Haṃsa Libera Scuola di Hatha Yoga

Maurizio Morelli

SIDDHARTHA IL BUDDHA

Siddhartha Gautama: un’interpretazione

C’era una volta…

La maggior parte delle fonti attesta la nascita del principe Siddhartha intorno al 563 a.C., anche se non ci sono certezze e qualcuno ipotizza che in realtà egli sia nato ben cento anni più tardi.
Come voleva la tradizione, al nuovo nato viene dato un nome proprio, Siddhartha (‘colui che ha raggiunto lo scopo’), e trasmesso il patronimico Gautama, indicante la linea di discendenza paterna.
Suo padre Suddhodana, del clan dei Sakya, governa un piccolo ma fiorente feudo in un’area sull’attuale confine tra India e Nepal, circa 200 km a nord di Benares, oggi Varanasi. Appartiene alla casta dei guerrieri (Kshatriya) e nelle fonti gli viene attribuito l’appellativo di re, nonostante sia stato semplicemente un feudatario e un capo guerriero.
Ha per mogli due sorelle, figlie di uno dei suoi zii, di nome Maya o Mayadevi e Prajapati. Dopo due decenni di matrimonio né l’una né l’altra hanno ancora concepito un figlio. Possiamo solo immaginare quanto sconforto e frustrazione questa sterilità abbia provocato in Suddhodana, nelle sue rispettabili consorti e in tutto il clan.

Un figlio desiderato e ‘necessario’

Nella società indiana di quei tempi (e anche ai giorni nostri) la mancata nascita di figli, in particolare maschi, era considerata la peggiore delle disgrazie, ancora maggiore se la famiglia apparteneva a caste elevate. Le implicazioni correlate erano molteplici, di ordine ultraterreno oltre che materiali: da un lato comportava l’estinzione del nome della famiglia per l’assenza di eredi cui trasmettere il potere e i beni accumulati da generazioni; dall’altro, prevedendo la religione hindu la presenza di un figlio maschio come officiante alle esequie, un defunto senza prole non poteva nemmeno avere accesso al paradiso.
Per una persona come Suddhodana la questione aveva anche risvolti politici. I suoi sudditi sapevano che, senza un erede, il regno sarebbe stato smembrato e diviso tra i vari signori della guerra che controllavano le aree limitrofe, e questo indeboliva la sua posizione.
La gravidanza della regina risolveva tutti questi problemi e perciò fu accolta con immensa gioia. Ancora prima di nascere e di avere un nome, Siddhartha era già considerato un salvatore, e in quanto tale, ostaggio di coloro che si aspettavano di essere salvati.
La regina prende coscienza dell’avvenuto concepimento attraverso un bellissimo sogno e subito Suddhodana convoca i Brahmani per una sicura interpretazione. Agendo in tal modo, risponde a due precise esigenze: quella personale di avere una certezza circa la natura dell’evento tanto desiderato, e quella politica, ossia di rendere noto il concepimento e riconfermare così la saldezza del suo potere e del suo regno.

