riposare comodo e sicuro. Ogni giorno lo massaggiava con oli profumati, in modo che quella pelle macerata, mentre si andava riempiendo dall’interno, recuperasse dall’esterno splendore ed elasticità.
Per parecchi giorni Siddhartha accettò quelle cure nell’incoscienza, e nei brevi sprazzi di febbricitante lucidità, non rendendosi conto né del luogo in cui si trovava né dell’identità della sua salvatrice; talvolta la scambiava per una delle sue madri, quella morta o quella acquisita, altre volte la chiamava Yasodhara o con il nome di qualche ancella, ballerina o concubina da lui conosciuta quando era ancora un principe e viveva nel regno di suo padre Suddhodana. Così, prima che la febbre svanisse e senza che potesse rendersene conto, quella ragazza fu per lui ogni donna che aveva conosciuto, e tutte quante insieme.
Infine recuperò la piena coscienza e quella vicinanza e quel contatto gli crearono all’inizio un grande imbarazzo. In quanto monaco e rinunciante egli apparteneva a un mondo in cui le donne non erano ammesse, al punto che anche un semplice contatto veniva considerato causa di impurità. Neppure con il pensiero è concesso a un monaco di avvicinarsi a una donna, su questo tutte le scuole e tutti i maestri erano concordi; addirittura, incrociandone per la via, egli stesso si era abituato ad abbassare il capo.
Tuttavia il calore di quella vicinanza spazzò via ogni remora e ben presto egli si scoprì intento a pensare a Sujata; talvolta ne coglieva la presenza anche quando lei era assente, come se l’effluvio della sua aura permanesse accanto a lui.
E mentre il suo corpo riprendeva velocemente vigore, l’intensità di quel legame così misteriosamente sbocciato cresceva sempre più incontrollata. Di notte rimaneva sveglio aspettando l’alba, e sentendo i passi di lei avvicinarsi veniva colto da un tremore intenso, come fosse immensamente felice e al tempo stesso spaventato. Durante il giorno si sforzava di dormire, così che le giornate sembrassero più corte e l’attesa del tramonto meno penosa.
Solo quando lei era presente, vicino a lui, si sentiva veramente completo e felice, ma al tempo stesso confuso e incapace di ragionare. Era esageratamente allegro, rideva per ogni inezia e non poteva smettere di parlare, come se la sua lingua volesse recuperare l’inattività in cui era rimasta in quei lunghi anni di penitenza. Come l’ombra segue il corpo, così il suo sguardo mai la lasciava. Notava di lei ogni minimo particolare, registrava ogni gesto e lo riponeva nel suo cuore come un oggetto prezioso, con tale insistenza che talvolta lei, schernendosi, si copriva con il velo per nascondere il rossore che le saliva alle guance.

Pur avendo condiviso la sua vita con molte donne, mai Siddhartha aveva conosciuto un simile sentimento, dotato di una tale intensità da rendere opaco persino il Samadhi. Credeva di avere amato sua moglie Yasodhara e molte delle concubine e cortigiane che affollavano i palazzi della sua giovinezza, ognuna nel modo e nella forma confacente al ruolo che le era assegnato.
Come ogni cosa che stava in quei lussuosi palazzi, anche sua moglie e quelle donne che tante delizie sapevano somministrare altro non erano che oggetti che qualcuno, suo padre, aveva scelto per lui, non molto diverse da mobili, arazzi, intarsi delle finestre, cavalli o fiori nelle aiuole. Non aveva mai corteggiato una donna, Siddhartha. Prendeva ciò che voleva, seguendo l’impulso del momento, attratto da un gesto, una piega del fianco, uno sguardo, e subito passava all’impulso successivo, senza preoccuparsi di altro se non di se stesso.
Come gli sembrava vile quel comportamento, ora che il suo cuore palpitava ed egli non sapeva pensare ad altro che al suo amore. Sujata, Sujata, Sujata, quando lei era assente gli capitava spesso di ripetere il suo nome come un Mantra, e chiamandola la sentiva vicina anche nella lontananza.
Ma che cosa provava Sujata per lui? Ora questo era importante, questo era il dubbio in cui si dibatteva. Non bastavano la sua volontà, il suo desiderio; neppure quell’amore che sentiva crescere dentro con tanto impeto era sufficiente. Era necessario che tutto questo fosse condiviso ed egli, nonostante il suo acume, la sua logica e tutto il potere della sua mente così splendidamente addestrata, non sapeva leggere il cuore della ragazza. E quanto più si sforzava di trovare una certezza tanto più si confondeva.
Come quando era preda della febbre, ricominciò a vedere in lei il volto di altre e così, spinto sui sentieri dei ricordi, prese coscienza del suo passato illuminandolo con la luce del suo presente, in cui l’amore regnava sovrano.
Un ladro, null’altro che un ladro, così egli giudicava se stesso. Nascendo aveva rubato la vita alla madre Mayadevi, ai fratellastri aveva rubato l’affetto di Prajapati, che pur essendo la loro madre li aveva trascurati per dedicarsi a lui e adempiere alla promessa fatta in punto di morte alla sorella; a Yasodhara poi aveva sottratto l’intera vita, lasciandola sola come una vedova, ma privandola anche della possibilità di gettarsi sulla pira funebre. E tutte le altre, le danzatrici, le cortigiane… Tra le loro braccia aveva sperimentato l’estasi, loro avevano aperto il suo corpo e la sua mente, ma da lui che cosa avevano ricevuto in cambio? Nulla, neppure ricordava i loro volti o i loro nomi e nella sua mente l’una si confondeva con l’altra, come foglie cadute in una giornata ventosa. Anche a loro aveva rubato tutto, la libertà, la dignità e il diritto di essere amate sinceramente,
nello stesso modo in cui lui ora amava Sujata. Oggetti erano state per lui, null’altro che oggetti. Come aveva potuto, lui che si commuoveva per la sorte di un lombrico, essere così arido e spietato?
Sperimentando tali pensieri egli provava una grande vergogna e si sentiva indegno di Sujata, della sua giovinezza, della sua purezza, della sua sincerità, indegno persino di provare ciò che stava provando per lei. Allora decideva di lasciarla, di fuggire come era fuggito dalla casa paterna, mescolandosi silenziosamente alla notte ma, appena compiuto un passo per allontanarsi, subito procedeva in senso opposto, perché non poteva vivere senza di lei. Poi rivedendola ogni esitazione si dissolveva, ed egli si perdeva nella luce dei suoi occhi e del suo sorriso.