Haṃsa Libera Scuola di Hatha Yoga

Maurizio Morelli

SIDDHARTHA IL BUDDHA

L’incendio

Dal momento che Siddhartha si era rimesso in salute e non aveva più bisogno delle sue cure, Sujata era ritornata a occuparsi della statua di Kama. Sentendo che le sue preghiere erano state esaudite, assolveva questo compito con una solerzia e un entusiasmo esaltati dalla riconoscenza.
Come un fiore alla luce del primo mattino, l’amore era sbocciato nel suo cuore e i suoi petali non cessavano di crescere ed espandersi in ogni direzione. Contrariamente a Siddhartha, che era impacciato e dubbioso nel suo sentimento, lei, che pur non aveva alcuna esperienza, era sicura di essere corrisposta, e faceva sempre più fatica a controllare gesti e parole.
Se nella sua permanenza al tempio riusciva a mantenere un certo ritegno, sostenuta dalla rigida educazione che aveva ricevuto, appena lontana non poteva più contenersi, e correva, cantava, parlava con gli alberi e con i cerbiatti, raccoglieva grandi mazzi di fiori con cui adornava ogni angolo della casa, cucinava deliziosi manicaretti che poi distribuiva a piene mani ai Samana di passaggio e ai mendicanti del villaggio. Essendo felice, desiderava che tutti lo fossero e, preda di un’energia incontenibile, non riusciva a stare ferma e sempre doveva essere impegnata in qualche attività.
Un tale atteggiamento allarmò il padre che, per inclinazione, era portato a preoccuparsi di ogni cambiamento e sempre temeva disgrazie e sfortuna, ma lei seppe rassicurarlo con parole accorte: «Il Deva mi si è rivelato, ha preso vita e mi ha parlato, e ora so che le mie preghiere saranno esaudite. Per questo sono così felice, e non riesco a controllare la gioia che provo dentro se non mantenendomi sempre attiva e operosa».
E considerando le preghiere della figlia conformi alle sue speranze, quello si rallegrò assai, e le comandò di aumentare la ricchezza delle offerte e la solerzia nei riti: «Molti si rivolgono agli dei per ottenere soddisfazione, ma dopo averla avuta li dimenticano. A causa di questo però incorrono in grandi sventure, e ciò che sembrava un bene si trasforma nel suo contrario. Diversamente conviene comportarsi, e avendo ricevuto quanto chiesto bisogna a lungo ringraziare, aumentando la propria solerzia nel compimento dei riti. Solo così il favore degli dei può essere conservato».
Facile era per Sujata obbedire ai comandi paterni. Come una coppia di sposi devoti, ogni giorno, all’alba e al tramonto, lei e Siddhartha celebravano la Puja. Lavavano la statua, la veneravano, la vestivano, le offrivano acqua, frutta, miele, riso, latte, ghee e i boccioli dei fiori più belli, cantavano Mantra in suo onore, si genuflettevano. Al termine consumavano il Prasad, il cibo santificato dal rito e ancora per qualche minuto si dedicavano l’uno all’altra, felici di essere vicini.
Una mattina, terminata la funzione, Sujata chiese a Siddhartha quale motivo lo avesse spinto a dedicarsi con tanto accanimento alle macerazioni, fino a rischiare la vita.
«Da quale colpa volevi purificarti con tanto fervore?» aggiunse Sujata. Contrariamente al solito non sorrideva e nel suo sguardo brillava una luce obliqua.
La domanda, posta così all’improvviso e con tanta serietà, mise Siddhartha in agitazione; benché si sforzasse, non riusciva a formulare un pensiero completo e pronunciava spezzoni di frasi sconnesse e senza senso.
Perché si era dedicato alle macerazioni? Ovviamente lo sapeva bene ma ora non riusciva a ricordarlo. E mentre quello era in tale ambascia lei, ripreso il contegno di sempre, lo salutò e si dileguò correndo verso il villaggio.
A lungo Siddhartha ripensò all’accaduto e soltanto dopo molte ore si rese conto che solo quella mattina, per la prima volta, Sujata gli aveva rivolto una domanda diretta. Siddhartha le aveva più volte raccontato della sua giovinezza, di come si svolgesse la vita nel regno dei Sakya, delle sue avventure nella foresta; le aveva narrato tutto di sé senza nulla omettere. La giovane ascoltava avidamente, senza reticenza alcuna, come un bambino ascolta una fiaba che lo avvince. Ma mai, fino a quel mattino, ella gli aveva rivolto una domanda, chiesto una spiegazione, né aveva espresso un dubbio o manifestato un’opinione. Ascoltava e basta.
Così quella domanda, tanto per la sua natura che per l’essere stata posta, lo aveva mandato in confusione. Egli non riusciva a definire una risposta.
«Non per raggiungere la liberazione ma per espiare una colpa, forse per questo mi sono dedicato alle macerazioni. Ma quale colpa?»
I pensieri che lo avevano avvinto nelle ultime settimane e le conclusioni che aveva tratto riguardo alla sua vita, almeno fino alla notte della fuga dal palazzo, non gli lasciavano che l’imbarazzo della scelta.
«Forse non da una, ma da molte colpe volevo purificarmi!»
Mentre passeggiando avanti e indietro nello spiazzo antistante al tempio la aspettava impaziente, rifletteva su che cosa dirle e su come spiegarsi, perché temeva che nelle parole di lei ci fosse un’accusa, o l’anticipazione di un distacco.
Venne finalmente il tramonto.