Il parto

La gravidanza prosegue serena e il momento del parto si avvicina. Mayadevi si prepara a partire per raggiungere la famiglia d’origine.
La tradizione vuole che al momento del matrimonio la novella sposa lasci per sempre la sua famiglia e, simbolicamente rapita dal corteo nuziale, entri a tutti gli effetti in quella del marito. Tale separazione, che a quei tempi era molto netta (anche per le difficoltà negli spostamenti), era interrotta in caso di gravidanza. Si riteneva conveniente, almeno per le nobili, che durante il parto la futura madre fosse assistita dalle donne della famiglia d’origine, per motivi di ordine psicologico ma anche per proteggere i nascituri, essendo le congiure di palazzo un fatto quotidiano.
Così Maya, con grande seguito e la benedizione del consorte, si mette in marcia per ritornare dai suoi. Il viaggio non è lunghissimo, ma si procede lentamente e il clima è torrido. Così la carovana fa sosta a Lumbini, in un grande parco che offre ombra e spazi adeguati. Sopraggiungono improvvise le doglie e il bimbo nasce sull’erba sotto un albero di sal.
Sono state scritte infinite storie su questa nascita: alcuni raccontano che gli alberi si sono chinati verso la regina per fornirle appiglio e ombra, altri che milioni di dei si sono manifestati con tanto di orchestre angeliche, piogge di fiori e altri eventi miracolosi.
Ma la scena è già di per sé perfetta: una donna che partorisce sostenendosi al ramo di un albero secolare, un bimbo che viene posato sull’erba tenera, l’aria limpida, gli scoiattoli curiosi che ammiccano, il canto degli uccelli, il profumo e il colore di mille fiori. C’è in questa immagine una bellezza assoluta; potremmo aggiungerci un alito di fresca brezza che probabilmente era assente, ma nulla di più.

In simbiosi con la natura

Così il piccolo principe, anziché tra oro e seta, sceglie di nascere nello splendore della natura; questa pare quasi un’anticipazione e una premessa di quella che sarà la vocazione della sua vita: vivere nella foresta, in simbiosi con la terra, il cielo, gli elementi, gli animali, le piante e soprattutto gli alberi che segnano con la loro presenza ognuno dei momenti assoluti della sua vita.
Gli alberi di Sal, che in quella regione signoreggiano i boschi, sono compagni di Siddhartha al momento sia della nascita sia della morte. Riceve la prima illuminazione, ancora bambino, all’ombra di un Jamboo e quella definitiva seduto alla base di un Pipal.

Le profezie

Dopo l’avvento di Siddhartha, maschio, sano, forte e anche bello, l’intero reame viene colto da una felice frenesia.
Suddhodana dà il meglio di sé: libera i prigionieri, elargisce donazioni, decreta feste e sgravi fiscali. Tutti devono condividere la sua felicità. Sette giorni dopo, in occasione della festa per l’attribuzione del nome, convoca un gran numero di Brahmani.
C’era in corso, in quel periodo, un grande scontro di poteri determinato in special modo dal sorgere di città relativamente popolate, e con esse di nuove professioni che non erano
contemplate nell’originaria divisione della società in caste. Da un lato i Brahmani, che stavano perdendo terreno e cercavano faticosamente di adeguarsi ai cambiamenti in atto, dall’altro la casta dei Kshatriya (guerrieri), cui apparteneva lo stesso Suddhodana, spalleggiati dalle categorie emergenti, commercianti e artigiani. Alcuni di costoro, pur appartenendo a caste basse, erano arrivati a detenere enormi patrimoni e non erano più disposti a essere tenuti in disparte per mere questioni di nascita.