D’improvviso Siddhartha avvertì un intenso odore di legna e resina bruciata e, girandosi verso il villaggio, nella direzione da cui lei doveva arrivare, vide alte nubi di fumo denso e qua e là sprazzi di fiamme alimentate dal vento. Colto da un terrore improvviso, più forte di qualsiasi altro avesse sino allora provato, si precipitò correndo verso l’incendio, gridando il suo nome. Incontrandola a una svolta del sentiero, quasi la travolse.
Lei procedeva tranquilla, come se nulla stesse accadendo, allegra e sorridente stringendo contro il fianco il paniere con il cibo e le offerte.
Eppure la sua allegria non era la solita allegria, e il suo sorriso non era il solito sorriso, e ancora quella luce obliqua brillava nei suoi occhi.
«Difficile è comprendere l’animo delle donne.» Quante volte Siddhartha aveva sentito questo ritornello, accettandolo come un dato di fatto senza importanza. Ma ora, che avvertiva incontenibile il bisogno di comprendere, a nulla gli serviva quella saggezza da poco. Cercò di parlare ma lei gentilmente gli fece segno di seguirla in silenzio. E rimanendo in silenzio celebrarono il rito.
Trascorse ancora qualche minuto poi, mentre l’odore dell’incendio si faceva più forte, stando in piedi di fronte a lui e guardandolo diritto negli occhi, Sujata disse:
«La foresta brucia!» Aveva il tono e i modi di chi rivela un segreto che altri non devono udire. Poi continuò: «Ogni strada è interrotta e non tornerò al villaggio!»
L’intera notte durò l’incendio, squarciando l’oscurità, e le fiamme cantarono per loro, facendo eco a quel fuoco d’amore che li divorava e in cui, trovandosi, si persero e perdendosi si ritrovarono.
Galopparono insieme su destrieri selvaggi attraversando lande sconfinate, sulla schiena di un Makara si spinsero nelle profondità degli abissi, brindarono con tigri e serpenti, e sulle ali di Garuda volarono tra le stelle del cielo. Attraversarono sottili e verdeggianti vallate, solcate da torrenti impetuosi, si raccontarono segreti stando nascosti nel tronco cavo di un albero di melograno e visitarono le cime innevate dell’Himalaya, giocando a rincorrersi tra le nuvole. E da lì, con un unico balzo, atterrarono sulla sabbia morbida e calda. Davanti a loro si stendeva un fiume meraviglioso, le acque smeraldine striate di giallo, di rosso, di viola e turchino, così vasto che neppure potevano intravederne la sponda opposta. L’aria era come una morbida carezza, la luce frizzante e nel silenzio si scioglieva
una musica dolcissima, la più commovente che avessero mai sentito. Un ponte sottile, tutto intessuto con i petali del gelsomino, si allungò verso di loro e saliti che furono si ritrovarono lì da dove erano partiti, lasciandosi dietro le impronte dei loro piedi, profondamente impresse nella sabbia sottile.

Una tenue luce rossastra già annunciava l’alba e insieme celebrarono il ringraziamento alla divinità e consumarono il cibo sacro, per l’ultima volta.
Un pappagallino volò da un cespuglio, una serpe si immerse nello stagno, un gallo cantò in lontananza, un fiore rosso si posò volteggiando su un tronco caduto. Così come erano divampate le fiamme si estinsero, lasciando solo qualche sottile linea di fumo. Nell’aria tersa le farfalle volavano tra i fiori, apparentemente senza meta.
Ogni cosa era così come doveva essere.
Uscendo dal piccolo tempio, portando con sé solo la fascia che gli cingeva i fianchi, Siddhartha camminò verso il margine della radura dove lo aspettava Sujata. Non ci furono parole, si guardarono solo a lungo negli occhi. E infine Siddhartha si allontanò, dirigendosi verso la macchia più fitta.
Sujata camminò tranquilla in direzione opposta fino ai margini dell’incendio e, trovato un tizzone ancora ardente, lo trasportò al tempio. Radunata della legna e chiamato il dio a testimonianza della sua promessa, con quel tizzone appiccò un fuoco, giurando di mantenerlo sempre acceso, finché ogni cosa fosse compiuta.
Contemplando quel fuoco, che dall’incendio della foresta aveva avuto origine, avrebbe a ogni istante ricordato quella notte, vissuto in quella notte, e fermato il tempo.