I Brahmani e i Samana

Lo scontro tra caste si estendeva alla questione della relazione con il sacro, di cui i Brahmani si consideravano gli unici intermediari; ciò aveva portato alla nascita di un movimento di contestazione assai eterogeneo, che si muoveva e cresceva al di fuori della prassi religiosa ufficiale. Privo di omogeneità e di un riferimento univoco, i suoi appartenenti avevano in comune solo il rifiuto del rito sacrificale, come metodologia valida per avvicinarsi a Dio, e la ricerca di metodi diretti e personali per raggiungere tale obiettivo. Era il popolo dei monaci erranti, dei Samana e dei Sadhu, gente di tutte le caste che aveva per modello un Guru e praticava la ricerca spirituale in solitudine o in piccoli gruppi. Un maestro di grande successo poteva raccogliere anche centinaia di discepoli, ma nella stragrande maggioranza dei casi si trattava di gruppi esigui, di tre, cinque o sette unità, e molti preferivano la solitudine.
Tra loro si poteva trovare di tutto, dal santo al semplice vagabondo, dal fachiro al mago e anche molti colti Brahmani che, desiderosi di una maggiore autenticità nella pratica religiosa, sceglievano l’ascesi e una vita in cui il rapporto con il Divino non fosse inquinato da fattori economici e politici.
Rapidamente costoro conquistarono il favore della popolazione e, non rappresentando una minaccia per l’ordine costituito, anche di molti tra i potenti, specie quelli che per qualche motivo erano in attrito con il potere religioso ufficiale rappresentato dalla casta dei Brahmani.
Per Siddhartha divennero presto una sorta di mito, un riferimento e un modello. In essi riconosceva molti valori che mancavano nella sua vita: la libertà, una spiritualità autentica
e non condizionata da convenzioni sociali e la possibilità di una soluzione al male di esistere, di cui sembra essere stato preda in molti periodi della sua vita.
Tornando alla cerimonia della nascita, Suddhodana invita i più eminenti brahmani con un molteplice scopo. Da un lato egli è affascinato e intimorito dal loro potere, in cui ha suo
malgrado una certa fede, ed è ansioso di conoscere il responso degli oroscopi. Dall’altro li costringe, blandendoli con ricchi doni, a celebrare assieme a lui la sua autorità, riconfermata dalla nascita del figlio maschio.
Prima di andare avanti, dobbiamo capire meglio chi sono i brahmani della nostra storia e su quali basi si fonda il loro potere. Immaginando la società come un corpo, di questo corpo essi sono la testa, e in quanto tale rappresentano la prima tra le caste. Si considerano superiori a tutti gli altri e sono depositari di una cultura antica che custodiscono gelosamente. Solo loro conoscono i complessi riti capaci di suscitare il favore degli dei, e questo è il fulcro centrale della loro autorità. Ma sono anche gli unici in grado di leggere e scrivere, e questo permette loro di approfondire le più diverse scienze. Sono versati nella medicina, nell’astronomia, nella filosofia, nella gestione contabile, conoscono a menadito i libri sacri, sono in grado di interpretare le stranezze del clima non meno dei sogni e sono impareggiabili astrologi. Quando questo non sia sufficiente, ricorrono alla magia: possono scagliare terribili maledizioni su chiunque li minacci o li offenda, oppure toglierle.
Inoltre rispettano regole igieniche rigorosissime, che permettono loro di essere più sani e longevi della maggior parte della popolazione. In sintesi, hanno tutti gli strumenti necessari per suscitare ammirazione o paura, a seconda delle necessità. In tal modo possiedono le chiavi del potere.
Su invito di Suddhodana, i Brahmani frugano nei segreti degli astri per conoscere in anticipo quale futuro attenda il piccolo Siddhartha. Non sappiamo quali doni siano stati loro promessi, ma di certo si fanno prendere un poco la mano: non solo profetizzano per il nuovo nato un fulgido futuro come successore del potere paterno, ma affermano che egli governerà con saggezza il mondo intero. Aggiungono però che le cose potrebbero anche andare diversamente: Siddhartha potrebbe andarsene nella foresta e divenire un asceta, ma il padre non ha motivo di preoccuparsi; anche in questo caso, diverrebbe famoso e con lui il nome dei Sakya.
Suddhodana non sembra inquietarsi per questo possibile sviluppo della situazione. La tradizione prevede che i più saggi tra i re, una volta compiuto il loro dovere di governanti, dedichino l’ultima parte della loro vita all’ascesi, avendo così modo di purificarsi ed espiare i peccati inevitabilmente commessi nell’esercizio del potere. Se suo figlio vorrà fare una tale scelta lui non avrà nulla da obiettare, anzi, ne verrà altra gloria e su un piano più elevato.

L’eremita Asita

Congedati i Brahmani, che se ne vanno coperti di doni, ecco arrivare Asita, il saggio eremita. Costui è un asceta attirato al palazzo di Suddhodana da un’intensa e mistica luce, come i Magi dalla stella cometa.
Asita è dotato di poteri occulti, ha il dono dell’intuizione spirituale e non ha bisogno di consultare astri o fare calcoli, a lui basta guardare. Vedendo il piccolo non ha dubbi: si tratta di un predestinato, di colui che sconfiggerà nascita e morte. Non usa mezze parole: dice a Suddhodana che suo figlio abbandonerà il palazzo per la foresta e diverrà il più grande tra coloro che ricercano la verità, e che la sua fama brillerà imperitura.
Suddhodana rimane molto colpito dalla promessa di tanta fama per il nome della stirpe, e non chiede maggiori dettagli. In cuor suo è convinto che l’entrata nella vita ascetica avverrà per Siddhartha in età avanzata, dopo aver portato a termine tutti gli impegni terreni. La questione sembra risolta.

La morte della madre

Pochi giorni dopo la cerimonia del nome si scatena il dramma. Mayadevi muore, forse in seguito alle fatiche del parto. In punto di morte raccomanda il figlio alla sorella Prajapati, le chiede solenne giuramento e lo ottiene.
Così il piccolo principe rimane orfano e viene allevato dalla zia, che è anche la seconda moglie di suo padre. In molti testi si legge che egli venne curato amorevolmente. Prajapati, pur essendo rimasta a sua volta incinta per ben due volte, trascura i suoi stessi figli per dedicarsi a Siddhartha. Forse lo cura ‘troppo amorevolmente’. Ci sono molti fattori da considerare: una promessa solenne fatta a una sorella che sta morendo è di per sé qualcosa di estremamente serio e importante; a questo possiamo aggiungere il senso di colpa per essere sopravvissuta, il desiderio di compiacere il marito e forse una disposizione naturale del carattere. Sta di fatto che soffoca il figliastro di attenzioni, probabilmente gli parla della madre morta per averlo messo al mondo e attiva in lui un terrore reverenziale per la nascita, causa di questa disgrazia. Attraverso Prajapati, Siddhartha fa esperienza del primo eccesso della sua vita; ne seguiranno molti altri, subiti e provocati.

Una vita da principe

Crescendo diviene sempre più bello, è sano e sembra anche forte, sicuramente molto intelligente ma pure estremamente sensibile. Non sopporta di vedere animali maltrattati, litiga con il cugino Devadatta per salvare un cigno che quello ha ferito nella caccia, si commuove anche per la sorte dei lombrichi e sicuramente prova orrore per i sacrifici rituali. Compiange anche i contadini costretti al duro lavoro dei campi.
Un tale atteggiamento suscita la nostra spontanea simpatia, ma per suo padre e il suo entourage deve essere stato un brutto colpo, perché non è questo che ci si aspetta da un principe guerriero, che avrebbe dovuto essere sempre pronto a sgozzare i nemici e, in caso di necessità, anche gli amici.
Viene addestrato nelle arti marziali, e sembra che se la cavasse bene, ma non risulta abbia mai partecipato a un vero scontro né a una partita di caccia. È un ragazzino ipersensibile e introverso, spesso perso nella contemplazione di fiori e alberi, con una certa tendenza a raggiungere facilmente stati estatici; dimostra maggior socievolezza con gli animali che verso i suoi simili.
Sulla base di queste premesse, i pronostici degli astrologi e di Asita acquistano un significato differente, e Suddhodana comincia a preoccuparsi, la preoccupazione si trasforma in ansia, l’ansia in ossessione. Anche lui ha una tendenza patologica all’eccesso.
Da uomo pratico cerca di stabilire quali siano i fattori che possono favorire la vocazione del figlio per la vita ascetica e quali invece inibirla; arriva alla conclusione che sia necessario distrarlo con ogni sorta di piacere e mantenerlo in un ambiente protetto, in cui non possa entrare in contatto con elementi perturbanti.
Gli trova una moglie nell’ambito del clan, Yasodhara che di Siddhartha è cugina. Stabilisce che i coniugi debbano vivere in tre palazzi opportunamente recintati, e che in tali luoghi si tengano di continuo feste, danze e tornei. La moglie serve per la progenie, mentre per distrarre il figlio sceglie le cortigiane più avvenenti e abili nell’arte dell’amore.
Il trucco funziona e Siddhartha si tuffa nel vortice di piaceri.

La fuga

Dopo alcuni anni, gli eccessi generano repulsione istintiva.
Esaurendosi la prima giovinezza, è probabile che Siddhartha avverta un disgusto per quella vita. Ma non risulta ci siano stati episodi di ribellione o contestazione verso l’autorità paterna.
Il dissenso manifesto sembra concentrarsi nell’ultimo periodo della sua permanenza a palazzo. Si può ipotizzare un fatto traumatico, ma più probabilmente la causa scatenante furono le insistenze del vecchio re per avere un nipote. Dopo più di dieci anni di matrimonio, Yasodhara ancora non era rimasta incinta: in questa mancanza di prole Suddhodana vede un ripetersi del suo incubo e fa pressioni sul figlio. Siddhartha obbedisce come sempre, ma il fatto di diventare padre lo fa sprofondare nelle angosce infantili: questa volta nulla sembra avere più il potere di distrarlo dalle sue cupe visioni.
Comincia a riconsiderare la sua vita e a prendere coscienza di quella altrui. Ovunque vede disfacimento, morte, malattia, dolore e causa di tutto questo è la nascita. Si rende conto di quanto la gente sia infelice, di come i suoi stessi amici siano miserabili viziosi e inutili. Probabilmente ha contatti con alcuni religiosi, forse Samana erranti, e rimane incantato dalla loro serenità e dalla libertà che alberga nei loro spiriti.
La sua vocazione per la foresta prende forza e il giorno stesso della nascita di suo figlio fugge silenziosamente dal palazzo, senza salutare nessuno. La modalità del suo allontanamento implica le seguenti condizioni:

● La presa di coscienza del suo status di prigioniero, per cui non si allontana ma fugge protetto dal buio. C’è un perdurare della sudditanza verso il padre, di cui teme l’autorità e le reazioni.
● La consapevolezza di non avere alcun vero amico, di non potersi fidare neppure della moglie. Questo ci può dare un’idea di quanto egli si sia sentito solo in tutti quegli anni.

Nel racconto della sua silenziosa fuga c’è una stranezza, quasi un vezzo: si fa accompagnare da un paggio. Ma questo può essere spiegato con la necessità di avere qualcuno in grado di indicargli la strada e forse di evitare di abbandonare a se stesso Kanthaka, il cavallo a cui è molto affezionato e di cui si serve per lasciare rapidamente il regno. Raggiunto il confine si libera di ogni ornamento e segno distintivo, e inizia la sua ricerca interiore a cui si dedicherà quasi con furore, fallendo ripetutamente per eccesso di zelo.

I maestri

Secondo alcune fonti, sembra che sin dall’inizio egli avesse chiaro lo scopo, ossia trovare una soluzione definitiva al problema della rinascita, ma è più probabile che un simile obiettivo si sia definito nel tempo, sperimentando come fallaci e limitate le alternative offerte dai maestri che incontra sul suo cammino.
Il primo tra questi è Bhagava, un errante puro che vive in completa simbiosi con la foresta. Da lui Siddhartha riceve preziose lezioni di ordine pratico, impara a vivere in quell’ambiente che inizialmente doveva risultargli alieno. Probabilmente viene anche iniziato a semplici pratiche di culto e alla magia.
Dimostra subito di avere doti eccezionali e stupisce il maestro, come pure quelli che incontra in seguito, Arada e Udraka, che al contrario di Bhagava sono colti e assai versati nella filosofia trascendentale.

Gli anni delle macerazioni

Nessuno di loro sembra però in grado di condurlo là dove vuole giungere, egli è insoddisfatto degli insegnamenti ricevuti e decide di dedicarsi alla mortificazione estrema. Ormai le caratteristiche della sua ricerca sono perfettamente delineate, egli non ambisce né al paradiso né al potere, ciò che cerca è l’estinzione definitiva. Si unisce a cinque rinuncianti dediti al più rigoroso ascetismo e arriva a stupirli per le privazioni a cui si sottopone. Ancora una volta si impegna in modo eccessivo, per cinque anni si dedica alle più orribili macerazioni, superiori a quelle di qualsiasi altro, e arriva quasi a distruggere il suo corpo, non meno della mente.
Finalmente, compresa l’inutilità di quel furore autolesionista, sospende quelle pratiche e si allontana dai suoi compagni, che immediatamente trasformano l’ammirazione in disprezzo. Cerca di rientrare nella foresta, il suo rifugio di elezione, ma le gambe ormai non lo sostengono più ed egli crolla tra la sterpaglia come fosse morto. È questo il momento in cui nella sua vita entra una donna, Sujata.

Sujata: l’esperienza dell’amore spirituale

Circa l’identità di costei si conosce ben poco, secondo alcuni era una ragazzina di tredici anni, figlia del capo villaggio, mandata dalla madre nel bosco a portare offerte agli dei, altri ipotizzano fosse la moglie del capo villaggio.
È difficilmente credibile che, in un Paese e in una cultura in cui la virtù femminile è custodita con la segregazione, una madre mandi la figlia tredicenne nella boscaglia, non una volta ma ripetutamente, esponendola al rischio di incontrare malintenzionati ed essere vittima di belve feroci. Inoltre è escluso che qualche sorso di latte e un po’ di riso siano stati sufficienti a risollevare Siddhartha dallo stato di profonda debilitazione in cui si trovava; secondo numerose descrizioni era così magro che le sue natiche somigliavano a unghie di bufalo e i capelli, solo a sfiorarli, cadevano a ciocche.
Egli ha necessariamente ricevuto cure prolungate e somministrate da una persona esperta. Sujata doveva essere una donna adulta e doveva avere un buon motivo per recarsi nella foresta da sola, essendo anche dotata della capacità di orientarsi e all’occorrenza difendersi. Si può ipotizzare che fosse una guaritrice, e che si recasse nel bosco alla ricerca di erbe.
Sia come sia, tra lei e Siddhartha ci fu un rapporto prolungato. Sujata si prende cura del moribondo, lo nutre adeguatamente, gli offre protezione, ne segue la convalescenza fino al completo recupero delle forze. Il Siddhartha che si siede sotto l’albero di pipal è un uomo che ha recuperato per intero le sue facoltà fisiche e mentali, e questo deve avere richiesto diversi mesi.
Completamente differente dalle donne che aveva conosciuto fino ad allora, Sujata offre al futuro Buddha l’opportunità di entrare positivamente in contatto con un aspetto ancora oscuro, doloroso e probabilmente conflittuale di se stesso: il rapporto con l’altro sesso.
Per educazione e per cultura egli è abituato a considerare le donne esseri inferiori, non ha mai conosciuto la madre, la zia-matrigna-lo ha soffocato di attenzioni, la moglie è stata scelta dal padre e sembra essere stata completamente inserita nell’ambiente di corte che egli sente nemico, al punto che andandosene neppure la saluta. Le altre erano pagate per le loro attenzioni, e a causa di ciò la relazione con loro era viziata in origine.
Sujata gli fa da madre, infermiera, nutrice, è una donna determinata e sufficientemente libera; la sente amica e tra loro nasce un rapporto molto profondo, un amore spirituale.
In forza di questo rapporto ciò che era parziale si completa; egli recupera coscienza e accettazione del proprio femminile e quindi anche padronanza di quella eccezionale sensibilità di cui è dotato. Da questo momento in avanti non ci saranno altri eccessi, nessun parossismo, nessuna proiezione intellettuale, ogni agire ritrova un ritmo pacato e spontaneo, il giusto mezzo: Siddhartha è pronto per l’illuminazione.

Svasti e la culla dell’illuminazione

Ormai ristabilito passeggia per la foresta, vaga qua e là senza una particolare meta, si gode il paesaggio e così fa un altro incontro determinante, con Svasti, il guardiano di bufali. Svasti è un ragazzino e appartiene al livello sociale più infimo. È un intoccabile e in quanto tale considerato impuro: se un Brahmano fosse entrato in contatto anche solamente con la sua ombra avrebbe poi dovuto compiere complesse abluzioni e riti per recuperare il suo status. Come se non bastasse, è anche orfano e deve prendersi cura dei tre fratellini più piccoli.
Siddhartha prova per lui una simpatia istintiva, ed è ricambiato. L’amicizia tra questi due personaggi simboleggia il superamento di ogni differenza di casta, età, cultura, esperienza, e la bellezza dell’incontro tra due esseri umani che interagiscono liberi da qualsiasi pregiudizio, aperti e pronti a dare non meno che a ricevere.
Svasti è rigenerato dalla vicinanza del principe che è anche un santo; grazie a questo l’idea di essere impuro e indegno, che ha assorbito dall’ambiente in cui è vissuto, si dissolve ed egli ritrova la piena dignità della sua esistenza. Siddhartha rimane affascinato dai sentimenti di questo ragazzino che, pur così svantaggiato, ha saputo mantenere la sua integrità e la mente sgombra da qualsiasi forma di risentimento, e che anzi è solerte
e compassionevole.
In particolare, Siddhartha, che per antonomasia è l’amico degli animali, ammira l’affetto e la dedizione con cui Svasti cura i bufali che gli sono affidati, e che tratta al pari di fratelli. Gli chiede delucidazioni. Le parole di Svasti rimarranno impresse nella sua anima al punto che ancora dopo molti anni, divenuto maestro di verità, egli le ripete esattamente nel modo in cui le ha sentite, considerandole un prezioso insegnamento e metafora di comportamento retto.
Attraverso il contatto con Svasti, Siddhartha ritrova la sua purezza infantile, distorta e alienata dalle pressioni e proiezioni dell’ambiente familiare. Ma il contributo di questo piccolo mandriano alla realizzazione del migliore tra i maestri non si ferma qui. Pur essendo assolutamente povero, egli prova il desiderio di fare un dono al suo nuovo amico, che gli ha suscitato un affetto e un’ammirazione sconfinati. Se avesse posseduto oro o diamanti li avrebbe donati, ma non ha nulla e allora taglia per lui dell’erba e lo aiuta a costruirsi un sedile.
Su quella semplice base, l’uomo Siddhartha si dispone alla meditazione, e lì si dissolve definitivamente. Colui che si alza dopo molti giorni è completamente altro, è il Risvegliato, il Sublime, il Maestro dei maestri, il Buddha.
Il valore simbolico delle azioni di Svasti è immenso. Egli ha contribuito a dare la giusta solidità, il fondamento su cui tutto il resto si è sviluppato; è bello pensare che la grande trasformazione sia avvenuta anche in forza della dedizione, dell’affetto e della compassione da lui messi in quei semplici gesti. Considerando inoltre l’alternativa che il messaggio del Buddha ha rappresentato rispetto al potere brahmanico e al sistema delle caste, è indicativo e propedeutico il fatto che un gesto di tale importanza sia stato compiuto da un intoccabile.

Il Nirvana

Ecco dunque il momento culminante: Siddhartha saluta Svasti e si siede sul bellissimo cuscino. Sembra che in quel momento egli abbia pronunciato un solenne giuramento, di non alzarsi da lì prima di avere raggiunto la suprema illuminazione.
Pur non avendo alcun riferimento concreto per contestare questa ipotesi, sono portato a considerarla inverosimile. Ci sono due fattori da prendere in considerazione:

● un simile giuramento presuppone un’idea intellettuale di ciò che si vuole raggiungere, e avendo una tale idea non si può raggiungere l’illuminazione, cosa che invece è avvenuta;
● un tale giuramento, per essere rispettato, presuppone un ego solidificato e assai poco suscettibile a sciogliersi ed estinguersi, come invece è accaduto.

A mio avviso, Siddhartha si è semplicemente seduto, gli piacevano il sedile, l’albero, quello squarcio di foresta, la luce della luna, la brezza della sera. Non aveva ormai nulla da fare e non voleva fare nulla, quel posto era il posto giusto, quel momento il momento giusto. Niente da aggiungere, niente da eliminare, nessun prima, nessun dopo. Equilibrio e silenzio. Nessuna resistenza. Abbandono.
E l’universo gli appare per quello che è, una interminabile correlazione di eventi interdipendenti, privi di una sostanziale identità, non irreali ma tutti impermanenti. Ovunque egli guarda non vede alcun ego, cercando Siddhartha non trova alcun Siddhartha.
Dopo quella notte e per più di quarant’anni egli si impegnerà nella predicazione, suscitando ovunque un immenso entusiasmo. Il suo messaggio è semplice, sintetico e facilmente comprensibile, scevro da implicazioni cosmologiche, indipendente dal favore degli dei non meno che dai servizi di coloro che si ergono a detentori della verità. Egli invita all’esperienza e afferma che lo stato supremo è alla portata di tutti, una consapevolezza che è già presente in ogni creatura vivente e vuole solo essere portata in superficie, essere lasciata libera di fiorire.

Glossario

Apsaras: creature celesti di sesso femminile e incomparabile bellezza.
Avidya: ignoranza delle verità trascendentali.
Brahmano: membro della casta sacerdotale che nella società hindu era posta al vertice della scala sociale.
Garuda: animale mitico dalla forma di aquila con parti umane, simboleggia il potere dei raggi del sole.
Jamboo (nome botanico Eugenia Jambolana): albero sempreverde che può raggiungere i 35 m di altezza, con foglie lanceolate.
Karma: azione, ma in senso più ampio anche i suoi effetti. La legge del karma afferma che ogni azione dà come effetto una reazione, e conseguentemente genera karma.
Kshatriya: membro della casta dei guerrieri, che nella scala sociale detiene il secondo posto, subito dopo i brahmani.
Kusa (nome botanico Schleichera oleosa): erba sacra.
Makara: animale mitologico che assomiglia a un coccodrillo, a volte a un delfino, e ha zampe di cane.
Mantra: frasi, parole e suoni che, ripetuti per un sufficiente numero di volte e con la giusta intonazione, permettono di entrare in contatto con particolari aspetti dell’energia.
Pipal (nome botanico Ficus religiosa): albero che può raggiungere i 30 m di altezza, ha foglie ampie a forma di cuore, allungate in senso sagittale.
Prasad: cibo consacrato dal contatto con la divinità durante la puja, che al termine della cerimonia viene consumato dall’officiante e dai fedeli.
Puja: atto di venerazione solitamente rivolto a un’immagine o a una statua di una divinità. Può avvenire in un tempio o in un apposito spazio domestico riservato a questo rito; può essere collettivo o individuale.
Pujashala: sala della puja.
Sadhu: religioso errante dedito all’ascesi.
Sakya: nome del clan di Siddhartha.
Sal, sala (nome botanico Shorea robusta): albero maestoso, dal tronco possente; può raggiungere i 40 m di altezza.
Samana: religioso errante dedito a varie forme di ascesi. È un sinonimo di sadhu.
Vidya: scienza trascendentale, conoscenza della realtà sovrasensibile.

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